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“L’aula e la città”

Silvano Bert, L’aula e la città. Cronache dalla scuola 1968-2002. Effe e Erre, Trento, 2003, pp. 351, euro 15,00.

Cronache dalla scuola, sono definiti nel sottotitolo gli articoli (oltre cento) raccolti in questo volume. Proviamo a identificare il genere in cui si collocano, o, meglio, cui si possono avvicinare.

Durante gli anni del fascismo, dal 1928-29 in poi, tutti gli insegnanti della scuola elementare italiana avevano nei loro registri alcune pagine rigate da compilare, sotto il titolo Cronaca e osservazioni dell’insegnante sulla vita della scuola. Maestre e maestri erano stimolati da quella rubrica ad annotare le vicende della classe, le difficoltà che si presentavano sulla loro strada, il modo in cui le sapevano affrontare. Grande rilievo avevano poi le occasioni di relazione con l’esterno, in particolare con la vita pubblica: è in quelle pagine che possiamo rilevare oggi l’efficacia del calendario che lo Stato prescriveva alla scuola, fatto di anniversari, di commemorazioni, di celebrazioni, in un rapporto tra politica ed educazione che non fu mai così stringente. E tuttavia, in quegli scritti dovuti, non si trovano soltanto i segni del conformismo di regime, né solo la volontà di compiacere al Direttore, l’autorità gerarchica cui era riservata la lettura. In quelle note riusciva ad esprimersi talvolta, in misura sorprendente per chi ha l’occasione di leggerle ora, un bisogno profondo di fare i conti con i problemi, con le emozioni, con le conquiste del proprio difficile lavoro.

La sensibilità sociale testimoniata da tante annotazioni di sapore deamicisiano rimanda alla complessità del ruolo degli insegnanti, chiamati a disciplinare e a indottrinare, certo, ma anche a mitigare le disuguaglianze, a favorire l’elevazione dei meritevoli…

Gli insegnanti delle medie, negli stessi anni, avevano a disposizione le relazioni finali, per un analogo resoconto: e anche la loro lettura può riservare qualche sorpresa, a chi fruga negli archivi scolastici mezzo secolo dopo. Ma registri e relazioni rimangono documenti tutti interni, anche nella scuola democratica, funzionali al controllo, non alla comunicazione.

Le cronache come quelle di Bert costituiscono un rovesciamento radicale rispetto a quei modelli burocratici. Scrivere della propria esperienza del fare scuola su Questotrentino, su L’invito, su L’Adige è di per sé affermare l’interesse per tutti di ciò che accade nell’aula, è dilatare l’aula a piazza, è riconoscerla come uno dei luoghi in cui si svolge la vita della polis. Il nostro autore non è il primo né l’unico a praticare questo genere: nominati per tutti il giovane Sciascia (1955) e Sandro Onofri (2000), rimandiamo senz’altro a Cronache scolastiche. Un percorso letterario da Cuore a Jack Frusciante (Archivio Trentino, 2001, n. 2), un magistrale saggio di Quinto Antonelli, di cui molti ricorderanno Blocco notes di un maestro di campagna, edito nel 1989 da Questotrentino.

In questo panorama risalta tuttavia l’originalità della posizione di Bert. Nessuno dei suoi antecedenti, a quanto ci risulta, ha coltivato la pratica del diario in pubblico con tanta tenacia. Il tempo della scuola, visto dalla parte dell’insegnante, è ciclico. Gli anni si svolgono uno dopo l’altro, secondo scansioni che sembrano replicare ogni volta gli stessi processi, gli stessi rituali, le stesse fatiche. Molti degli insegnanti più motivati non sfuggono alla percezione penosa di essere condannati ad una variante del supplizio di Sisifo.

L’autore di questo libro, invece, non si lascia vincere dallo scoraggiamento, anche quando registra insuccessi e senso di "inettitudine". Le cose che tornano non sono in realtà le stesse, a renderle sempre nuove è il mutare delle situazioni storiche e politiche. Raccolte in successione cronologica e tematica, le cronache dalla scuola consentono ora di misurare il senso diverso che ha il parlare in epoche diverse del tema e della scrittura, dell’esame di maturità, della lettura del giornale, dell’assemblea di classe e d’istituto, dell’insegnamento della storia e dei poeti, del rapporto tra formazione e professione. "L’aula e la città" costituisce un documento unico di trentacinque anni di battaglie per la riforma della scuola vissute dall’interno dell’istituzione, intrecciate strettamente ad un impegno quotidiano per costruire, attraverso l’operare concreto, una scuola più democratica e, per così dire, più umana.

