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QT n. 3, 10 febbraio 2007 Servizi

No agli asili nido: le donne stiano a casa!

Le ingiustizie prodotte dalla decisione della Giunta sulle rette degli asili nido. Conclusione: l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro, ma non su quello delle donne.

Prendiamo in considerazione tre diverse famiglie, tutte composte da una coppia di adulti e da un figlio in età prescolare. Nel primo caso abbiamo una famiglia “ricca”: lui ha un reddito molto elevato, mentre lei, per scelta, non lavora. Vivono in una casa di proprietà, acquistata senza dover chiedere prestiti e situata in una zona ben servita. L’ammiraglia di lui è intestata alla ditta, l’utilitaria di lei è usata solo per piccoli spostamenti. Lei può dedicarsi a tempo pieno al ruolo di madre, crescendo il figlio in casa. All’età di tre anni il figlio è iscritto alla scuola dell’infanzia. La mamma porta il bimbo alle 9 e lo va a prendere alle 15: il servizio è totalmente gratuito. La nostra fortunata famiglia, infine, può permettersi di spezzettare le vacanze in più periodi dell’anno, scegliendo mete all’estero in periodi di bassissima stagione.

Nel secondo caso abbiamo invece una “famiglia di lavoratori”: entrambi i partner lavorano nel settore privato, portando a casa mensilmente un reddito dignitoso. Vivono in un appartamento in periferia, acquistato chiedendo un grosso prestito in banca: ogni mese pagano una pesante rata del mutuo. Da piccolo il bimbo è iscritto giocoforza all’asilo nido e la retta si porta via metà del reddito di lei. A tre anni il bimbo va alla scuola dell’infanzia: anticipi e posticipi, indispensabili per chi lavora, costano alla famiglia 550 euro l’anno. I genitori sono entrambi pendolari, ma la necessità di correre per rispettare gli orari di apertura e chiusura del nido prima e della scuola dell’infanzia poi, li costringe ad essere schiavi dell’automobile: macinano così moltissimi chilometri ogni anno, su ciascuna delle loro due automobili. Nel mese di luglio, quando la scuola dell’infanzia è chiusa, il bimbo va in colonia: 150 euro a settimana. La famiglia è costretta a fare vacanze a ferragosto, ossia quando tutti i servizi sono chiusi (altrimenti non riuscirebbero ad avere ferie sufficienti per accudire il bimbo): due settimane sulla riviera adriatica sono già un lusso. Siccome lavorano entrambi i genitori, il reddito familiare risulta superare la soglia sotto la quale si accede ad agevolazioni pubbliche, cosicché la nostra famiglia di lavoratori paga per intero le tariffe relative ad ogni servizio.

Nel terzo caso abbiamo una famiglia monoreddito: lui è un impiegato in un ente pubblico con un reddito modesto, lei ha scelto di non lavorare per dedicarsi al ruolo di madre. Vivono in un appartamento in periferia, acquistato stipulando un mutuo in banca: per l’acquisto della casa hanno usufruito di un consistente contributo della Provincia, finendo in prima fascia. Lui si reca al lavoro coi mezzi pubblici e la famiglia possiede una sola auto, usata occasionalmente. Il bimbo passa i suoi primi anni di vita in casa e a tre anni è iscritto alla scuola dell’infanzia, senza usufruire di anticipi o posticipi: il servizio è quindi gratuito. Fanno le ferie in giugno, affittando un appartamento al mare per un intero mese, a prezzi da bassissima stagione. La famiglia rientra tra quelle considerate meno abbienti ed usufruisce pertanto di varie agevolazioni pubbliche.

“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, recita il primo articolo della Costituzione. “Ma non sul lavoro delle donne”, verrebbe da aggiungere.

Perché che si prenda in considerazione il costo dei servizi, i loro periodi di apertura nel corso dell’anno o i loro orari durante il giorno, le agevolazioni alle famiglie in base al reddito o quant’altro, tutte le politiche pubbliche paiono essere orientate a spingere le donne-madri a scegliere di non lavorare. Per dirla diversamente: l’Italia è fra i paesi che meno spendono per i servizi alle famiglie, in particolare per quei servizi per l’infanzia che consentirebbero alle coppie di conciliare il lavoro col ruolo di genitori.

Il risultato è che l’Italia è il Paese europeo nel quale si registra il più alto differenziale tra tasso di occupazione maschile (uomini che lavorano in rapporto agli uomini in età da lavoro) e tasso di occupazione femminile: 70 contro 40 per cento, a fronte di una media europea di 70 contro 60 per cento (nei Paesi scandinavi siamo a 70/70).

