Menù
Home
QT
Questotrentino
Mensile di informazione e approfondimento
Utente
Cerca
QT n. 6, giugno 2023 Seconda cover

Perfido: gli scontri in Tribunale

Gli imputati l’un contro l’altro (forse per davvero). La vetero-mafia contro la mafia 2.0. I cavatori sempre contro la difesa dell’ambiente. Le ultime rivelazioni del processo.

E’ entrato nella fase centrale il troncone principale del Processo Perfido. E’ il rito abbreviato che vede imputati quello che secondo l’accusa è la testa della locale ‘ndranghetista trentina: l’”amministratore delegato” Giuseppe Battaglia, cervello dell’infiltrazione silente nella società cembrana, a capo di tutti gli affari societari, consigliere di maggioranza ial Comune di Lona Lases per 7 anni, e per altri 5 assessore (alle cave, naturalmente); la moglie Giovanna Casagranda, “contabile” del gruppo (evidenziamo in corsivo passaggi delle sentenze, dell’ordinanza di custodia cautelare, o delle intercettazioni); l’altro Battaglia, Pietro, subordinato al fratello e comunque “incaricato della gestione economico e finanziaria delle ditte”, partecipe della “gestione criminale dei lavoratori”, elemento di collegamento con la politica comunale, consigliere a Lona-Lases, accusato in particolare di “scambio elettorale politico-mafioso” nell’elezione del 2018 a sindaco di Roberto Dalmonego e se stesso a consigliere; l’”organizzatore e braccio armato” Mario Nania.

Fuori da questa tornata processuale rimane solo colui che secondo l’indagine è il capo della locale, Innocenzio Macheda, che non ha accettato il rito abbreviato e verrà quindi processato in un successivo procedimento. Per la comprensione del fenomeno è un peccato: comunque Macheda rappresentava la ‘ndrangheta tradizionale, alla Totò Riina, che si faceva largo imponendo il pizzo a suon di delitti, queste le minacce che avrebbe voluto rivolgere ai maggiori cavatori cembrani, con cui peraltro in pubblico manteneva ipocriti rapporti di reciproco ossequio, come appunto si usa tra i potenti della valle: “Gli facevo vedere io a Massimo Stenico ... o a coso a Franco Bertuzzi ... tu mi dai due camion al mese di grezzo senza pagarlo ... punto, se vuoi lavorare sennò ti ammazzo con tutta la famiglia ... comincio da tua figlia e finisco da tua moglie”.

Però Battaglia lo aveva preceduto in Trentino, e aveva sviluppato un’altra tipologia di inserimento, potremmo dire mafia 2.0: dapprima “un lento radicamento, sociale ed economico” senza l’emersione di reati e solo in un secondo tempo il passaggio alla “conduzione spregiudicata dell’attività economica, con l'assoggettamento delle maestranze a criteri schiavistici” e l’utilizzo dell’“intimidazione nei confronti di ogni controparte economica”.

La mafia 2.0 di Battaglia, molto meno rischiosa, prevale, la sbrigativa vetero-mafia di Macheda deve rinunciare ai suoi progetti. Il che non esclude tensioni tra il capo di nome, da tutti riverito, e quello di fatto; tensioni che però, a quanto ne sappiamo, si limitano a pur ringhiosi avvertimenti. Così la madre di Macheda, Domenica Denisi, donna di peso nella cosca, chiarisce come l’autorità del figlio (chiamato con il diminutivo Cecio), non debba essere intesa come mera facciata: “Oh Giusè: non pensare che mio figlio è sopra così tanto per ...No!! ... mio figlio ha un esercito, sai quanto ci vuole per salire da là sotto, da Reggio?.. non sgarrate con mio Cecio”.

Questo tema, dicevamo, è fuori da questo processo. E’ un peccato per la comprensione del fenomeno ‘ndranghetista, si diceva sopra. Ma anche per la compiuta definizione dei rapporti tra la locale trentina e la casa madre calabrese: chiaramente una situazione come quella sopra riportata evidenzia in maniera macroscopica l’organica, intima appartenenza del gruppo di calabresi cembrani a un’organizzazione molto più ampia e strutturata, con proprie, ferree regole.

