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QT n. 22, 21 dicembre 2002 Monitor

L’annoiata brigata di Bernhard

"La brigata dei cacciatori" di Thomas Bernhard mette in scena l'annoiata vita borghese: annoiando.

Non c’è che dire, Thomas Bernhard sapeva come allontanare il pubblico, persino disgustarlo coi suoi testi; e, difatti, "La brigata dei cacciatori" è andata in scena a platea semivuota quasi tutte le serate. Di recente era accaduto solo alla "Moscheta" di Ruzante. Lì fu la lingua a dissuadere, qui, probabilmente, il tema stesso della pièce, nonostante si trattasse di un inedito in Italia.

Thomas Bernhard.

L’autore castigava, non s’ingraziava gli spettatori, e per farlo si rendeva sgradevole anche come uomo, conducendo una vita a dir poco appartata, lontana da cenacoli e salotti letterari. In Austria non lo amavano, ma in questi anni lo stanno riscoprendo, proprio come noi. Peccato che di là dalla satira sociale, feroce e senza attenuanti, il testo di Bernhard rimanga pesante, talvolta indigeribile, per struttura e linguaggio. Forse Marco Bernardi avrebbe dovuto svecchiarlo, pur senza eliminarne l’ossessività; ma così non è stato.

Sul palco tutto procede per minime variazioni o a colpi d’accetta (durata e istante), e in realtà - se si esclude il finale - non avviene quasi nulla. La vita si ripete, noiosa, angosciante, e il teatro la imita. Ma gli avverbi di Bernhard ribaditi allo sfinimento ("continuamente", "ininterrottamente", "di continuo"…) sono un espediente alquanto sterile, una delle cose da cambiare. Meglio quella replica infinita di dialoghi, metafora di un’esistenza stagnante e senza via d’uscita, morte a parte. "Noi siamo esseri umani perché ci abbiamo rinunciato" - afferma lo scrittore, e "ogni essere umano è un essere umano disperato". Ma qui siamo di fronte a uomini e donne che non amano la vita e forse nemmeno se stessi; gente che ha il tempo di andare a caccia, giocare a carte, chiacchierare tutto il giorno, e di lamentarsene pure… mentre i silenzi-sorrisi della serva e del taglialegna sono spesso più eloquenti dei suoi aforismi.

La fine del mondo borghese si consuma in un casino di caccia lussuoso e confortevole, sebbene poco riscaldato. Ma il declino non si vede e il suono degli alberi abbattuti, per il tarlo della corteccia, ne è l’unico indizio.

Il cinismo di Bernhard non voleva muovere a pietà e l’applauso finale - col protagonista appena morto e il sipario ancora alzato! - è stato davvero fuori luogo. Bravi, comunque, gli attori, che hanno dato il meglio proprio nel secondo e più agile atto, dove domina il metateatro.

Se il palco è l’unico tempio dell’autenticità, è naturale che lo Scrittore –- alter ego di Bernhard - lanci le sue accuse agli altri personaggi, e soprattutto al Generale (eroe di guerra senza un braccio), raccontando loro la trama della "Brigata". Ha preso nota di tutto, l’ha trasformato in una "commedia" perché era il solo modo di farli recitare nella parte di se stessi, senza saperlo. Eppure il suo è un esistenzialismo negativo che irrita, che nega ma riafferma la virtù borghese nella sua sconfitta, col suicidio.

I problemi della vita "altra", che poi sarebbe quella del popolo, restano fuori.

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