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QT n. 12, dicembre 2011 Trentagiorni

Lucio Magri

Lo vidi per la prima volta a Roma, a un’assemblea nazionale del Manifesto: piccolo, una vocetta troppo acuta, “Ma è tutto qui Lucio Magri?” Ma via via che parlava, la proprietà dell’eloquio, l’acutezza dell’argomentazione, il fascino delle idee prendevano il sopravvento e non potevano non ammaliare; e allora notavi anche gli altri lati, fascinosi, dell’aspetto: i folti capelli precocemente grigi, il volto deciso e delicato da attore francese, gli occhi azzurrissimi e penetranti. Ecco, Lucio Magri riusciva a impersonare - in un pur precario equilibrio, come avremmo poi scoperto - una perfetta fusione tra il fascino dell’aspetto e quello delle idee.

Le idee appunto: erano quelle del “Manifesto”, rivista e poi gruppo politico che, radiato dal Pci, si proponeva di offrire una sponda, ideale e politica, ai movimenti del ‘68-’70, nell’alveo della miglior tradizione comunista - Gramsci, Luxembourg - profondamente rivisitata. “La maturità del comunismo” era il concetto di fondo: la società era pronta a passare direttamente, dall’economia capitalista del mercato e dello sfruttamento a quella comunista del “a ciascuno secondo i propri bisogni”, saltando il passaggio intermedio del socialismo (“a ciascuno secondo il suo lavoro”).

Su questo assunto si articolavano una serie di proposte, tanto affascinanti quanto utopiche: la nuova scuola doveva essere un continuum egualitario con la società, “quattro ore di studio e quattro di lavoro per tutti”.

La realtà era diversa. Magri se ne rese conto prima di altri. Prima di noi, militanti di base. Con Rossana Rossanda, peraltro più defilata, era il nostro punto di riferimento, politico e ideale. Lo vedemmo via via correggere il tiro, cambiare le tattiche, adeguare le proposte, proporre e disfare nuove alleanze. E allora incominciammo ad accorgerci delle caratteristiche dell’uomo che non ci piacevano: troppo vanitoso e anche esibizionista, a un convegno passò sul palco metà tempo tenendosi sulle ginocchia la splendida figlia diciassettenne della Castellina; troppo mondano, la sua storia con la contessa Marzotto; troppo leaderista, per noi che eravamo profondamente antiautoritari. A differenza di Rossanda, di Pintor, Magri era “il” leader, ma non era amato.

Forse eravamo ingenerosi. L’ultima volta che lo vidi, era a un dibattito che avevamo organizzato a Trento. Non dormì al Grand Hotel, ma a casa mia; e la mattina si mise a rifare il letto.

In definitiva fu coerente con se stesso. Sepolta nell’oblio la maturità del comunismo, rimase comunque attaccato all’idea di una società più giusta, di cui però non vedeva più la traduzione politica. Ritornò nel Pci nell’84, ma non lo seguì nelle successive evoluzioni. Forse aveva anche dei problemi a rapportarsi con una realtà che non amava e gli sfuggiva: non usava né il bancomat né il cellulare, mi dicono.

Infine, la Svizzera.

Varrà la pena leggere i suoi ultimi scritti..