A dire il vero, il ritornello “non è mafia”, che sembrava dover essere, fin da prima del processo, la linea difensiva degli imputati, non sembra più portata avanti dai difensori. I quali – per ora almeno – sembrano rassegnati, travolti dalla valanga di autoaccuse che gli imputati si sono inconsapevolmente tirati addosso nelle centinaia di ore di intercettazioni, finora mai contestate in tribunale.

Assistiamo così al seguente gioco giudiziario: l’accusa, che sente di avere il processo in tasca, si guarda bene (tranne in un caso, che poi vedremo) dal produrre ulteriori prove o testimonianze che magari potrebbero ritorcersi contro. Le difese invece hanno prodotto molteplici testimoni, i quali però hanno spesso finito, magari contro le loro stesse intenzioni, con il confermare l’impianto accusatorio, o perlomeno il clima di costante intimidazione in cui i soggetti, soprattutto operai e imprenditori, vivevano e tuttora vivono.

Davvero un burattino?

Ci sono comunque delle linee costanti: la prima è scindere le responsabilità di Giuseppe Battaglia da quella degli altri. E’ stato lui, il più vecchio dei Battaglia, a comandare, disporre, tutto, con il solo ausilio di “Giovanna” (Casagranda, la moglie), mentre gli altri erano dei meri esecutori, inconsapevoli, degli operai o poco più. Anzi, erano anch’essi sfruttati da Giuseppe, che anche a loro lesinava i compensi.

Uno scaricabarile totale, che quasi sembra orchestrato: tutti contro lui, il capo cattivo.

A dire il vero, anche prima del processo, prima degli arresti, le intercettazioni disegnano un serpeggiante malanimo verso il Battaglia maggiore, che con i pagamenti faceva penare non solo gli operai, ma anche i sodali (Pietro Denise, uno dei soldati semplici, in arretrato di 10.000 euro, arriva ad ipotizzare di gambizzare Nania, che in quel caso stava supportando Giuseppe, e solo il capo Macheda riesce a risolvere la questione). Contemporaneamente poi i sodali torteggiati vedevano il capo imboscarsi soldi a palate (“Ha fatto i soldi imbrogliando, dice che li ha nascosti in quei paesi dove non glieli tocca nessuno”); nell’acquisto della grande cava Camparta “sicuramente 1 o 2 milioni di euro li ha nascosti da qualche parte… quella volta è uscito con una valigia piena di soldi e non si sa che fine hanno fatto”.

L’accusa è di avere utilizzato i capitali forniti dalla casa madre per se stesso: “Peppe (Battaglia, ndr) ha avuto grosse capacità, sostenute delle amicizie che aveva... è vero che ha uno spirito più avanti, ma è pur vero che ha avuto sempre le spalle coperte! lui, quando si è esposto, era sicuro di quello che faceva".

Insomma, se la mafia come è noto arricchisce se stessa e lascia nella miseria i territori, al suo interno essa arricchisce il capo, non i sottoposti. Questa situazione, descritta dalle intercettazioni, viene enfatizzata in Tribunale dagli imputati, che si descrivono come innocenti vittime di un capo despota, ingordo. Per avvalorare la tesi, cercano di apparire come degli sprovveduti totali, incapaci di intendere e volere.

Esemplari, durante il suo esame, le dichiarazioni di Mario Nania. Il quale nelle intercettazioni tratta con sprezzante spietatezza gli operai e le mogli che elemosinano almeno una parte degli stipendi dovuti; ed è stato amministratore delegato in diverse società dei Battaglia; ma in Tribunale si descrive come un povero sempliciotto.

Come operaio, sì. Lavoravo in cava e dopo sono stato... dopo 3, 4 mesi mi ha spostato Giuseppe Battaglia al capannone e lavoravo lì nel capannone, nelle macchine. Dopo ho iniziato lì e andavo sempre avanti a lavorare, guardavo gli operai... tutto qua. Dopo da lì ha chiuso, l’ha venduta, non so, l’ha ceduta e dopo sono andato in un altro capannone... sempre con un’altra ditta, mi ha messo in società lì.”

