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QT n. 9, settembre 2023 Cover story

“Perfido”: una comunità in controluce

Come ha reagito Lona-Lases alle condanne per mafia? Male, minimizzando.

Chi si aspettava una qualche palpabile reazione a Lona-Lases dopo la sentenza di condanna per “associazione a delinquere di stampo mafioso”, emessa dal Tribunale di Trento il 27 luglio scorso, è rimasto deluso. Nulla è mutato a giudicare dai resoconti giornalistici usciti nei giorni successivi e significativa appare ancora una volta la volontà di sottrarsi ad ogni commento, ben testimoniata dal servizio del Tgr Rai. Non ci si faccia ingannare dall’unico intervistato che ha commentato in modo onesto e fuori dal coro la sentenza, trattandosi dell’ex bibliotecario di Civezzano (persona non originaria del paese e soprattutto fuori dagli schemi e culturalmente fuori dal comune): in paese o si tace o si minimizza.

Di quella cosa preferisco non parlare” affermano i più, ma qualcuno osa ancora accusare chi ha fin qui denunciato il malaffare di aver rovinato il buon nome del paese.

Alessandro Avi (a sinistra) e Roberto Dalmonego

Eppure quanto avvenuto in aula, dalle dichiarazioni degli imputati a quelle dei testimoni (ammessi solo quelli a difesa), se analizzato in controluce ci aiuta a capire i motivi di tanta protervia nell’ostinarsi a non prendere atto che quanto sancito in Tribunale, sia pure col necessario garantismo che non deve mai venir meno fino a sentenza definitiva, almeno dovrebbe segnalare qualche anomalia e di conseguenza suscitare qualche preoccupata reazione.

Vediamo quindi di tentare una lettura incrociata di fatti e dichiarazioni, con l’obiettivo di aiutare a comprendere cosa ha trasformato la comunità di Lona-Lases, passata dall’essere l’unica della zona del porfido ad aver osato ribellarsi – col sindaco Valentini dal 1985 al '95 - allo strapotere della lobby locale, ad una comunità sottomessa alle regole dell’omertà.

L’espugnazione del Municipio nel 1995

Partiamo dunque dalle affermazioni fatte, in qualità di testimone, da Monica Tondini (figlia di uno dei soci della Trento Porfidi) la quale ricorda “la prima volta che ha candidato Dalmonego Roberto” (trattasi dell’elezione del 1995) come “la votazione più brutta”, in quanto le forze in campo si equivalevano e di fatto il risultato fu determinato da una manciata di voti. La signora Tondini fa un’affermazione molto importante ricordando che il regista dell’operazione che pose fine all’amministrazione Valentini, fu “l’allora assessore Sergio Casagranda”, che “effettivamente cercò di coinvolgere la famiglia Battaglia”. La novità consisteva nella candidatura per la prima volta di Giuseppe Battaglia (ora condannato, ricordiamolo, a 12 anni per associazione mafiosa) che, grazie al proprio pacchetto di voti, consentiva di riportare in Comune i rappresentanti dei concessionari di cava. Questo nel momento cruciale di applicazione delle nuove norme sui canoni (pesantemente contestate dal sindaco Valentini) approvate in Consiglio provinciale due anni prima su proposta proprio di Sergio Casagranda, massimo rappresentante in Provincia della lobby del porfido.

Sergio Casagranda

Tondini poi si scaglia contro la “cattiveria” del sindaco Valentini e dei tre V (Vigilio Valentini, Vittorio Casagranda e Walter Ferrari, esponenti del Clp) che hanno “fatto tanto male a tante famiglie di Lases”: in realtà cercavano di contrastare quel conflitto d’interessi che da mezzo secolo caratterizza tutte le amministrazioni della zona del porfido. Le “tante famiglie” danneggiate erano in realtà poche, quelle (tra cui Tondini) che controllavano le concessioni di cava; e il nodo del contendere erano i canoni che dovevano pagare a Comune e Asuc. Nel 1985 l’amministrazione Valentini aveva adottato il sistema delle verifiche pratiche sulle rese portando in poco tempo a un raddoppio delle entrate; mentre dopo il 1995, con la caduta di Valentini e le norme fatte approvare da Sergio Casagranda, tali entrate rapidamente calarono fino a quasi dimezzarsi.

Il processo ha poi spiegato la logica sottostante al coinvolgimento (nel ’95 e per altri 25 anni) dei fratelli Battaglia e del mondo che ruota attorno a loro, determinante per vincere le elezioni in una comunità fortemente polarizzata e divisa a metà.