Nella stagione del governo dell’Ulivo, con Berlinguer e poi De Mauro ministri, alcune trasformazioni incisive finalmente sembrano mettersi in moto, alcuni nodi cruciali vengono affrontati. Bert sostiene con convinzione linee di riforma che nella scuola incontrano diffuso scetticismo. In singoli provvedimenti vede avvicinarsi obiettivi che ha cercato di praticare da sempre, come la dignità assegnata all’insegnamento della storia contemporanea, o il superamento di quella educazione linguistica retorica che aveva nel vecchio tema il suo simbolo. Si indigna quando vede tanti intellettuali di sinistra sparare disinvoltamente su questi limitati quanto sostanziosi passi avanti. Si indigna doppiamente quando vede il terreno della riforma abbandonato di fronte alla campagna distruttiva della destra. Le severe valutazioni degli attuali orientamenti, che percorrono le ultime pagine del libro, non rappresentano di sicuro un’ occasionale schermaglia per partito preso. L’elogio della scuola pubblica, del suo pluralismo, della sua strutturale vocazione al dialogo è uno dei temi forti di tutta la raccolta, fin dalla secca lettera a Vita Trentina che porta la data del 1979.

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La riduzione delle disuguaglianze attraverso la promozione culturale di tutti è una delle radici stesse della sua scelta di insegnante di Bert, affondata nella storia personale, come fa capire il più autobiografico dei suoi articoli, Il bambino che non sapeva che cos’era una cartella. E l’idea di una formazione larga ed umana, che si misuri con le tecniche senza farsene dominare, è uno dei motivi ricorrenti della riflessione maturata in tre decenni di insegnamento in un istituto professionale per periti chimici. L’aula e la città è un manifesto antiberlusconiano anche nelle parti scritte prima che di Berlusconi si sapesse l’esistenza.

Colpisce il ricorrere sempre più frequente, nella scrittura di Bert, della citazione di alcuni testi chiave della grande letteratura italiana. Non si tratta di un vezzo classicistico, incompatibile con il suo stile. E’ come se si volessero marcare, piuttosto, dei segnali di riferimento, in grado di resistere alla banalizzazione e alla frammentazione. Per il lettore sono anche tratti distintivi della carta d’identità di questo cristiano così rigorosamente laico. L’illuminista Beccaria, che prepone l’educazione alla punizione. Il Leopardi della Ginestra e la sua visione degli uomini "tutti fra sé confederati", capaci di aiutarsi "negli alterni perigli e nelle angosce della guerra comune". Il Montale del "male di vivere" e lo Svevo di Coscienza di Zeno. E poi Dante, in grado di prestare le parole per parlare dell’amore, della morte, dell’emigrazione e dell’esilio. La fede nella potenza della mediazione letteraria si assolutizza, in qualche passaggio, in contraddizione con la tensione pluralistica che contraddistingue costantemente il discorso: "Si può amare se non conosci Francesca, Augusta, Nerina? E morire, se nessuno ti ha mai parlato di Silvia e del conte Ugolino?".

Sappiamo che si possono assumere molte altre parole e molti altri racconti, per imparare l’amore e per tentare di elaborare la morte. Un secolo fa servivano bene allo scopo anche i libretti dei melodrammi, in anni più recenti lo sterminato repertorio delle canzoni, che i ragazzi conoscono molto meglio della Divina Commedia.

L’enfasi del passo citato si spiega, crediamo, con la percezione della perdita di una base culturale comune e dell’insidia che questo comporta per il futuro di una coscienza collettiva aggredita dai particolarismi. Tra le buone ragioni per amare la scuola pubblica, riemerge da questo libro anche quella dell’insostituibile contributo che essa dà, nonostante tutto, all’unità profonda della nazione.