Un burattino, manovrato da Battaglia a piacimento.

E come si chiamava questa società?” chiede il Presidente della Corte. “Porfido Costruzione. Dopo, da lì era in un capannone in affitto in via Palusane, dopo ha mollato lì e son passato in un’altra... sono uscito da quella, mi ha detto lui e mi ha messo come rappresentante nella Dossi S.r.l. (il nome giusto devono tirarglielo fuori con le pinze, ndr) ... mi ha messo rappresentante legale lì. Dopo da lì... mi ha tolto da lì Giuseppe e Casagranda Giovanna e mi ha messo in un’altra cava l’Anesi S.r.l. (come sopra, ndr), si è messo lui rappresentante in quella non lo so come, della Dossi e mi ha messo rappresentante legale nell’Anesi S.r.l.. E dopo lì... un anno, due anni sono stato rappresentante lì e poi sono venuti i Carabinieri un giorno, hanno fatto dei controlli. Dopo hanno chiuso la cava, diciamo, mi accusavano perché... truffa e... truffa e estorsione, perché dicevano che ho sfruttato... perché ho fatto firmare delle carte... io non ho fatto firmare carte, non ho fatto firmare delle carte io ai dipendenti”.

Nella causa per truffa, falso ed estorsione ai danni degli operai, “una mattina ho visto sui giornali che sono stato condannato in primo grado a 6 anni per questo e quell’altro. Lui è venuto... Giuseppe Battaglia è venuto a dirmi: ‘Vuole i soldi l’Avvocato’ e io non avevo una lira”. Battaglia gli fa firmare la rinuncia al difensore di fiducia, e lui si affida a un avvocato d’ufficio. Viene condannato e si passa all’Appello.

PUBBLICO MINISTERO: Chi è che le ha procurato il secondo Avvocato per l’Appello?

NANIA – No, l’ho trovato tramite un ragazzo, perché ce l’aveva già...

PUBBLICO MINISTERO - Chi è il ragazzo?

Nania tergiversa

PUBBLICO MINISTERO – Ma si può sapere chi è questo ragazzo?

NANIA – Si chiamava Vincenzo Longobardi, perché passava di lì e allora gli ho detto se c’hai un avvocato, perché non sapevo come fare. (E qui si comprende la reticenza di Nania: Vincenzo Longobardi non è un ragazzo qualsiasi che passava per caso, la famiglia Longobardi verrà poi sospettata da Macheda di essere responsabile del rogo del suo Suv, e ne progetterà lo sterminio ndr) E dopo sono stato anche lì condannato... e adesso c’è la Cassazione diciamo.

Insomma, disarmante, e al tempo stesso rivelatore.

Stessa tecnica viene usata quando si parla dei rapporti con gli operai. Nania si definisce “operaio” e nega con forza, ripetutamente, di avere in cava qualsiasi altro incarico. L’interrogatorio si fa surreale. Il Presidente, la PM Colpani, l’avv. Giovanazzi della Cisl, la nostra avvocata Marsili chiedono chi conteggiava il “monte ore” lavorato da ciascun operaio. Nania prima nega di aver mai conteggiato alcunché, poi invece di “monte ore” capisce, ripetutamente, 4-5 volte “molte ore”, e dice che “No, non erano molte ore, erano otto!” poi scarica tutto su “Giovanna” (Casagrande) che era in ufficio e i conti li faceva lei.

Ma chi le portava i conti delle ore?” e qui Nania non si schioda, “Le ore... 8 ore facevano” neanche in Svizzera, ogni giorno lavoravano esattamente tutti 8 ore, non occorreva alcun calcolo.

Torna alla carica l’avv. Giovannazzi: “Il sistema di pagamenti era effettuato a numero di ore o alle pesate rispetto al materiale del porfido che veniva...?

NANIA – Non lo so, questo lo faceva la Casagranda Giovanna.

AVV. GIOVANAZZI – Questo l’abbiamo capito. Ma, da come sappiamo, in altri processi o comunque in generale, nel porfido la paga mensile veniva fatta...

