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QT n. 15, 14 settembre 2002 Monitor

Dieci giorni al Lido

Il Festival di Venezia, fra il tentativo di non restare un palcoscenico periferico, e le attenzioni alle realtà marginali e industrie in crescita.

Una decina di giorni di Lido e viene voglia di interessarsi di architettura. Come ogni altro festival, anche quello di Venezia vive i suoi momenti di mondanità, di noia, di riflessione, ma sempre con una fretta snob da Cenerentola che, conscia di avere sangue blu, invece di ispirarsi a Grace Kelly sogna di essere incoronata futura Britney Spears. La criticatissima direzione di de Hadeln non ha apportato modifiche sostanziali a quello che potrebbe essere scambiato per un grosso mercato rionale romano, trasferitosi momentaneamente in laguna. Considerato il poco tempo avuto a disposizione dell’organizzatore però, il risultato non è dei peggiori. In questo, come in ogni altro festival, i tre fondamentali elementi sono: la materia prima (in questo caso, ovviamente, i film), l’organizzazione logistica e la rilevanza glamour-pubblicitaria.

Una scena di “Magdalene’s Sisters”, il film che ha vinto il Leone d’oro.

Per quanto riguarda l’ultimo aspetto, nonostante un regolare afflusso di nomi famosi e lo sforzo di alcune soubrette nostrane (Sgarbi sopra tutti), il Lido resta un palcoscenico periferico. Passaggio al volo delle star americane, le divine Loren e Deneuve osannate anche come monumenti storici, prevedibili festini V.I.P.: tutto troppo cliché e senza grande stile.

La macchina organizzativa festivaliera funziona invece dignitosamente. Fra i presenti serpeggiava un certo malumore soprattutto per le enormi zanzare, i costi e le code: niente di serio, insomma. Del resto un broncio a narici alte va sempre di moda.

Il Lido offre molti vantaggi. In primis una nicchia al riparo dai turisti e l’agio di spazi appropriati: quattro sale al palazzo del cinema, una al Casinò, due palatenda si suppone possano accontentare un vasto pubblico. La sala grande del Palazzo del cinema ha ospitato le proiezioni ufficiali dei film in concorso, più alcune proiezioni evento, come il rischioso film ricordo/commemorazione dell’attacco al World Trade Center. Il Palagalileo è diventato il covo degli accreditati stampa e industria (esercenti e produttori), il PalaBNL, poco distante, era destinato a contenere quanti beneficiavano di accrediti culturali e il pubblico classe economy. Le altre sale si dividevano le restanti proiezioni: il riconoscimento al genio artistico di Antonioni, l’omaggio al cinema di Cassavetes, dei Brothers Quay, di Wong Kar-Wai, più cortometraggi e film sperimental-artistici. Nota dolens, il minuscolo schermo della sala Volpi, alcuni inconvenienti tecnici sparsi (sonoro alternativamente a livello da danno acustico o percepibile solo da cani e delfini, brusche interruzioni della pellicola) e l’ottusa rigidità del sistema di accesso alle sale, accompagnato dall’imprevidenza nella gestione della folla.

I residenti del Lido lamentano la difficoltà nel procurarsi i biglietti e il costo. Inoltre, genera fastidio l’eccessivo trambusto e, dulcis in fundo, il fatto che, finito il festival, la situazione delle sale cinematografiche al Lido come a Venezia non sia delle migliori. I forzati del festival (tutti incravattati dall’accredito in bella vista) sono guardati con sospetto. Una signora dall’inconfondibile accento veneziano si lamentava dell’invasione dei "romani prepotenti".

Gli accreditati, per lo più inviati di giornali, figure relativamente marginali dell’industria cinematografica, studenti, attori, si aggiravano da una proiezione all’altra con gli occhi sempre più rossi di stanchezza e delle troppe Red Bull omaggio dei vari party, oppure, seccati, lamentavano di non essere riusciti a entrare in Sala grande per questo o quel film.

