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QT n. 2, febbraio 2018 L’editoriale

L’Autonomia degli egoisti

Maria Elena Boschi sarà candidata dal PD alla Camera nel collegio uninominale di Bolzano. Saranno dunque gli elettori altoatesini a rispedire presumibilmente l’ex ministra in Parlamento.

La notizia della candidatura ha fatto esplodere le polemiche; sorvolando sulla grama vicenda di Banca Etruria, infatti, non è mancato chi ha fatto notare che durante la sua permanenza al Ministero per gli affari costituzionali Boschi si era espressa a favore dell’abolizione dell’autonomia speciale: cosa, questa, non particolarmente apprezzata da chi dell’autonomia speciale sta tutt’oggi beneficiando.

Non è detto, d’altronde, che ai tempi del ministero Boschi avesse le idee chiare in tema di autonomia; né è detto che le abbia adesso. L’autonomia è infatti una materia costituzionale complessa. Che non si riduce alla definizione delle autonomie speciali: le successive riforme del titolo V della Costituzione, da ultima quella del 2001, hanno assegnato man mano sempre più competenze alle regioni. E nel frattempo le risorse erogate a regioni e Province autonome, un tempo effettivamente cospicue, sono calate e il divario economico si è ridotto.

Eppure la lagnanza sui privilegi dell’autonomia, in particolare da parte delle regioni confinanti, non si attenua. Ma cosa viene contestato, esattamente?

A ben vedere, più che di autonomia, si tratta di gestione delle finanze. O meglio ancora: di arbitrio nella gestione delle finanze.

Va a questo punto ricordato che la Lega Nord insisteva sul concetto di federalismo già nei primi anni Novanta. Erano i tempi di Gianfranco Miglio e del concetto di macro regioni, concetto presto abbandonato a favore di un più radicale (e forse sincero) piano secessionista.

In effetti la sensazione è che per le regioni del Nord, e in particolare per Lombardia e Veneto, “federalismo” significhi sganciarsi il più possibile dallo Stato e scrollarsi di dosso il fardello parassita del Centro-Sud.

Il ragionamento “autonomista” delle regioni ricche, in quest’ottica, è semplice: perché noi, che produciamo ricchezza, dobbiamo farci carico di territori che producono poco o niente e che sono rinomate per il malaffare? Seguendo questo schema logico, però, si potrebbe procedere ad una continua e successiva parcellizzazione: una regione è più produttiva di un’altra; all’interno di quella regione alcune province saranno più virtuose; in quelle province virtuose ci saranno comuni trainanti e altri più deboli; e così via, fino ad entrare in ogni singola casa, dove qualcuno metterà in tasca un ricco stipendio e qualcun altro sarà invece disoccupato.

A chi serve tutto questo? Chi può trarre veramente giovamento da questa logica divisiva?

Nell’equilibrio democratico, che è anch’esso cosa complessa e che riguarda una serie di aspetti storici, politici, geografici, è naturale che ci sia qualcuno più forte in certi ambiti e qualcuno in altri: industria, terziario, turismo, cultura… perché cercare di dividere anziché di armonizzare?

Il concetto stesso di “produttività” andrebbe definito con più accuratezza e parametrato in base ai percorsi storici e culturali di ciascuna area geografica e alle reali possibilità sin qui messe in campo.

È poi discutibile l’assunto per il quale chi più produce meglio amministra. Siamo davvero convinti che regioni come il Veneto e la Lombardia, gestendo in autonomia le proprie risorse, garantirebbero un’amministrazione salubre ed efficiente?

In presenza di estesi sistemi di corruzione e potenziali infiltrazioni mafiose, le amministrazioni di queste regioni saprebbero adottare e mantenere un atteggiamento virtuoso?

È tutto da dimostrare. Come da dimostrare è l’obiettivo alla base delle pulsioni autonomiste.

A prevalere, rispetto a effettive esigenze economiche e sociali, sembra in certi casi essere l’egoismo. Allora il discorso è diverso: e riguarda una cultura personalistica che ha trovato ampio spazio nell’ultimo trentennio e che si è voracemente alimentata degli effetti, reali o presunti, delle più recenti crisi economiche.

Sarebbe infine opportuno che si smettesse di guardare all’autonomia come al paese di Bengodi e che ci si concentrasse piuttosto sul contraltare della responsabilità amministrativa.

Una responsabilità proporzionale alla libertà d’azione, che deve essere definita da regole chiare e sulla quale deve essere prevista una vigilanza intransigente da parte dello Stato, arbitro e garante ultimo dei meccanismi attuativi e dei risultati dell’autonomia stessa, regione per regione.

Assicurando la trasparenza, l’efficienza nei servizi e la dignità di tutti i cittadini: allora, solo allora, l’autonomia può considerarsi realmente realizzata.