NANIA – Non lo so, non lo so, le giuro, non lo so, io...

AVV. GIOVANAZZI – Ma come non...

NANIA – Non lo so io.

PM COLPANI – Non lo sa.

AVV. GIOVANAZZI – Vabbè, non lo sa. Lei non sa che fanno i bancali di porfido, ha lavorato per... non so, 20 anni nel porfido e non sa come funziona il meccanismo di pagamento?

NANIA – Non lo so.

Fratelli contro

Diverso l’atteggiamento di Pietro Battaglia. Lo abbiamo raccontato nel numero scorso. Pietro non cerca di apparire uno stupido, si demansiona. Era un “operaio”, un “palista”. Lavorava in posizione subordinata, e basta, alle dipendenze del fratello, che non ama.

Una tattica non nuova. Nel processo a Mario Nania per estorsione (quello in cui il nostro si sarebbe fatto indicare l’avvocato da un ragazzo di passaggio) Pietro Battaglia era stato intercettato mentre istruiva gli operai a rispondere al giudice. “Che ruolo aveva Mario là sopra e loro devono rispondere che per quello che sapevano era un dipendente come loro; se chiederà chi dava gli ordini loro devono rispondere che loro lo hanno sempre visto lavorare... comunque non dava ordini da capo” Per soprammercato, sempre nell’intercettazione “Mario dice che praticamente devono incolpare a lei, Giovanna Casagranda”. Insomma, i due “semplici operai” istruivano gli operai veri a testimoniare che loro, Pietro e Mario, non contavano niente, e faceva tutto Giuseppe e l’onnipresente Giovanna.

Non sappiamo quanto questa divaricazione tra i due fratelli, o meglio tra l’”amministratore delegato” e il resto del gruppo, sia reale, o se sia tattica processuale per ridurre i danni. Indubbiamente le intercettazioni degli anni prima di Perfido ci parlano di un latente malcontento; su cui probabilmente si sono innestate convenienze processuali, nel tentativo di ridurre i danni cercando (con quanta credibilità?) di scaricare le colpe.

E’ stato abile Pietro Battaglia nel presentare in Tribunale il proprio personaggio, nelle dichiarazioni spontanee. Un lavoratore, subordinato. Che poi fa il salto, con il fratello e il cognato entra nella ditta di Diego Ferrari, la fanno crescere. Facendo un mutuo compera e ristruttura una casa. Ma il fratello incombe: “Nel 2009 leggo sul giornale che la mia casa è all’asta. Giuseppe non mi dà grandi spiegazioni: ‘E’ andata così’. Da allora mi sono allontanato da mio fratello”.

Il Presidente della Corte, Carlo Busato

Non tanto allontanato: resta a lavorare con lui nella ditta Anesi “dove facevo il palista, senza alcun altro ruolo”. Non è pienamente vero: nel 2016 un verbale di accertamento di violazione del Servizio Minerario della PAT accerta l’appropriazione da parte della ditta Anesi, in assenza di concessione, di almeno 2500 metri cubi di materiale roccioso. A firmare il verbale c’è il sorvegliante sostituto, sig. Pietro Battaglia, ad essere sanzionato è il legale rappresentante, il signor Mario Nania. Ancora i due operai semplici.

Sui miei congiunti. Certo, da Cardeto (il paese in provincia di Reggio Calabria da cui tutti provengono, ndr) sono venuti anche Nania, Macheda, Denise, siamo imparentati, non posso dire di non conoscerli: però ho la mia vita, la mia famiglia. Saverio Arfuso (già condannato per associazione mafiosa, ndr) è mio cognato. Con Mustafà Arafat (il picchiatore dell’operaio cinese Hu Xu Pai ndr) ci incontravamo alla macchinetta del caffè presso la mia pesa, facevamo due chiacchiere del tutto occasionali”.

Con tutti questi non faceva certo un’associazione, meno che mai criminale.