Ce lo spiega benissimo Domenico Morello (altro imputato in “Perfido” e già condannato in abbreviato per associazione mafiosa) in occasione della richiesta di appoggio elettorale da parte del sindaco di Frassilongo Bruno Groff: “Una mano ve la diamo; però vedi che noi siamo tutti persone che hanno delle aziende, che possono avere delle necessità”. Quale sarà stato il prezzo dell’appoggio allora fornito dai fratelli Battaglia? Lo stesso Morello chiarisce aggiungendo: “Vedi che se poi quando noi bussiamo, voi ci voltate le spalle, vedi che non va bene”.

L’immagine di grandi lavoratori

eretta a difesa degli imputati

Il forte coinvolgimento dei fratelli Battaglia all’interno del potere locale, e in particolare con la famiglia Casagranda, è poi proseguito negli anni. Esaurita la compagine che aveva sostenuto Roberto Dalmonego, e succedutogli la vice Mara Tondini (da non confondere con Monica Tondini, la testimone di cui sopra), i fratelli Battaglia nel 2005 la abbandonano. Come mai? Per sostenere l’entrata in campo dell’allora giovanissimo rampollo della famiglia Casagranda, Marco.

Marco Casagranda

Questa commistione di interessi, economici e politici spiega poi un ulteriore versante del processo: l’immagine degli imputati come “gran lavoratori”, apprezzamento espresso pubblicamente in più occasioni da esponenti della famiglia Casagranda. Un mito confezionato e ribadito: vedi il testimone Mattia Ferrari, imprenditore e concessionario, che definisce Pietro Battaglia “una gran macchina da lavoro”, impegnato a “tagliare le piastrelle… tagliare i cubetti” e che poi “preparava le palette per il carico sui camion e andava con la ruspa”.

Anche Franco Rampanelli titolare delle aziende Ad Arte e della Pianacci, chiamato a testimoniare a favore del Battaglia afferma: “L’ho visto fare piastrelle, l’ho visto lavorare, lavorava di continuo”. Insomma, una parte consistente del ceto dei cavatori ha cercato di supportare anche nel processo i fratelli Battaglia. Sorvolando sulle accuse di mafiosità.

Vediamo un episodio. L’8 novembre 2019 una intercettazione ambientale coglie Pietro Battaglia, in compagnia del sodale Mario Nania, presso la ditta del Rampanelli mentre gli mostra e assieme commentano, il video dell’audizione a Roma in Commissione parlamentare antimafia di Vigilio Valentini e del segretario del Comune dott. Marco Galvagni. Orbene, in tribunale, pressato dai PM su questa vicenda, Rampanelli dichiara di non aver mai preso sul serio le denunce all’Antimafia, “Neanche il video?” gli chiede il PM, e lui balbetta: “Io di queste cose qui mi parevano tutti scherzi quando sono successi penso, non so, non ricordo bene”. Non ricorda? Ebbene vi è un’intercettazione nella quale il fratello Herri Rampanelli aiuta Innocenzio Macheda a ritrovare il barattolo nel quale erano stati nascosti i proiettili (forse di una mitraglietta). Anche un’arma da guerra, i proiettili nascosti, sono uno scherzo?

Lo stesso imputato Pietro Battaglia dimostra di essere pienamente entrato nelle vesti del suo personaggio e si descrive calandosi alla perfezione nel ruolo da sempre interpretato dai nostri cavatori/concessionari: persone rotte a tutte le fatiche e disposte ad ogni sacrificio per la famiglia e la comunità. Avendo fatto il muratore, spiega Pietro, “lavoravo a fine settimana, le feste, quando c’era da lavorare da qualche parte io andavo a fare anche questi lavori” e poi, al fine di dimostrare il suo spirito di servizio verso la comunità aggiunge che “soprattutto le donne anziane mi chiamano a tagliare l’erba del prato, magari a mettergli a posto la legna per l’inverno, io l’ho sempre fatto volentieri e senza pretendere niente in cambio”.

Questa immagine, venduta in paese e non accettata in Tribunale (dove c’erano ben altre evidenze), era supportata dai potenti locali: ricordiamo l’affermazione fatta sulla stampa locale nel marzo 2017 dall’allora sindaco Marco Casagranda: “Io e i fratelli Battaglia facciamo il bene del paese”.

L’ultima strumentalizzazione

Tuttavia, dopo questa prima sentenza, il mito dei lavoratori indefessi e disinteressati scricchiola ed è la stessa Rosa Casagranda (sorella dello scomparso cavalier Sergio) a correggere il tiro lamentandosi del fatto che “ci hanno fatto apparire tutti come mafiosi” ed aggiungendo: “Qualche mela marcia c’è, ma non è così come viene raccontato”(il T del 29 luglio scorso).

