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QT n. 1, gennaio 2016 Cover story

Asilo in Trentino: funziona così

Profughi: quanti sono, a cosa aspirano, come vivono, cosa si fa per loro. E le obiezioni di chi non li vorrebbe.

Imparando il mestiere del casaro

“Per quanto tu possa essere un operatore professionista, è difficile essere preparato per un fenomeno migratorio del genere. La prima volta che è passato un gruppo di eritrei al campo di Marco gli abbiam dato vestiti, qualcosa da mangiare, poi la mattina dopo erano spariti. Noi ci siamo anche rimasti male - mi racconta ridendo - pensavamo di averli offesi o chissà cosa. Poi ci hanno detto che ‘dei neri’ erano stati visti camminare sulla ciclabile in direzione nord. Camminare! E allora ci siamo resi conto che noi eravamo solo una piccola tappa del loro progetto migratorio”.

Gli operatori del Centro Astalli Trento ne hanno viste un bel po’ in questi ultimi anni. Dal 2005 in Trentino, questa associazione aderente al JRS (servizio dei gesuiti per i rifugiati) si occupa - insieme ad ATAS onlus, e dal 2014 assieme ad varie altre associazioni - delle persone che richiedono protezione internazionale allo Stato italiano.

Astalli ha base a Roma, la sede di Trento fu costituita come punto di appoggio per i rifugiati che venivano a cercare lavoro al nord. All’epoca rifugiati in queste zone non ce n’erano; ma dopo la guerra civile di Libia i numeri sono esplosi, e la fine del 2015 vede un migliaio di persone ospitate sul territorio sulla base di un modello di accoglienza diffusa.

Qualche volta è pesante impegnarsi nel confronto con le realtà periferiche: paradossalmente è molto più facile piazzare una sessantina di africani in un palazzo anonimo in via Brennero, dove non se ne accorge nessuno, che accompagnare tre o quattro maliani in un paesino di valle e venire accolti dagli striscioni su ogni casa che dicono ‘Via i negri, non li vogliamo qui’. Poi però questi ragazzi si sistemano, e poi una signora porta una torta, e poi qualcuno viene a vedere, e insomma funziona così, poco alla volta”.

A Castel Drena

Non si può essere felici del fatto che persone spinte dalla miseria, dalla guerra o dalle persecuzioni debbano fuggire fino a qui, ma è positivo che la situazione sia gestita in modo organizzato, con una precisa struttura, proprio grazie al team di operatori e al coordinamento di Cinformi, unità operativa del Dipartimento Salute e Solidarietà Sociale della Provincia. Grazie a Cinformi la PAT gestisce direttamente l’accoglienza ai migranti forzati al posto dello Stato, e si appoggia al privato sociale per gli aspetti operativi. (Dettagli sul lavoro di Cinformi si trovano nel servizio di Corrado Consoli su QT di marzo 2015, intitolato “Profughi, non clandestini”).

È tutto rose e fiori? No, assolutamente. Servono strutture per l’alloggio, e qualche volta si adottano soluzioni rapide ma poco efficaci, come ospitare sessanta persone alle Viote del Bondone, lontane da ogni forma di civiltà. A volte gli ospiti cambiano destinazione sotto la pressione delle proteste. Ma rispetto ad altre situazioni presenti in Italia, dove nei centri di raccolta vengono ammassate migliaia di persone con supporto minimo e a rischio concreto di sfruttamento, il Trentino riesce a costruire progetti di inserimento efficaci.

Qualcuno obietterà: “Non c’è da stupirsi, noi trentini non ne approfittiamo come fanno altri per mandarli nei campi di pomodori”.

Quanti sono in Trentino
Presenti al 16/11/2015905
Richiedenti/titolari protezione853
Potenziali vittime di tratta10
Minori non accompagnati42
Arrivati nel 20151282
Usciti nel 2015729
Età media25
Maschi840
Femmine65

Fonte: Cinformi

Ricordiamo però che i nostri numeri sono ancora bassi. Fino a pochi mesi fa ospitavamo meno di 500 persone, contro le 3200 del Friuli o le 5800 della Puglia. Il 2015 è stato un anno di svolta, in cui al Trentino è stato chiesto di allinearsi con le altre regioni: siamo passati rapidamente a 900 persone ospitate, con le conseguenti difficoltà (puntualmente amplificate dalla stampa locale), e sono previsti ulteriori incrementi con il prossimo anno.