La realtà pare diversa: molte sono le volte in cui i sodali si riuniscono, affrontano situazioni anche gravi (l’incendio doloso dell’automobile di Macheda) e Pietro è presente, e discute dei problemi interni. Addirittura a casa sua si tiene un pranzo per l’arrivo di Saverio Arfuso, e Macheda vorrebbe invitare il fratello Sebastiano, ma la madre Domenica Denisi, la vestale del gruppo, si oppone recisamente: “Non mangia lui... grazie... non è della nostra società, lui...”. Lui è il figlio Sebastiano, evidentemente esterno alla consorteria; invece il padrone di casa, Pietro Battaglia?

Anche all’esterno Pietro esercita pressioni a difesa del gruppo, e dall’attualmente vituperato fratello. Il 3 novembre del 2018, secondo un esposto del CLP ai Carabinieri del NOE, Walter Casagranda viene avvicinato da Pietro che vivamente lo consiglia di prendere le distanze da “Vigilio e quelli lì” cioè l’ex sindaco Vigilio Valentini e il CLP. “Quelli ci hanno mandato in malora e ci hanno chiuso la cava, anche li in Monte Gorsa siamo fermi per causa di Vigilio”. Notiamo che il Monte Gorsa era interessato da movimenti franosi, causati dall’attività estrattiva, che il sindaco Valentini cercava di disciplinare. Poi Battaglia prosegue con Casagranda in una difesa appassionata del fratello Giuseppe: “E’ una persona perbene ed è finito nelle varie società perché aveva crediti nei loro confronti”.

Ecco quindi apparire la divisione: da una parte i cattivi – Valentini e il CLP – che con le loro azioni a difesa degli operai e dell’ambiente ostacolano l’economia; dall’altra i buoni, lavoratori, che se creano frane è lo stesso, capitanati da Giuseppe Battaglia. Non ancora arrestato e quindi in auge. Poi le cose cambieranno.

I due cattivoni

E la coppia regina, Giuseppe e Giovanna, come hanno risposto?

Vedremo nel dettaglio con le arringhe dei loro difensori. Per ora solo Giovanna Casagranda ha parlato, limitandosi a concise spontanee dichiarazioni.

In sostanza ha rivendicato di avere, lei e il marito, solo lavorato. Lavorato tanto. Di condurre una vita modesta, di avere abitazioni modeste, automobili modeste. Il lavoro era il loro obiettivo. Con risultati non molto brillanti, sembrerebbe, una serie infinita di fallimenti (Camparta spa, Anesi srl, Marmirolo Porfidi srl, Cava Porfido Srl, Cava Saltori...) che hanno sfiancato una valle.

Però qualcosa non torna. I due non sembrano sprovveduti (e a differenza di altri, non ci tengono per niente a farlo apparire). Di più, Giuseppe pare proprio una mente brillante. Ma allora la storiella di una partenza con tanti tanti soldi, una vita dedicata al lavoro, eppure un esito così disastroso, non convince proprio.

Il testimone che non doveva parlare

Il Presidente della Corte, Carlo Busato

La Procura ha chiesto l’audizione di un solo teste. E che teste, Vigilio Valentini. Partiamo da un’altra testimone, della difesa, Monica Tondini, figlia del titolare della Trento Porfidi, concessionaria del lotto 8 che aveva nel ’96 causato la frana dello Slavinac; e socia della Porfidi Doc, fermata nel 2006 per la sovrastante frana del Monte Gorsa. Per Tondini Valentini “è molto noto per aver fatto male a tante famiglie a Lases”. Valentini è il male. Lui e Walter Ferrari “andavano a trovare ogni cosa che non funzionava”. A iniziare dalle cave che facevano franare le montagne.

Per questo Valentini era un testimone importante. Anche perchè era stato sindaco dal 1985 al 1995, anni non coperti dalle indagini di Perfido, e in cui c’era stato il primo radicamento dei sodali calabresi. Anni in cui anche Walter Ferrari e la moglie Carolina Andreatta, corrispondenti di QT. erano stati oggetto di pesantissime minacce; che Andreatta, assieme a Valentini, era andata a denunciare presso i Carabinieri di Albiano, per sentirsi rispondere dal comandante: “Signora, deve abituarsi”. Al che Walter e Carolina abbandonarono la collaborazione con QT.

