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QT n. 6, giugno 2023 Trentagiorni

Festival e contro Festival

C’è stato molto dibattito sull’ultimo Festival dell’Economia, aperto da un argomentato editoriale di Paolo Mantovan sul Trentino.

Il punto che più ha colpito è stata la debordante presenza di ministri in carica, 18 o 19, tra fisicamente presenti e telematicamente collegati. Se poi aggiungiamo gli ex ministri come Giulio Tremonti, gli ex presidenti come Romano Prodi, la segretaria di partito Elly Schlein, e ancora Giorgia Meloni e Matteo Salvini che da remoto danno l’investitura ai loro contrapposti candidati alla presidenza della Provincia, risulta molto comprensibile la sensazione di essere di fronte a uno dei tanti talk show televisivi sulla politica, non un momento di riflessione, ampio, collettivo, non limitato agli addetti ai lavori, sul presente e futuro dell’economia.

Sensazione confermata da alcune fastidiose restrizioni: basta con le domande del pubblico; aboliti i maxi schermi in Piazza Duomo, attorno cui si agglutinavano decine di persone, in piedi o sedute nei bar ad ascoltare, uno spettacolo che da solo rappresentava la diffusione della cultura. Soprattutto è sembrata andare perduta la caratteristica più peculiare del Festival, la contiguità tra i grandi intellettuali e le persone, che ai bar si incontravano, colloquiavano, immaginiamo con reciproco giovamento. Ora tutto risultava sostituito da un imponente schieramento di forze dell’ordine, a proteggere e recintare questo o quel politico. Un cambiamento un po’ triste.

Meglio invece, ma da analizzare e da confermare, la presenza di tanti giovani, tanti studenti. Probabilmente sospinti dalle scuole, a sopperire all’inferiore presenza di adulti.

Le sale infatti erano in genere piene, ma non strapiene, ad indicare una sostituzione di pubblico, non un’aggiunta. Il dato è interessante. Da verificare come questo ingresso dei giovani sia stato preparato e cosa abbia prodotto: noi abbiamo segnali contradditori.

Era proprio dai giovani che poteva venire una scossa salutare. Il Festival dell’Economia, infatti, era comunque ingessato.

Rappresenta lo stato dell’arte di un pensiero comunque ristretto alla visione attuale del mondo occidentale, con il primato dell’economia sulla società, declinato in due versioni: quella neo-liberista, per cui il primato del profitto è il motore assoluto, e il resto, a iniziare dal welfare, è da “riformare”, cioè zavorra; e quella socialdemocratica, per cui sono da introdurre (solo) aggiustamenti per rendere meno esplosive le disuguaglianze.

Contro questa limitatezza dell’orizzonte sembravano essersi mossi gli studenti di Sociologia. Che in un revival di una passata era geologica, avevano occupato la facoltà, fatto traslocare i dibattiti ivi previsti, e imposto – o meglio, cercato – un nuovo orizzonte.

Non sembra siano riusciti negli intenti: le giornate di occupazione, che dovevano essere tre, si sono ridotte ad una, non c’è stato alcun comunicato finale, solo un’educata ed onesta (senza millantare risultati evidentemente latitanti) smobilitazione. D’altronde i primi dibattiti sembravano incanalati su tematiche troppo note, addirittura stantie: come il movimento No TAV, quando per l’ambiente la TAV è meglio dell’aereo, il treno meglio dell’autostrada, la circonvallazione meglio dei treni in città; o l’antimilitarismo, che oggi – non più protetti dal fratello grosso americano - andrebbe radicalmente aggiornato: non si può celebrare il 25 aprile e contemporaneamente consegnarsi alla Wagner. Tutte queste sono considerazioni sulle quali dibattere. Ma appunto, dibattere, senza prendere ad occhi chiusi vecchi binari movimentisti. In altre parole: il tema di una società in cui non è l’economia, il fluire cioè dei soldi, la cosa in assoluto più importante, il totem intoccabile, è sempre apertissimo. Se il Festival non lo percorre, spetterebbe ai giovani; se essi vi si smarriscono, beh, sarà per un’altra volta. O almeno, così speriamo.

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