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QT n. 19, 10 novembre 2001 Servizi

Tutto questo è globalizzazione

I fatti di Genova a scuola: una singolare lezione di educazione civica all'Iti di Trento.

A Genova si è picchiato con estrema durezza. L’ha fatto la polizia della Repubblica, a danno dei manifestanti, cittadini della Repubblica. I colpi, la paura, il sangue, li fanno rivivere nell’Aula Magna dell’Iti, forse per la prima volta in una scuola, sei testimoni trentini, chiamati dal Collegio docenti, con voto pressoché unanime: Serena Cristofori, Antonio Rapanà, don Dante Clauser, Alberto Brodesco, Damiano Avi, Ettore Paris. Le loro parole, dopo mesi, sono ancora cariche di sorpresa e di emozione. La tensione è anche in chi ascolta, gli insegnanti e gli studenti più grandi, i diciottenni, riuniti per una lezione comune di educazione civica. Il pensiero corre alle immagini televisive di quei giorni di luglio, che oggi si possono rivedere, ampliate, e crudamente montate, in videocassetta. Ognuno cerca, dei fatti, una spiegazione: hanno perso la testa le forze dell’ordine? Erano impreparate? O sono state usate, lucidamente, contro un movimento troppo ingenuo per espellere i provocatori?

Quando tocca a Claudio Giardullo, sindacalista del Silp Cgil, il funzionario di polizia non si lascia commuovere. Affonda il bisturi senza pietà, nel corpo della società italiana di oggi: "Dovete sapere che altre volte, in assemblee come questa, da un’altra parte di cittadini italiani, noi poliziotti siamo invece accusati di non aver ‘menato’ abbastanza i ‘teppisti’ che a Genova protestavano in piazza." Chi legge i giornali, sa che "teppisti" è la definizione abituale con cui il vicepresidente del Consiglio definisce i manifestanti di quelle giornate.

Quale frattura attraversa oggi la società, se un poliziotto si sente in dovere di dichiarare, a un’assemblea che lo ascolta con attenzione, una verità che gli brucia? E ci brucia. Quali giorni ci aspettano, se siamo così profondamente divisi?

Io vedo, in una parte di noi, il rifiuto a ripensare noi stessi, una paura rabbiosa, la convinzione che basti picchiare per far tacere chi critica, e preservare così l’ordine e la sicurezza della nicchia in cui finora siamo vissuti protetti. In un’altra parte c’è l’avvertimento, forse confuso, che sta cambiando la vita che tutti viviamo, che va impostata una politica nuova, globale. Per ridurre le ingiustizie, per arginare i dolori, e i rischi, del mondo.

Dove prendiamo, a buon prezzo, il petrolio e la gomma, per fornire di auto ogni ragazzo che in Europa raggiunge i diciott’anni? Un bambino che nasce oggi nell’Unione Europea, ha una speranza di vita vicina agli ottant’anni, arriverà al diploma, forse alla laurea. Io, che scrivo al computer, insegnante laureato ed anziano, sono figlio del libero mercato corretto dal Welfare. Il bambino della Sierra Leone, in Africa, probabilmente morirà prima dei quarant’anni, analfabeta.

Le giornate di riflessione, a scuola, senza grande originalità, le titoliamo alla Globalizzazione. La parola è nuova ed ambigua, perché anche il fenomeno che essa descrive è nuovo ed ambiguo, intriso di rischi e di opportunità. Il processo, irreversibile, ci svela che il nostro benessere di occidentali, fatto di consumi e diritti, non è tutto merito nostro, ma è fondato su un accesso alle risorse disuguale e rischioso.

Chi affida ai manganelli e ai lacrimogeni il compito di zittire le voci, disordinate e inquietanti, che a Genova interrogano, è anche sicuro, penso, che bombardare Kabul sia l’unico modo per riportare nel mondo la pace, infranta dall’attentato a NewYork. Ma poi mi accorgo che l’associazione è forzata. L’attentato e la guerra sono eventi immani, rischiano, addirittura, di farci rimuovere la nostra "piccola" violenza italiana.

Ulrich Beck ha scritto, già nel 1999, in "Che cos’è la globalizzazione", Carocci Editore: "Ai pericoli del confronto militare tra Stati si aggiungono i pericoli di un terrorismo fondamentalista o privato (che si sta profilando)." Nessuno invece ha previsto che la polizia italiana potesse comportarsi con tanta violenza.

A chi crede nelle maniere forti, si contrappongono quelli, fra noi, in cui invece crescono i dubbi. Che la scuola si interroghi, insegnanti e studenti fianco a fianco nei banchi, è nel buio una fiammella. Ha scritto Lucia, una mia studentessa, nel primo testo in classe all’inizio dell’anno: "Ciò che è accaduto in America ha modificato lo svolgersi dei primi giorni di scuola. Non si è parlato, come di consueto, delle vacanze e dei programmi scolastici, ma delle persone che vivono una disgrazia sulla propria pelle. Ciò che è successo ha colpito gli studenti. Anche per coloro che all’inizio dell’anno scolastico mettono tutto il loro entusiasmo, entrare nel solito edificio, o nel nuovo, non è stato come sempre. Tra i banchi si poteva percepire l’amarezza e la preoccupazione per il futuro. Anche i professori si sono resi conto di come i fatti esterni hanno cambiato l’inizio del nuovo anno, e li ha portati ad assumersi il compito di aiutarci a capire gli avvenimenti. Questo ha, generalmente, aiutato gli studenti ad apprezzare la scuola".

Lucia è una ragazza sedicenne, la conosco appena, non usa la parola globalizzazione. Ma se i giovani, in questi giorni drammatici, guardano alla scuola con qualche fiducia, è il momento giusto per interrogarci. "Anche i professori si sono resi conto di come…", si riconosce con qualche sorpresa.