Ancora una volta si ricorre alla mistificazione, cercando di far apparire la condanna emessa in primo grado dal Tribunale nei confronti di soggetti ben definiti, come una condanna nei confronti della comunità. Così facendo si costruisce una falsa opposizione tra comunità locale e resto del mondo (magistratura, stampa, persone che in questi anni si sono fatte carico dei problemi), sviando l’attenzione e sminuendo la portata e la gravità di quanto fin qui emerso. Soprattutto mantenendo in ombra le tante complicità e connivenze con i condannati che, in quarant’anni, sono venute proprio dall’interno delle comunità locali.

Il silenzio dell’imprenditoria

Questo a partire dall’imprenditoria del porfido, che in tutta questa vicenda si è mantenuta silente e fedele al motto “pecunia non olet”, a partire dai cugini Carlo e Tiziano Odorizzi, il cui acquisto della grande cava privata Camparta assieme ai fratelli Battaglia, aveva segnato l’ingresso di questi ultimi nell’empireo dei grandi cavatori. Un acquisto molto strano, come QT ha più volte puntualizzato, di cui Pietro Battaglia, intercettato, dice: “Siamo usciti di lì con una valigetta piena di denaro” , e “Non sono chiacchiere, ma 5 milioni in contanti, li ho contati sul tavolo”; il fratello Giuseppe conferma e la PM Colpani conclude: “La Camparta effettivamente può essere stata un veicolo di riciclaggio di denaro”.

Orbene, Tiziano Odorizzi, che è stato sindaco e vicesindaco di Albiano e consigliere regionale della Margherita di Lorenzo Dellai, cosa ha da dire in proposito? Finora ci risulta una strana e debole precisazione, poco diffusa: dai fratelli Odorizzi ci aspettiamo parole molto, ma molto più chiare.

Più complessa la posizione di Bruno Saltori (titolare della Cava Porfido Saltori, concessionaria di lotto estrattivo ad Albiano): comparso come testimone ma anche indagato, si è presentato come vittima dei coniugi Giovanna Casagranda e Giuseppe Battaglia.

I PM hanno spiegato nei dettagli come i due abbiano “depredato completamente questa società” di cui avevano assunto il controllo, e invece Saltori “di fatto lo hanno fregato, gli hanno fatto credere che risanavano questa azienda, gli hanno fatto credere che gli davano uno stipendio, non gli hanno dato neanche quello”.

Forse Saltori esemplifica il destino di chi ha cercato di fare l’accordo con il diavolo. In aula ha affermato di essere “spaventato” e forse per questo si è dimostrato assai smemorato rispetto agli accordi di conciliazione sottoscritti con Fabrizio Bignotti (Filca-Cisl) in merito agli arretrati salariali nei confronti dei dipendenti, tuttavia ammette: “Abbiamo coinvolto anche il sindacato per fare una cosa più trasparente possibile”, e pur non ricordando i termini dell’accordo sottoscritto, afferma che “c’è stata una riunione lì nell’ufficio della signora Casagranda… dopo mi sembra di aver firmato un documento, un qualcosa insomma”.

Che a far intervenire il sindacato non siano stati gli operai bensì i titolari lo conferma un’intercettazione nella quale è lo stesso Giuseppe Battaglia a suggerire a Bruno Saltori “di fare intervenire il sindacato per non avere altri problemi in questo delicato momento, poi, in futuro, procederanno a licenziare i dipendenti più scomodi”. Insomma Saltori prima concorda con Battaglia su come raggirare gli operai, poi sono stati lui stesso e la sua azienda a finire aggirati e depredati.

Su un altro piano, ma altrettanto significativa dell’atteggiamento imprenditoriale prevalente, è ancora una volta la testimonianza resa dal vice presidente Asuc (nonché imprenditore del porfido con piazzale di lavorazione in località Dossi Grotta) Mattia Ferrari, il quale sostiene di non essersi mai informato relativamente al pestaggio (ad opera di Macheda e soci ai danni di scombinati campeggiatori) avvenuto nel 2014 in quell’area artigianale “perché non è cosa che mi interessa”. Sorpreso il PM ha chiesto: “Non le interessa?” e il Ferrari ha risposto seccamente: “No”. Quindi il PM lo ha incalzato chiedendo: “Come vengono trattati gli operai? Nelle altre cave?” e il vice presidente Asuc ha risposto: “No, non mi interessa, faccio fare agli altri”. Ed effettivamente è quanto successo in questi anni: molti hanno cercato di trarre vantaggio direttamente o indirettamente dalla situazione, solo cercando di non sporcarsi le mani. E ancora oggi ficcano la testa sotto la sabbia.

La deriva e il degrado sociale

Ma la testimonianza più significativa della deriva e del degrado sociale al quale è andata incontro la comunità di Lona-Lases è stata senz’altro fornita da Alessandro Avi, ex assessore ai lavori pubblici nell’ultima amministrazione guidata da Roberto Dalmonego. Alla domanda: “Lei si è mai interessato di politica?” fattagli da un avvocato della difesa, ha risposto: “Poco o niente”.

