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Una casa di povere

Bolzano: Casa Margaret e le sue ospiti. La nuova povertà esiste anche in Sudtirolo.

Non deve essere confusa con le case dei centri antiviolenza, alla cui istituzione hanno portato le lotte delle donne per il riconoscimento della violenza nascosta soprattutto nelle famiglie. Casa Margaret a Bolzano da cinque anni accoglie donne senza tetto. Da sempre c’è il dormitorio, che però accoglie solo gli uomini. Per le donne non c’era nulla. Fu il vescovo Wilhelm Egger a volere questa struttura, lanciando la raccolta di denaro che ha portato, con l’aiuto di tanti e tante, alla sua realizzazione.

Però in qualche modo entrambe esercitano una funzione speciale in questo tempo, tempo del nostro natale sudtirolese di superlusso, quando nelle case si scatena la violenza, denunciata da due anni con grande fermezza dalla Commissione Pari Opportunità, e quando le persone senza casa e senza prospettiva vivono con maggiore dolore la loro condizione di esclusi da quella che è considerata la normalità del consumismo sfrenato.

E’ un fenomeno nuovo, di nuova povertà, legato non solo alle tradizionali cause della tossicodipendenza, dei disturbi psichici e della mancanza di alloggio, ma anche alle separazioni, alla vedovanza o alla perdita del lavoro. Ragioni poco presenti nei criteri classici dell’assistenza. Inoltre la situazione è aggravata dall’impossibile mercato della casa di Bolzano.

Inaugurata nel novembre 1998, la casa ha accolto nel tempo circa 300 donne, e quasi 70 sono in lista d’attesa per uno dei 18 posti letto che vengono messi a disposizioni per un massimo di sei mesi. Attualmente le altoatesine sono 11 e sette le straniere. Numeri in crescita che contraddicono l’illusione che propaganda l’Alto Adige come isola felice e che pongono seri dubbi sull’equità che dovrebbe stare alla base della gestione del ricchissimo bilancio. Anche se non si tratta di numeri significativi, in assenza di una seria ricerca sulle nuove povertà, come quella che è stata fatta nella scorsa legislatura dal Consiglio provinciale di Trento (vedi Lavoro precario, fabbrica di povertà), che ha concluso con l’elaborazione di una relazione finale come strumento concreto di politiche sociali e di assistenza. Meglio non sapere e soprattutto non far sapere.

La casa si trova in una via adiacente a piazza Walther, luogo in cui si celebra il rito del Natale più sfacciatamente commerciale, dove il Comune investe ingenti risorse, e che fa brillare gli occhi alle associazioni dei negozianti con le centinaia di migliaia di visitatori-acquirenti di cianfrusaglie, speck, strudel, in un solo giorno felicemente accalcati in pochi metri quadri, e fa disperare i cittadini e le cittadine soffocati dal traffico selvaggiamente libero.

Donne e bambini sono gli anelli deboli della società: l’accelerazione, la flessibilità del lavoro ma non dei servizi sociali, la crisi della famiglia portano a una riduzione delle risorse che diventa in molti casi drammatica. Alcune giovani donne pagano il prezzo di comportamenti non accettati dalla famiglia, che le espelle, mentre il problema delle straniere è il fatto di avere lavoro ma non alloggio.

Casa Margaret è uno dei servizi di bassa soglia per soddisfare i bisogni primari (un tetto, cibo, vestiario), ma sempre più spesso si deve confrontare con la necessità delle ospiti di ricostruire progetti di vita. Ha quindi sviluppato la collaborazione con servizi sociali specialistici per creare una prospettiva di lunga durata che permetta alle ospiti di uscire dalla situazione in cui si trovano in modo stabile.

Giulia Frasca, responsabile della casa, indica nella disgregazione della vita affettiva l’aspetto drammatico che caratterizza le utenti. "Anche se bisogna stare attenti a generalizzare - spiega - la mancanza di amore, l’abbandono - reale o comunque percepito - segnano fortemente le donne che non sentendosi amate non sanno amarsi. Lavorare sulla loro autostima, sul rispetto di sé, sulla valorizzazione delle loro capacità e risorse è dunque un aspetto molto importante e di conseguenza è essenziale la qualità della nostra accoglienza, la continua disponibilità all’ascolto, al sostegno, all’accompagnamento".

Ma sei mesi – il periodo massimo previsto per l’accoglienza - sono pochissimi, sia per risolvere i problemi logistici, come trovare un appartamento, e tanto meno per riuscire a ricostruire un embrione di prospettiva di esistenza autonoma. Qui si sconta duramente la mancanza o l’insufficienza di strutture territoriali che siano in grado di creare una rete di sostegno per le persone che non rientrano nella difficoltà tradizionale, di mancanza di denaro, ma assumono caratteristiche che l’ente pubblico non sembra in grado o di cui non vuole assumersi la responsabilità.