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QT n. 8, 22 aprile 2006 Monitor

Effetto Glass

Nei cinque giorni della rassegna, a cavallo tra musica, cinema e danza, sul maestro della musica minimalista, riproposte con successo ed intensità le tensioni artistiche degli ultimi trent'anni

Approfittando dei giochi di parole connessi alla traduzione del nome di Philip Glass dirò che dedicare un festival al Filippo il Bello della musica minimalista si è rivelata una mossa scaltra, un vetro attraverso cui interpretare le tensioni artistiche degli ultimi trent’anni e, nello stesso tempo, mostrarsi ad un pubblico molto ampio. Questa operazione, che ha coinvolto 5 diverse entità culturali roveretane, è complessivamente riuscita bene. Gli appuntamenti si srotolavano su una media di 7 ore quotidiane per cinque giorni: si cercherà qui di dare un resoconto sommario di quanto siamo riusciti a vedere.

Philip Glass

Cominciamo col documentario di Eric Darmon Looking Glass, ovvero come vive e lavora l’artista in 60’. Sebbene si tratti di una prova scolastica priva di particolari invenzioni, questo film si lascia guardare e costituisce una sorta di accompagnamento per il più interessante The Fog of War di Errol Morris (vincitore di un Oscar). Infatti, nel primo, si vede Glass che comincia a lavorare alla colonna sonora del secondo. The Fog of War è un documentario/biografia incentrato su Robert McNamara, segretario della difesa con Kennedy e Johnson, dal quale si può capire qualcosa della mentalità degli uomini di potere americani. Un altro film dei sei proposti nei pomeriggi al Mart, Mishima, si è rivelato più stimolante del previsto. In questo caso, la musica di Glass, la torturata esperienza del commediografo giapponese ivi narrata e gli elementi visivi assai raffinati sono una combinazione che rende la visione del film un’esperienza che trasfigura.

Allen Ginsberg

Il primo concerto della settimana, Footnote to Howl, è stato anch’esso un momento coinvolgente. Mentre su uno schermo correvano le parole della produzione poetica di Allen Ginsberg, Glass accompagnava la declamazione delle stesse da parte di Patti Smith. A tratti con un po’ di navigata affettazione, aiutandosi con qualche tipico timbro canoro, Patti ha tenuto il pubblico incollato alle sedie e ai testi. Quando poi si è aggiunto sul palco anche Sollima l’ascolto è arrivato a livelli sublimi.

Per tutti, alla fine del concerto, la possibilità di riascoltare dalla voce di Allen Ginsberg quelle stesse ispirate poesie nello spazio foyer dell’Auditorium Melotti. L’ iniziativa, denominata "Allen Radio Show", è stato un tocco di genio realizzato a metà. Lo spazio è rimasto infatti semi vuoto perché soffocato dagli altri eventi e non organizzato per attrarre il pubblico. Peccato.

Patti Smith

Un altro momento sconcertante è stato la conversazione/incontro fra Patti Smith e Frankie HI-NRG, pomposamente intitolato "Il Fabbro, il Vetro, L’Energia/The Smith, the Glass and the Energy". Il simpatico rapper nostrano si è sforzato di condurre una conversazione in inglese con la cantante su temi di politica italiana. Il risultato è stato un dialogo stentato e noioso. Del resto se l’inglese dell’uno è maccheronico e l’altra tenta in ogni modo di evitare dichiarazioni sensazionalistiche, è difficile creare fuochi d’artificio.

Il concerto del mercoledì, "Études and Other Works for Solo Piano" ha dato modo al pubblico di godersi un a tu per tu con Glass, impegnato nel doppio ruolo di musicista e presentatore di se stesso. E’ stata un’occasione per conoscerlo meglio come esecutore delle proprie musiche e cogliere alcuni accenni del suo rapporto con le partiture. Dreaming Together ha visto la collaborazione fra Sollima, Glass e la coreografa ballerina Molissa Fenley ed è risultato estremamente suggestivo.

Il festival si è concluso con due opere monumentali, altamente esemplificative dello stile minimale di Glass, eseguite dall’Ensemble al completo. La prima, in ordine cronologico di creazione, è Music in Twelve Parts, summa di tutte le tecniche ritmiche elaborate da Glass dal 1964 al 1974, da cui è derivata un’autentica maratona musicale, che ha costretto il pubblico più fedele a quasi cinque ore di ascolto consecutive (pause incluse). Si è trattato di un’esperienza davvero unica e, nonostante qualche défaillance, gran parte degli spettatori hanno resistito tenacemente fino alla fine, prendendo parte ad una sorta di rito iniziatico, tanto più trascendentale quanto più faticoso. Dietro un’apparente precisione e freddezza matematica, che regola gli incastri e le addizioni delle formule musicali in modo quasi maniacale, si avverte una volontà di andare oltre la rigidità degli schemi musicali, attorno ai quali Glass ricama una trama di arabeschi d’ispirazione orientale per ritrovare la centralità del suono a scapito della pura struttura compositiva.

Il regista Godfrey Reggio.

I temi della ciclicità e della ripetizione, scandagliati in tutte le loro possibilità espressive, derivano dalla fascinazione di Glass verso la musica indiana, nata grazie alle collaborazioni con Ravi Shankar e Alla Rakha, che lo iniziarono alle possibilità combinatorie del ritmo additivo. "Un modo di far musica totalmente diverso da quello che mi era stato insegnato. Una volta che vidi questo, mi si aprirono le porte." E, superate tali "porte", è facile perdersi in un labirinto senza fine di suggestioni musicali e mantra vocali.

Meno concettuale e più travolgente, anche grazie al ruolo fondamentale del supporto multimediale, il viaggio visivo e sonoro di Koyaanisquatsy che, in lingua Hopi, significa "vita senza equilibrio". La pellicola cinematografica diretta da Reggio dialoga con la colonna sonora di Glass (1983), seguendone il ritmo incalzante ed ossessivo tramite una successione di piani sequenze sempre più veloci. L’intento ecologista della composizione, in linea con le aspirazioni del movimento New Age, è quello di mettere a contrasto idilliache visioni naturali con frenetiche scene di vita cittadina, ponendo l’accento sulla distruzione dell’ambiente per prospettare un modo di vivere alternativo e il raggiungimento di un "nuovo equilibrio".

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