Eppure, l’occupazione femminile – oltre che essere fondamentale per assicurare una reale parità di diritti tra uomo e donna – è una questione cruciale per la tenuta economica del nostro Paese. L’Italia si trova infatti a dover affrontare il problema del basso rapporto tra popolazione attiva (quelli che lavorano) e popolazione inattiva (tutti gli altri). Più questo rapporto è basso, infatti, più pesano sulle spalle di chi produce (lavoratori e imprese) i costi di mantenimento del resto della popolazione: tutto ciò significa al contempo minore ricchezza individuale (e quindi minore propensione al consumo) e minore competitività delle imprese.

Per affrontare questo problema, da 15 anni il tema della riforma delle pensioni è al centro del dibattito politico: per migliorare il rapporto tra popolazione attiva ed inattiva si tende a mantenere più a lungo nel mondo del lavoro chi lavora già. Non interessa qui discutere se ciò sia o meno giusto, o magari necessario. Ma certo è quanto meno curioso che mentre da un lato per ritardare di due anni l’età della pensione, vale a dire per ottenere un risultato quantitativamente modesto, i Governi rischiano di cadere, dall’altro lato nessuno pare interessarsi di fare alcunché sul tema dell’occupazione femminile, dove i margini di miglioramento sarebbero amplissimi.

L’OCSE – che non è propriamente un collettivo femminista, né può essere annoverato tra i componenti del cosiddetto “partito trasversale della spesa pubblica” – nello “Studio economico dell’Italia, 2005” ha suggerito al nostro Paese, tra gli obiettivi più importanti per accrescere la competitività economica, quello della crescita dell’occupazione femminile, risultato da raggiungere – sempre secondo l’OCSE – anzitutto attraverso un maggiore investimento pubblico su quei servizi che possano consentire alle donne di lavorare, a cominciare da quelli per l’infanzia. Come dire: spendi 100 per gli asili nido e alla fine ti ritrovi 200 in maggiore gettito.

Oltre tutto, se si considera che ormai oltre il 90% dei giovani studia fino al diploma e metà di loro arriva alla laurea, e se si considera quanto costi alla collettività l’istruzione di una persona dalla scuola elementare fino all’Università, appare chiaro che quando una laureata in economia finisce a fare la casalinga stiamo assistendo ad un gigantesco spreco di risorse.

Eppure, ragionare soltanto in termini quantitativi, chiedendo all’ente pubblico di investire di più nei servizi per l’infanzia, rischia di non essere sufficiente (si veda l’intervista al prof. Cerea). E’ necessario anche pensare meglio l’organizzazione dei servizi, affinché rispondano all’obiettivo di consentire alle famiglie di conciliare il lavoro col ruolo di genitori. Altrimenti quegli investimenti si rivelerebbero inutili. Per dirla in altra maniera: abbiamo un sistema di servizi che è modellato attorno alle esigenze di una famiglia anni ’50, nella quale la donna non lavora, e bisogna ri-tararlo attorno alle esigenze della famiglia di oggi.

La Provincia di Trento avrebbe i poteri e le risorse economiche per porsi, su questi temi, all’avanguardia rispetto al resto d’Italia, per essere insomma più europea. E da più di otto anni in qua dovrebbe teoricamente avere anche le risorse politiche per farlo, visto che dal 1998 è governata dal centrosinistra. Ed invece, come ha ben descritto Ettore Paris sullo scorso numero di QT (“Politica della famiglia: realtà o chiacchiere?”), al di là dei proclami la strada intrapresa è stata esattamente quella opposta.

Nella recente decisione della Giunta provinciale di aumentare le rette per le ore di anticipo e di posticipo nelle scuole dell’infanzia, passando da 78 a 180 euro per ciascuna ora, ciò che sconcerta non è tanto l’aumento in sé, quanto piuttosto il fatto che esso vada a colpire esclusivamente le famiglie nelle quali la donna lavora, senza toccare minimamente le altre, rendendo così sempre meno conveniente, per la famiglia, il lavoro della donna.

A fronte di tanti importanti traguardi raggiunti dal governo provinciale in settori quali la scuola, l’università e la ricerca, la mancanza di una seria politica per le famiglie appare il frutto di una carenza di elaborazione. In politichese si direbbe che manca una linea. I recenti clamori paiono essere riusciti finalmente a scuotere la Giunta Dellai: meglio tardi che mai, ma aspettiamo i fatti.

Torniamo alle tre famiglie del nostro esempio iniziale. In quale di esse è meno probabile che si decida di avere un secondo figlio?

Semplice: nella famiglia di lavoratori.

E quante sono le famiglie di lavoratori sul totale delle famiglie trentine? Sono ormai la maggioranza, in costante crescita. E poi ci si chiede perché i trentini fanno pochi figli …