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Recitar cantando nel make-up televisivo

Quando la televisione drammatizza (e quindi falsifica) la realtà con un uso distorto della voce.

Voglio parlare di televisione, di quel 50% di televisione che è fatto di suoni. I suoni, se forniscono il motivo di parlare di sé, diventano musica. E la musica è il carburante che alimenta il motore del rondò venessiano. Quindi sono in tema.

Ma di quale musica televisiva parleremo? Forse delle strappate di ottoni, un po’ datate ma sempre egregie, della swinging big band diretta dal buon Demo Morselli del Maurizio Costanzo Show? Oppure delle ancor più datate (ma meno egregie) sviolinate, che al virtuale ritmo di fox-trot imbellettano le noiose prove di avanspettacolo di Domenica in?

No, ragazzi, sarebbe troppo facile. La musica che oggi ci interessa è quella della... parola. Anche la parola è musica. Non dimentichiamo che il melodramma, nel Cinquecento, è nato con l’imperativo poetico del recitar cantando: alla musica era affidato il compito di amplificare la grazia, la melodia, la ... musicalità implicita nella parola. Sembrerebbe una tautologia, eppure è così: le nostre parole conservano una specifica espressività suggerita dal loro suono e gli antichi maestri del Rinascimento lo sapevano bene. I musicisti dei successivi 400 anni, passando per Verdi e Puccini, fino a Battisti e Baglioni, sono assai debitori verso questa importante (e poco celebrata) intuizione.

Ma veniamo alla televisione. Quale tipo di parola musicalmente modulata ci arriva dall’invadente elettrodomestico? Beh, intanto c’è quella dello speaker giornalistico: fredda, precisa, ben scandita, con lievi intonazioni commosse quando tratta una disgrazia, o soddisfatte se Schumi ha infilato un altro titolo. C’è poi la parola del doppiatore: un artista-istrione che si immedesima nell’attore a cui dà voce, interpretandolo e a volte reinventandolo, cioè restituendogli una nuova personalità, magari più interessante e intrigante dell’originale, o magari semplicemente più consona al gusto del pubblico nostrano. Non tralasciamo inoltre la poliedrica vocalità dell’imbonitore pubblicitario, che spazia tra i registri più ampi a disposizione della pratica recitativa: dalla commedia dell’arte fino all’assurdo di Ionesco, qualsiasi stile è abbordabile in funzione del prodotto. E, per finire, ci sono gli speaker dei documentari, quelli delle interviste verità, dei reportage giornalistici, dei programmi di storia e cultura: alla loro speciale musicalità vorrei riservare le ultime considerazioni.

Avete notato che sempre più di frequente le interviste a personalità straniere vengono doppiate come si trattasse di veri e propri spezzoni di film? Esempio: intervista al generale Giap mentre racconta le tattiche dei Vietminh usate per mettere nel sacco i francesi a Dien Bien Phu. Sul video Giap appare come un classico orientale: misurato, asettico, per nulla emozionato nelle sue rimembranze. Tutto l’opposto di quanto lo speaker italiano si sforza di trasmetterci: voce rotta dal coinvolgimento emotivo e narrativo, toni enfatici, tanta gigioneria. L’effetto nel migliore dei casi risulta comico, spesso però (almeno a me) riesce così fastidioso da spingermi a cambiare canale anche se l’argomento mi interessa.

Questa crescente tendenza nei cosiddetti voice-over a colorire ad ogni costo le interviste, a condire per forza i loro contenuti con molto sale olio aceto e pepe per renderli più adatti ad essere gustati dal nostro palato sempre più esigente, a ben vedere svela una volta di più la superficialità (o forse ancor meglio la stupidità) insita nel mezzo di comunicazione più diffuso e penetrante della nostra epoca. La televisione rappresenta sempre più il luogo dove avviene la catarsi, la purificazione fatta col Dixan e il Bio Presto, delle nostre coscienze rispetto alle violente lordure che provengono dalla realtà. La televisione ci ripropone persone e fatti altamente tragici e veri porgendoceli in una rappresentazione drammatica, falsamente intensa perchè recitata, quindi finta. Di questo teatro un po’ subliminale gli spettatori sono i nostri cervelli che ricevono gli eventi reali come si trattasse di una fiction, di uno spettacolo allestito per l’occasione. Le interviste alle persone sotto i bombardamenti o ai militari che bombardano, alla gente che muore di fame o ai latifondisti che affamano, ai reduci di Dachau o a qualche nazi in pensione... insomma, le tante e varie voci che provengono dal duro mondo che ci circonda vengono ripassate e ingentilite da questo filtro irritante e insensato che nelle intenzioni potremmo etichettare eufemisticamente "estetico", ma che più propriamente merita il termine moderno e prosaico di make-up.

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