Valentini inoltre, nel dicembre del ’21 ad un pubblico incontro con la presenza del senatore Luigi Gaetti già vicepresidente della Commissione Antimafia, si opponeva con fermezza ai tentativi dei Carabinieri di Albiano sopraggiunti a metà serata, di interromperla con la motivazione di ulteriori controlli (già effettuati dagli organizzatori) del green pass.

All’interrogatorio si è opposto l’avv. Filippo Fedrizzi, difensore di Giuseppe Battaglia e di Giovanna Casagrande. Ritenendolo inammissibile perché (oltre a motivazioni procedurali con cui non stiamo a tediare il lettore) “riferendosi comunque a dei fatti molto antecedenti rispetto a quelli che ci occupano perché erano fatti risalenti agli anni 80, sappiamo che Battaglia arriva nell’89.”

Ma che dice Fedrizzi? Non lo sa che il suo assistito, Giuseppe Battaglia, è arrivato in Trentino nel 1980? All’udienza successiva abbiamo prodotto il certificato di residenza del Comune di Lona Lases: Giuseppe Battaglia risiede lì dall’82, proveniente dal comune di Fornace. Ma intanto la Corte (forse ritenendo valide le obiezioni procedurali di Fedrizzi più che la sua datazione fasulla) aveva già cassato la testimonianza di Valentini. Che invece avrebbe potuto essere illuminante.

Molto male.

Un altro patteggiamento?

Dopo i patteggiamenti precedenti, concessi a Mustafà Arafat e a Giuseppe Paviglianiti (e peraltro non ancora definiti, per l’opposizione della Procura Generale) nell’ultima udienza ha iniziato a concretizzarsi un patteggiamento per Vincenzo Vozzo e Giovanni Alampi. Che si vedrebbero condannati a una pena inferiore a 2 anni, peraltro già scontata.

Il meccanismo è la derubricazione dell’accusa, da “associazione mafiosa”, con pena base minima 10 anni, ad “assistenza ad associazione mafiosa” con pena molto più lieve.

“Perfido: per sfidarvi dobbiamo impegnarci”, lo spettacolo degli studenti dell’Istituto “Martini”.

Le motivazioni dell’accusa paiono sempre le stesse: se passa in giudicato l’assistenza all’associazione, vuol dire che l’associazione c’è, e quindi il processo si blinda ancora di più. Oltre a questo c’è un altro motivo, molto più banale: questo è un processo monstre, con decine di migliaia di pagine: la Procura, che a differenza delle difese deve guardarle tutte, non ce la fa più, meno imputati ha sul groppone, più respira.

Noi comunque non siamo d’accordo. E’ un caso di giustizia rapida uguale meno giustizia.

Intendiamoci, non ce l’abbiamo con Giuseppe Paviglianiti e con Vincenzo Vozzo, figure secondarie e miti. Ma con Mustafà Arafat, il capo dei bestiali picchiatori di Hu Xu Pai, e violento intimidatore dei concorrenti, è un’altra cosa. E così con Giovanni Alampi, braccio destro di Domenico Morello (già condannato a dieci anni) di indubbia indole violenta: così dice a Morello, riferendosi a un’amante che ha a Verona: “Se inizierà a creare problemi, le darà un avvertimento, ovvero di non creare problemi con Alessia (Nalin, moglie di Morello, ndr), altrimenti andrà da lei e la ucciderà.”

La giustizia, per finire prima, vuole condannare a pene minimali queste persone?

Articoli attinenti

In altri numeri:
“Perfido”: i testi che non ricordano

Commenti (0)

Nessun commento.

Scrivi un commento

L'indirizzo e-mail non sarà pubblicato. Gli utenti registrati non devono inserire altre verifiche e possono modificare il proprio commento dopo averlo inserito.

Riporta il codice di 5 lettere minuscole scritto nell'immagine. Puoi generare un nuovo codice cliccando qui .

Attenzione: Questotrentino si riserva la facoltà di cancellare commenti inopportuni.