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QT n. 4, 23 febbraio 2008 L’editoriale

In Afghanistan che ci stiamo a fare?

Se lo scopo è distruggere i Taleban, 30.000 soldati sono assolutamente insufficienti. Se è invece la pacificazione, l'azione militare di stranieri ferisce l’autonomia di un popolo e ne perpetua la disgregazione. E allora?

Prodi, D’Alema e Veltroni hanno concordemente proclamato il sostegno alle missioni militari all’estero nelle quali la nostra Repubblica è impegnata. E’ l’etica della responsabilità proiettata oltre i confini nazionali che lo esige. La stessa nostra Costituzione prevede l’obbligo di partecipare ad organizzazioni internazionali che operano per favorire la pace nel mondo. Per meritarsi un distinto ruolo nel concerto della politica mondiale l’Italia non può sottrarsi al dovere di essere presente anche con i suoi soldati nelle zone di crisi. Capisco tutto questo.

Mi pare che tali argomenti siano convincenti per giustificare la presenza di nostri reparti militari in Libano e nei Balcani. Vi svolgono un compito di interposizione tra fazioni locali fra di loro ostili e quindi operano militarmente per evitare il peggio, nella speranza di una evoluzione politica che superi i contrasti e sfoci in una soluzione pacifica. Non sono situazioni facili, ma in esse la presenza di forze militari della comunità internazionale può configurarsi come l’intervento dell’embrione di una polizia mondiale con i crismi dell’autorità di un governo planetario in fieri.

Ma in Afganistan cosa ci stiamo a fare?

Tutto è cominciato dopo l’11 settembre 2001, cioè dopo l’attentato alle torri gemelle di New York. Fu la prima reazione di Bush, che credeva fosse annidato nelle schiere dei Taleban afghani il comando del fondamentalismo islamico che aveva organizzato il proditorio e cruento attacco al centro dell’impero. Fu rapida e risolutiva l’operazione volta a far cadere il governo talebano e ad insediare a Kabul il governo Karzai. Ma il controllo in tutto il territorio di quel Paese è rimasto ancora oggi nelle mani dei Taleban. Gli Stati Uniti hanno chiesto la solidarietà attiva dei loro alleati. Oggi vi sono in Afganistan 31.000 uomini armati, che formano la missione Isaf a guida Nato, impegnati a dar man forte al governo Karzai. Fra questi vi è anche il corpo della nostra spedizione, formato da 2.350 soldati. Le truppe degli Stati Uniti e della Gran Bretagna sembra siano impiegate soprattutto a dare la caccia ai Taleban. I nostri reparti vi svolgono invece un’azione di aiuto alle popolazioni e di ricostruzione di ciò che i lunghi anni di guerra anche precedente al 2001 avevano distrutto. Tanto che la missione militare è chiamata umanitaria, a causa appunto dei fini di assistenza e ricostruzione perseguiti. Ma quali sono i risultati di questi sette ani di presenza di reparti militari, il nostro compreso?

Americani ed inglesi vi svolgono una vera e propria azione di guerra, nel tentativo di distruggere i Taleban.

L’economia dominante è costruita dalla massiccia e diffusa coltivazione dell’oppio. Gli attentati si susseguono con incalzare incontenibile, seminando vittime fra i civili ed i militari afghani e stranieri. Ben 12 nostri concittadini sono periti, da ultimo il maresciallo Giovanni Pezzullo. Pochi giorni fa, a Kandahar, l’ennesima esplosione ha fatto una strage lasciando senza vita 80 persone.

Non vi pare che sia il caso di domandarsi se non vi sia qualcosa che non funziona in questa missione umanitaria? Cosa essa abbia di umanitario è difficile vedere, visti i risultati che sono sotto i nostri occhi.

Coloro che di essa hanno una concezione militare e repressiva denunciano l’inadeguatezza dei mezzi che vi sono impiegati. Si chiedono più soldati e più armi. E non vi è dubbio che se lo scopo è quello di distruggere i Taleban, snidare i resistenti e schiacciare la guerriglia, i 30.000 soldati della Nato là dislocati sono assolutamente insufficienti. E viceversa, se l’obiettivo ambito è invece la pacificazione fra le diverse etnie che formano la popolazione, il disarmo delle fazioni in conflitto, l’aprirsi di un dialogo sull’avvenire economico e civile di quel popolo, la presenza dei militari stranieri costituisce una provocazione, un cuneo che ferisce l’autonomia di un popolo, un pretesto per alimentare la rivalità.

Le ragioni che hanno indotto il governo Prodi a ritirare le nostre truppe dall’Iraq sono egualmente valide per adottare l’identica misura anche dall’Afganistan.

Entrambe le avventure sono iniziate sull’onda della criminale reazione di Bush all’attentato dell’11 settembre. Vogliamo attendere che l’iniziativa riparatrice venga dal nuovo presidente degli Stati Uniti?