Dopo l’11 settembre gli strumenti della cultura sembrano deboli e inutili, eppure non abbiamo che questi per porre domande, cercare risposte, mettere a nudo, almeno, le nostre contraddizioni.

Francesco Terreri, economista, ci spiega che nello scenario globale cresce il divario fra paesi ricchi e paesi poveri. I capitali, muovendosi "senza patria e senza identità", accrescono le ingiustizie. Ma cominciano anche a nascere strumenti per arginarle, come la Banca etica, e il Commercio equo e solidale. Ognuno, inoltre, può rifiutarsi, resistendo alle pressioni, di comprare le scarpe e gli zainetti firmati, prodotti che sfruttano il lavoro minorile e inquinano l’ambiente. All’Iti, dopo accurate analisi chimiche, abbiamo scoperto che l’acqua dell’acquedotto comunale di Trento è più sana, e meno costosa, delle acque minerali di marca. Poi ci sono gli obiettivi politici, come la remissione del debito estero ai paesi poveri, e la Tobin tax.

Nell’era della globalizzazione cambia il nostro modo di pensare il tempo e lo spazio, afferma la filosofa Paola Giacomoni. Si riducono le distanze, cadono i confini, è "la fine della geografia". Per Francis Fukuyama, con la caduta del muro di Berlino, e la vittoria del mercato e della democrazia, è anche "la fine della storia". D’ora in poi potrem(m)o dedicarci serenamente al ginocchio di Ronaldo, e ai pensieri di chi sgambetta sul palcoscenico del Grande Fratello, commento ironicamente in classe di fronte ai miei studenti.

E invece, dove ci sono squilibri e contraddizioni, le distanze che si riducono e crescono insieme, la storia riparte. Carlo Ancona è custode e promotore del principio di legalità. L’abbiamo invitato per parlarci, da magistrato, delle violenze di Genova, ma incomincia con il farci notare che la democrazia e la giustizia sono, nel mondo di oggi, dei fiori eccezionali. "Ne godiamo noi, occidentali, ma sulla pelle di altri." Gli scontri sociali sono stati finora attutiti dalle immense risorse che l’Occidente, con gli Stati Uniti alla testa, ha avuto a disposizione.

Il problema, difficile, a cui la storia ci chiama, è se saremo capaci di affrontare, e governare, il cambiamento. Gli interventi dei testimoni mostrano delle sensibilità diverse: "A Genova io ho avuto paura di morire" - ci confida Damiano Avi, giovane studente di Ingegneria.

"Dalla mia polizia, che pago perché mi difenda nei miei diritti, mi sono sentito braccato" - ricorda Ettore Paris - ma non considero il giovane Carlo Giuliani un eroe del movimento."

"Lì abbiamo sperimentato che il cambiamento, necessario, è anche possibile. Abbiamo ritrovato la speranza" - ripetono tutti. E non vengono nascosti i limiti del movimento, immenso, inesperto: "La violenza verbale - ‘assassini’ gridato in faccia ai poliziotti- pare forza, ed è invece debolezza che esaspera gli animi" - ammonisce Alberto Brodesco.

enova è un trauma, che non va rimosso, né dalla società civile né dalle forze dell’ordine." Claudio Giardullo interpreta con un’analisi storico-politica preoccupata ciò che è successo:"Negli anni cinquanta, quelli di Scelba ministro agli Interni, la violenza della polizia contro i lavoratori era un fatto normale. Ma poi, faticosamente, è stato costruito un rapporto di fiducia con la società: abbiamo imparato che la violenza è illegale, che manifestare in piazza è un diritto. Questi equilibri, costruiti negli anni, a Genova sono saltati in tre giorni. Le forze dell’ordine, protagoniste della lotta al terrorismo e alla mafia, sono ridiventate improvvisamente nemiche."

GCon il governo di centro-destra è cambiato il clima politico: invece della prevenzione si privilegia la repressione. "Si è voluto che da Genova arrivasse un messaggio alla società tutta intera: manifestare in piazza il proprio dissenso è pericoloso, perché la polizia è un corpo strutturalmente violento." L’antidoto è ricostruire un rapporto stretto fra la società civile e le forze di sicurezza, per impedire che esse vengano piegate ad un disegno politico di parte. "Isolare i violenti - afferma Giardullo, sottolineando così quanto hanno detto tutti i testimoni di quelle giornate drammatiche - è importante, perché i violenti impediscono che dalla manifestazione arrivi ai cittadini il messaggio che conta".

All’Istituto Tecnico Industriale abbiamo aperto per due giorni le porte: abbiamo ascoltato, e ci hanno ascoltati, in una lezione di "educazione civica", intellettuali, esponenti del variegato movimento "no global", un funzionario di polizia, un magistrato. Abbiamo incontrato persone che scrivono sull’Alto Adige, l’Adige, Vita Trentina, l’Invito, Questotrentino. E’ un mattone di quella che Giardullo chiama "manutenzione della democrazia".

Diresti che su temi scottanti l’attenzione e il coinvolgimento vengono facili. Invece non tutto funziona. A ragionare di politica, in una stagione in cui i legami sociali sono allentati, si fa fatica. Due studenti, davanti a me, seppure arrivati spontaneamente, non attendono di restare delusi dai primi cinque minuti di relazione, ma incominciano subito a giocare a battaglia navale. Persino qualche insegnante (sono in cinquanta i presenti agli incontri, un terzo del totale) passa il tempo a chiacchierare. In sala, sorpresi, li notano, dobbiamo saperlo, altri insegnanti, qualche studente universitario, dei poliziotti. Nei più, tuttavia, le due giornate lasciano una traccia profonda.