Venendo alle pellicole presentate, nascono diverse perplessità: d’accordo, Sophia Loren ormai è sempre più un’icona; criticarla in qualche modo vuol dire esporsi alla lapidazione. Però Between Strangers (Cuori estranei) è troppo. Una classica dimostrazione di come un pedigree di tutto rispetto non garantisca una riuscita degna. Un film patinatissimo, con un cast prestigioso (oltre a Sophia, un altro mito cinematografico, Gérard Depardieu, senza contare Mira Sorvino e Klaus Maria Brandauer) presenta un incrocio di storie che forse, in mano ad un regista diverso o ad uno sceneggiatore più capace, avrebbe avuto una speranza di Oscar. Il film di Ponti (o della Loren? - viene da chiedersi quando la si vede gigioneggiare sorniona nell’ inquadratura iniziale e soprattutto in quella finale, con fermo immagine stile : "Guardatela quanto è brava e ancora bella!") invece annega lo spettatore in un’indeciso mix di buoni sentimenti, vecchiume e noia.

Altra opera totalmente inutile, Au plus près du paradis, con la Deneuve.

A questa apertura da sabato sera nazional-popolare ha fatto seguito una serie imbarazzante, almeno per un festival importante come Venezia, di film decisamente brutti.

Registrate su pannelli in compensato posti davanti al Casinò, le lamentele del pubblico hanno ottenuto un riconoscimento da Gianni Ippoliti. Non sono mancate neppure le lodi, in un festival che proponeva di tutto un po’. Alcuni film in concorso, pur denunciando, come accade ormai da tempo, uno stato di crisi dell’industria cinematografica occidentale, erano pur sempre lavori meritevoli e la giuria si è ben comportata.

In qualche modo tutti i compiti sono stati assolti. Si è avuto il lancio dei grossi film stranieri, che non ne hanno poi grande bisogno: andranno infatti sicuramente bene al botteghino Road to Perdition di Mendes con Tom Hanks, Full Frontal con Julia Roberts e Dolls di Kitano, che esaltano e sono esaltati dal grande schermo.

Si è impartita la benedizione ai film italiani, ma: se la meritano poi veramente? Viene da chiederselorivedendo degli Antonioni da antologia.

Sono state esibite alcune pellicole particolarmente intellettuali o controverse (che ragazzaccio il Larry Clark diKen Park!). Si sono visti film belli, come Lilja 4-Ever, The Magdalene Sisters, Roger Dodger, Far from Heaven, El caballero Don Quijote, Mizu no onna (La Donna dell’Acqua) e Lilly’s Story. Film onesti come The Tracker o Musikk for bryllup og begravelser (Musica per matrimoni e funerali). E anche film brutti e disonesti come Julie walking home di Agnieszka Holland o Pasos de baile, opera prima di John Malkovich. C’è stato infine il ritorno dei film a episodi con Ten minutes-The Cello e 11’09'’01- september 11. Il primo vede riuniti Bertolucci, Denis, Figgis, Schlöndorff, Szabó, Menzel, Radford e soprattutto Jean-Luc Godard in un vago tentativo di fornire un significato. Il significato del tempo? Della recente fortuna del violoncello al cinema? Di come si possono passare 10 minuti a cercare di dire qualcosa? Si accetta ogni risposta, tanto quello che conta è il risultato, in questo caso discontinuo ma interessante.

A un anno dal World Trade Center, una produzione francese, un film fatto da undici registi (Samira Makhmalbaf, Lelouch, Youssef Chahinen, Denis Tanovic, Idrissa Quedraogo, Ken Loach, Inarritu, Amos Gitai, Mira Nair, Sean Penn e Shohei Imamura), in piena libertà d’espressione si interroga invece sul significato di un evento ben preciso. Anche qui il risultato è discontinuo, ma vale comunque 11 Vendredi soir di quella stessa Denis che ha girato un episodio di Ten minutes di profondi contenuti.

Ora che tutto tace al Lido, resta il dubbio: è stato un festival di destra?. La risposta è sì. È stato un festival che tentava di accontentare tutti, piacione, che imponeva un controllo gerarchico della "popolazione", sostenuto da una forte sorveglianza. Ma la risposta è anche no. È stato un festival di contenuti, analisi e attenzione a realtà marginali e industrie in crescita. Queste e molte altre risposte sarebbero ugualmente valide e incomplete, ma trattandosi di cinema la risposta non può che essere: dipende.