Incredibile se pensiamo che si tratta della persona che ha rivestito il ruolo di assessore comunale ai lavori pubblici già nell’ultima amministrazione guidata da Sergio Casagranda (1980-83), rieletto e nuovamente in Giunta comunale nel 1985 con Vigilio Valentini, con investitura della locale sezione del Pci, ritornato appunto nel ruolo di assessore ai lavori pubblici nel 2018. Penso che ben pochi a Lona-Lases possano vantare un così ampio arco temporale di impegno politico-amministrativo e sempre all’interno di un luogo decisionale quale la Giunta comunale! Eppure, colui che fin dagli anni Ottanta si è occupato attivamente delle questioni più delicate (anche in ragione del consenso oltre che degli affari) come la pianificazione urbanistica, compresa la lottizzazione in località Ronc del Mela, finita nelle mani dei Battaglia (così come ammesso in Tribunale), dichiara ripetutamente: “Non lo so”, “Ero all’oscuro” e fatica a ricordare persino chi fossero gli altri componenti dell’ultima giunta di cui ha fatto parte. Giunge addirittura ad affermare: “Ma io mi sono occupato di politica quegli ultimi due, tre anni lì… non è che mi sono adoperato di vedere prima o dopo quello che succedeva a livello politico, non è che mi interessava più di tanto insomma”. Anche riguardo alla difficoltà incontrata nel raggiungere il quorum nelle elezioni del 2018, incalzato dal PM, risponde che lo ha saputo “perché c’era nell’aula dove si votava qualcuno che mi ha telefonato” dicendogli: “Guarda che mancano ancora, per arrivare al quorum mancano persone”, ma della cosa afferma di essersi completamente disinteressato: perché dunque qualcuno lo teneva al corrente e chi? Quando il PM gli ha chiesto appunto chi fosse, ancora una volta la memoria gli ha fatto difetto: “Adesso i nomi non li saprei – come si chiamano - degli scrutatori che c’erano nell’aula”. Si può intuire come nel corso degli anni il bene comune e l’interesse della collettività siano stati lentamente sostituiti dal tornaconto personale. Se questo è l’esempio di senso civico degli amministratori locali, cosa ci si può aspettare dalla comunità amministrata?

Latitanza istituzionale

Per completare il quadro, usciamo da Cembra ed arriviamo in Consiglio provinciale. Nella cui sala è stato – per iniziativa dell’Ufficio Stampa della Presidenza del Consiglio – messo in scena lo spettacolo teatrale degli studenti dell’Istituto Martini “Perfido: per sfidarli dobbiamo impegnarci

Non molti i consiglieri presenti, ma tutti visibilmente scossi dal forte messaggio della rappresentazione, al punto da promettere per un tema tanto importante maggior impegno, maggior interesse, ecc. Chi invece brillava per assenza e noncuranza era la Giunta, con l’assessore Bisesti autore di una fugace comparsa, e il presidente Fugatti apparso solo alla fine, e intervenuto per parlare di... solidarietà all’Emilia Romagna!

Insomma, a livello istituzionale, di fronte all’emergere del fenomeno mafioso c’è un clamoroso disinteresse, quando non – in alcuni casi - connivenza.

Per tutti questi motivi il CLP ha chiesto ancora una volta al Commissario del Governo (per incontrarlo è stato necessario un sit-in davanti al palazzo in compagnia dei consiglieri provinciali Degasperi e Marini) l’avvio della pratica per richiedere al ministro dell’Interno l’invio di una Commissione d’accesso a Lona-Lases, che indaghi sugli atti del Comune in tutti questi anni. Sembrava una richiesta ormai ineludibile, vista la condanna in primo grado dei fratelli Battaglia, più volte consiglieri comunali di maggioranza a Lona-Lases, uno dei quali pure nominato dal sindaco Marco Casagranda (imputato in un procedimento per abuso d’ufficio in relazione ai fatti della ditta Anesi srl, facente capo agli stessi), assessore esterno alle cave, che si aggiunge a ben quattro mancate elezioni e un Comune sull’orlo del dissesto economico.

Deludente la risposta del dott. Santarelli, che il 2 agosto ha incontrato i portavoce del CLP unitamente ai due consiglieri di Onda Civica e M5stelle: “Mi riservo di leggere le motivazioni della sentenza”.

Sembra proprio siano cadute nel vuoto le “parole autocritiche, pesanti, oneste ed amare” (vedi il numero scorso di QT) pronunciate dal PM dott. Ognibene durante la sua requisitoria: “Siamo intervenuti fin troppo tardi, li abbiamo lasciati scorrere questa regione dove e quando hanno voluto”.

La tradizionale latitanza delle istituzioni sembra proseguire, imperterrita.