Le regole

Pulizia delle strade

I profughi che richiedono protezione internazionale sono solo una parte del flusso di persone che arrivano in Italia da paesi stranieri. Sono destinati ad entrare in un percorso strutturato e complesso, con grande attenzione agli aspetti legali e il rischio di essere respinti dopo oltre 12 mesi di attesa. Alcuni preferiscono seguire la via della clandestinità, per altri viceversa l’asilo è un’occasione di tentare la sorte: così, tra coloro che effettivamente hanno diritto alla protezione si trovano anche dei poveracci che semplicemente cercano una vita migliore nella mitica Europa, oppure dei lavoratori emigrati in Libia, che sono stati sorpresi dalla guerra civile e non desiderano tornare a casa perché per la propria famiglia rappresentano un investimento che deve ancora fruttare.

Umanamente tutte le persone in difficoltà meritano compassione e aiuto, ma sul piano legale le regole sono ben precise:

- Lo status di asilo politico è concesso solamente a chi nel proprio paese d’origine viene perseguitato a causa della sua razza, religione, nazionalità, particolare gruppo sociale o opinione politica. Dura per 5 anni ed è rinnovabile; comprende un titolo di viaggio e dà accesso alla procedura di cittadinanza.

- Ottiene la protezione sussidiaria chi subisce persecuzioni come singolo individuo (ad esempio: perché la sua famiglia è coinvolta in una faida tribale e i suoi genitori sono stati uccisi). Dura per 5 anni ed è rinnovabile.

- Infine, ottiene il permesso di soggiorno per motivi umanitari chi non rientra nei due casi precedenti ma si trova in particolari condizioni di fragilità (salute, età) che al momento sconsigliano il suo rimpatrio. Dura 2 anni.

È una commissione a decidere sulla base di un breve colloquio se la persona appartiene ad una di queste tre categorie o se invece deve essere rispedita a casa, ricevendo il cosiddetto “diniego”. Ci si arriva attraverso un percorso complesso che vogliamo raccontare attraverso due storie ispirate a casi reali.

Due percorsi: Amin e Louise

Riparazione delle bici alla fiera “Fa’ la cosa giusta”

Amin è un uomo del Mali, ha 32 anni ed è arrivato dalla Libia. Suo padre era il capo del villaggio, la sua famiglia è stata uccisa e lui si è salvato fuggendo nella capitale Bamako, poi si è spostato in vari paesi dell’Africa facendo lavori pesanti. In Libia aveva trovato un posto come muratore a Bengasi, poi con la guerra ha mollato tutto ed è salito sui barconi.

Louise viene dalla Nigeria, dal Delta State, ha 24 anni. Ha attraversato il deserto con i camion insieme ad alcuni conoscenti e poi ha preso un barcone che l’ha portata in Sicilia. Ha rifiutato la possibilità di affidarsi ad un’organizzazione che le avrebbe organizzato il viaggio aereo, perché aveva sentito dire che poi l’avrebbero costretta a prostituirsi.

Il loro primo impatto con il Trentino inizia al campo che la Protezione Civile ha allestito a Marco. Qui le persone vengono accolte, ricevono vestiti puliti e vengono svolti accurati controlli sanitari.

La cosiddetta “prima accoglienza” è una fase abbastanza concitata, specialmente nei mesi estivi in cui dalla Sicilia continuano ad arrivare pullman di persone, che in alcuni casi arrivano a Campo Marco con ancora addosso i vestiti che avevano sul barcone. A volte manca persino la lista delle persone, arriva semplicemente un foglio con un numero “31 uomini, 8 donne”. Si cerca quindi una primissima identificazione.

Se questo non è già avvenuto, viene poi effettuato il fotosegnalamento: la registrazione della persona e delle sue impronte digitali. Secondo il trattato di Dublino, il paese UE responsabile per l’accoglienza dei richiedenti asilo è il primo nel quale essi arrivano; il fotosegnalamento ufficializza qual è questo paese.

Sappiamo dalle cronache che molti transitano dall’Italia ma cercano di arrivare nei paesi del Nord Europa, più ricchi di opportunità, dove spesso trovano comunità di connazionali. Per questo motivo in tanti cercano di sfuggire al fotosegnalamento e recentemente l’Unione Europea ha sanzionato l’Italia, accusandola di avere consapevolmente “lasciato passare” in questa maniera decine di migliaia di persone. Che escono dalla tutela del sistema di protezione, di fatto “scompaiono”, per poi ripresentarsi in qualche altro angolo d’Europa e lì registrarsi.

La vera e propria richiesta di protezione inizia con la compilazione del modulo C3, che avviene tipicamente tre mesi dopo l’arrivo. In questo i richiedenti vengono assistiti dalla sezione legale di Astalli, che spiega loro la procedura con l’aiuto di interpreti.

“Va bè ma tanto parlano tutti francese o inglese”.

Magari! Quelli scolarizzati sì, ma può capitarti una persona che parla solo la propria madrelingua. Trovalo poi un interprete di bambara o di urdu...

Un momento di festa

Secondo il modello dell’accoglienza distribuita, le persone vengono spostate in varie sedi a disposizione di Cinformi su tutto il territorio provinciale: quando possibile si tratta di appartamenti in coabitazione. In questo modo si evita di creare dei ghetti e si facilita, almeno in certi casi, l’accettazione da parte della popolazione locale. Amin, ad esempio, viene mandato a Padergnone, mentre Louise arriva in un appartamento di Roncafort.

Le sedi vengono individuate in vari modi: molte sono di proprietà pubblica o di enti di accoglienza, alcune della diocesi, altre ancora messe a disposizione da privati a titolo gratuito o a pagamento. Su queste ultime si sono concentrate numerose critiche, tanto che l’ultimo bando della Provincia per individuare nuovi appartamenti e residence è andato deserto.

“Certo che ci costa un sacco di soldi! Oltre alle case gratis, a ognuno di questi gli diamo 30 euro al giorno!”.

La famosa bufala dei 30 euro... In realtà, quella è la cifra che viene spesa complessivamente, e comprende i costi di vitto e alloggio (che restano sul territorio), di assistenza e l’abbonamento ai mezzi pubblici. Ai richiedenti protezione viene corrisposta una cifra di 2,5 euro chiamata “pocket money”, che solitamente usano per comprare schede telefoniche e chiamare casa.

Louise e Amin, come tutti gli altri, vengono inseriti in un progetto di accoglienza e integrazione. I progetti possono fare capo ai fondi SPRAR o a quelli della “accoglienza straordinaria”: ai primi (che permettono di partecipare ad un tirocinio formativo) accedono le persone che raggiungono il Trentino con mezzi propri o vengono accolte dalla strada e dai dormitori, mentre l’accoglienza straordinaria è riservata a tutti gli altri richiedenti arrivati direttamente dal mare; è questo il caso di Amin e Louise.

“Ma non potrebbero partecipare anche i senzatetto di qui?”

Chiaramente i fondi per i richiedenti asilo sono riservati a chi richiede asilo, per i senzatetto ci sono progetti e finanziamenti differenti. In ogni caso togliere i profughi dai dormitori è una buona cosa per tutti, perché liberano l’accoglienza di ‘bassa soglia’ riservata normalmente ai senzatetto.

Lavorare? Proibito

Brentonico: una mano in cucina

Dopo la presentazione del modulo C3, per alcuni mesi i richiedenti protezione non possono lavorare. Fortunatamente questo intervallo è stato ridotto recentemente a soli due mesi, perché l’attesa di un’opportunità lavorativa e quindi di un primo riconoscimento personale diventa una ragione di stress e nervosismo.

Curiosamente, una contraddizione che caratterizza il percorso dei richiedenti è rappresentata proprio dal desiderio di lavorare. Molti di loro sono fuggiti dal proprio paese con la speranza di “sistemarsi” in Europa, allontanandosi da guerre e persecuzioni e rifacendosi una vita, ed è evidente che questa prospettiva passa dal trovare un lavoro e uno stipendio. Tuttavia, fintanto che partecipano ai progetti di accoglienza questa desiderio è tabù: se dichiarano sui moduli che il loro intendimento è trovare un’occupazione, è facile che la Commissione li etichetti come migranti economici e li spedisca in un centro di espulsione.

“Ma come? Questi vogliono lavorare e devono dire che non lavorano?”.

Già. In questo modo li introduciamo a uno dei valori fondanti della cultura occidentale: l’ipocrisia.

Esiste il rischio che alcuni, spinti dall’inazione e anche dai pochi soldi a disposizione, si facciano tentare dai propri compatrioti ad entrare in attività illegali: tipicamente lo spaccio di stupefacenti. Le donne a volte vengono coinvolte nella prostituzione, ma si tratta per lo più di persone che sono state inserite nella tratta fin dalla partenza dal paese d’origine e spesso vincolate con l’obbligo di pagare i costi del viaggio.

“Quindi noi li manteniamo e questi si arricchiscono facendo i delinquenti?”

Difficilmente si arricchiscono, è più facile che vengano sfruttati. Gli operatori di Cinformi dedicano massima vigilanza a queste situazioni anomale.

Proprio in questa fase il ruolo degli operatori è cruciale e prezioso. Ognuno di loro è coinvolto in una équipe multidisciplinare composta da psicologi, insegnanti di lingua, assistenti sociali, operatori legali, oltre alle figure che si occupano dell’accoglienza negli alloggi e dell’integrazione lavorativa. È l’equipe che costruisce insieme al richiedente protezione un progetto di inserimento nel mondo del lavoro e nella comunità, dialogando con gli attori locali. E aiutando il profugo ad affrontare la struttura burocratica di un paese occidentale, che per molti è una realtà completamente nuova: “Contratto? A cosa serve?”

Non dev’essere un lavoro semplice. Gli operatori con cui parlo sono giovani, estremamente professionali ed hanno la pazienza di gestire sorridendo una varietà di situazioni. Negli ultimi due anni il tema dei rifugiati è finito sotto i riflettori ed è stato strumentalizzato in ogni modo possibile, non faccio fatica ad immaginare che camminino sulle uova.

Sono passati alcuni mesi, Louise ed Amin si presentano tutti i giorni al corso di italiano (anche perché altrimenti gli tagliano i viveri...) e qualche volta vanno a seguire le conversazioni con un gruppo di volontari al caffè Social Stone. Hanno capito più o meno come funziona tutta la trafila burocratica e legale, e stanno discutendo con gli operatori per capire come recuperare una documentazione che convalidi la loro storia.

La “storia” ha un’importanza particolare nella vicenda del processo di richiesta di protezione. È la base per la decisione della Commissione: deve quindi essere confezionata in modo opportuno e documentata.

Inutile dire che alcuni richiedenti asilo decidono di “arricchire” la propria vicenda con dettagli opportunistici, cosa che diventa controproducente se per caso cadono in contraddizione.

“Quindi le storie che senti in TV sono balle!”

No, è un discorso diverso: devono mettere in luce le cose che gli fanno “vincere” il permesso di soggiorno. Se dicono che a casa loro li hanno torturati perché sono cristiani allora va bene, se invece raccontano che hanno attraversato il Sahara a piedi o che in Libia li hanno violentati in carcere questo non conta granché.

A un certo punto Louise trova lavoro come inserviente in una ditta di pulizie, mentre Amin gira e gira lasciando decine di curriculum, ma in questo periodo, di un muratore africano non se ne fa niente nessuno. Per lui è un momento molto difficile, comincia a diventare aggressivo e vengono coinvolti gli operatori del servizio psicologico. Amin viene selezionato come volontario di supporto agli ingressi di Trento Fiere.

La TV dice che tra i siriani ci sono tanti medici e ingegneri...

Da queste parti ne vedremo pochi. La migrazione dei siriani passa raramente dalla Sicilia e dal Trentino; qui arrivano principalmente abitanti dei paesi subsahariani e del Pakistan, con un tasso di scolarizzazione mediamente basso. In ogni caso i siriani proseguono subito per la Germania e la Svezia. Rendiamoci conto che il sistema economico trentino e italiano, in genere, offrono poco o nulla ad un profugo con un alto livello di istruzione.

Louise bocciata, Amin promosso

Appena arrivati al campo della Protezione civile

Nonostante tutto, Amin si trova molto bene nel suo appartamento, con persone del suo paese tra le quali è il più anziano. Quando non sono impegnati a scuola o con il lavoro, nei colloqui con gli operatori o nelle attività di intrattenimento organizzate dai volontari, vanno in giro insieme cercando di ingannare il tempo in attesa della Commissione.

Tra i due, chiaramente, Louise ha più occasioni di utilizzare la lingua italiana e la impara più rapidamente. Ma anche Amin se la cava, imparando a chiedere qualche indicazione quando va a fare la spesa e continuando a farsi prendere in giro dai suoi compagni più giovani.

Con il tempo Amin comincia a lamentare qualche problema di salute, non perché sia più fragile, ma perché ha scoperto che la sanità è valida e non la deve pagare. L’effetto collaterale è che alcuni dei richiedenti asilo diventano letteralmente ipocondriaci...

L’esito della Commissione è una doccia fredda per Louise: il diniego. Non ci sono le condizioni per concederle alcuna forma di protezione. Ora di fronte a lei ci sono due alternative: accettare il verdetto o fare ricorso. Se accetta il diniego diventa irregolare, riceve il foglio di via e deve rientrare a casa con mezzi propri (cosa ben poco realistica per un migrante nullatenente!) o lasciarsi rinchiudere in un Centro di Espulsione, nel quale prima o poi un rappresentante del suo Paese verrà a riconoscerla e a portarla via.

Per il ricorso ci sono avvocati che potranno assisterla pro bono, ma dovrà farsi carico delle spese legali con alcune centinaia di euro risparmiati lavorando.

Il processo di valutazione mediante commissioni è stato molto criticato, per l’eccessivo potere arbitrario delle commissioni stesse alle quali non partecipano gli operatori dell’accoglienza. Mi dicono che l’esito di un caso dipende molto da come è composta la commissione, e che per questo motivo la presentazione del ricorso è spesso motivata.

Amin invece ha ricevuto la protezione sussidiaria ed è al settimo cielo. Ora, però, inizia una fase difficile per lui: il progetto di accoglienza durerà ancora pochi mesi, al massimo sei, e poi dovrà arrangiarsi. Trovare un lavoro e un alloggio.

“Meno male che non li manteniamo a vita! Ma comunque sarebbe meglio aiutarli a casa loro”.

Ne sarebbero felici anche loro. Dopo le feste organizziamo un esercito di diecimila persone che scende in Africa, rovescia un paio di governi corrotti, stermina le organizzazioni terroristiche ed impianta attività economiche competitive. Ci stai?

Se volete informazioni più specifiche sul complesso fenomeno delle migrazioni forzate, potete trovare informazioni ricche ed analitiche su diversi siti, ad esempio www.cinformi.it, www.meltingpot.org, www.osservatoriomigrazioni.org.

Qui abbiamo provato a raccontarvi la quotidianità dell’accoglienza, la sua gestione, che effettivamente risulta basata sul rispetto dell’individuo e sulla creazione di opportunità di inserimento nella società. È ovvio che la quotidianità è fatta di difficoltà, problemi, errori, crisi e litigate. Che ci sono le mele marce e i momenti di sconforto. Con queste note abbiamo voluto descrivervi come in effetti, contrariamente a quanto spesso si dice, si stia facendo un buon lavoro.

E il Trentino ci guadagna

La buona notizia è che i soldi spesi per i richiedenti asilo, per le peculiarità dell’Autonomia, sono soldi che fluiscono dalle casse dello Stato centrale e vengono trasferiti sul territorio. Grazie all’autonomia fiscale che mantiene sotto gestione locale il 90% del gettito, questi contributi sono un grazioso extra stanziato da Roma per la realizzazione in provincia di Trento di alcuni dei progetti di prima accoglienza.

Considerato che i soldi, i famosi 30 euro al giorno, vengono integralmente spesi nell’economia locale trentina per il vitto, l’alloggio dei migranti, le attività svolte dagli operatori e - attraverso il pocket money - le sigarette e le schede telefoniche, succede che il flusso migratorio ha reintrodotto l’antica usanza dei “soldi da Roma”, che con il patto di Milano del 2009 era stata di fatto abbandonata.