Menù
Home
QT
Questotrentino
Mensile di informazione e approfondimento
Utente
Cerca
QT n. 11, novembre 2023 Servizi

Palestina: una questione troppo a lungo trascurata

Israele ha tutto il diritto di difendersi. Ma la sua sicurezza non può basarsi esclusivamente sulla forza delle armi.

Gianni Bonvicini

E’ dal 1948, anno della drammatica e combattuta formazione di Israele, che il conflitto israelo-palestinese costituisce la madre di tutte le instabilità in Medioriente. Basti ricordare per sommi capi le principali guerre che hanno contraddistinto gli anni successivi a quella problematica nascita.

La famosa guerra dei sei giorni nel 1967; quella dello Yom Kippur nel 1973. La prima e seconda intifada, rispettivamente alla fine degli anni ’80 e all’inizio del nuovo millennio. Con l’aggiunta poi di un paio di invasioni maggiori di Israele nel Libano per fare fronte agli attacchi degli Hezbollah di quel paese o i frequenti bombardamenti in Siria per bloccare gli armamenti ai palestinesi e ad Hamas da parte dell’Iran, il grande nemico di Gerusalemme.

Ricordare questi fatti può farci comprendere come quella del 7 ottobre scorso non sia stata davvero una sorpresa, anche se questa è stata l’espressione maggiormente utilizzata all’indomani della orribile strage di civili e militari israeliani da parte delle milizie di Hamas provenienti dalla piccola Gaza. Sorpresa per la rapidità dell’attacco di Hamas. Sorpresa per la massiccia offensiva militare dei terroristi palestinesi, per la loro penetrazione nei territori di Israele, per le avanzate tecniche militari utilizzate, per la cattura come ostaggi di decine di giovani civili e militari israeliani.

Ma anche sorpresa per l’inefficienza dell’invincibile Tsahal, l’esercito di Tel Aviv, e per i buchi nell’intelligence ormai affidata agli strumenti dell’Intelligenza Artificiale e della superiorità tecnologica di Gerusalemme piuttosto che alle fonti umane sul territorio.

In realtà non solo di sorpresa si è trattato ma di colpevole distrazione. Distrazione dai segnali di aumento della violenza con 200 palestinesi uccisi dall’inizio dell’anno e oltre 30 israeliani che hanno subito analoga sorte per ritorsione. Uno stato di conflitto di basso livello, ma un segnale che non doveva essere sottostimato.

Distrazione di fronte alla inutile e dannosa provocazione della visita del nuovo ministro degli interni israeliano alla spianata della Moschea di Al Aqsa sacra agli islamici (tanto che Hamas ha significativamente chiamato “Diluvio Al Aqsa” l’attuale guerra).

Distrazione esistenziale, infine, sull’irrisolto problema dei palestinesi dopo decenni di tentativi di soluzione pacifica, da Oslo ai tempi di Arafat e Begin (due premi Nobel per la pace) fino ad una decina d’anni fa, quando sono stati esperiti gli ultimi tentativi di compromesso. Ne è seguita una specie di rimozione della questione palestinese, come se fosse di fatto congelata e priva di veri rischi, da gestire come un normale problema di sicurezza sia a Gaza che in Cisgiordania. In realtà un vero e proprio inferno stava sviluppandosi all’interno di Gaza dovuto alla determinazione da parte di Hamas a riaprire il confronto militare con l’intollerante governo di Netanyahu.

Come è noto, Hamas è un gruppo militante islamico-sunnita considerato da Usa e UE come un vero e proprio gruppo terroristico, al pari dell’Isis e di Al Qaeda. L’obiettivo dichiarato di Hamas è di distruggere Israele (analogamente all’Iran da cui è sostenuto militarmente). Per ottenerlo si muove in tre direzioni: destabilizzare Israele, legittimarsi come unico rappresentante dei palestinesi, bloccare sul nascere l’accordo Israele-Arabia Saudita. Per farlo, in aggiunta alle operazioni militari utilizza i metodi tipici del terrorismo mediorientale: cattura di ostaggi, uccisione indiscriminata di civili, utilizzo di social e video per dimostrare la loro efferatezza. Hamas è riuscito dal 2007 in poi ad impadronirsi del governo di Gaza e a scalzare il debole e corrotto Abu Mazen di Fatah che si è di fatto ritirato nella Cisgiordana.

Purtroppo in tutti questi anni la popolazione palestinese di Gaza non ha tratto alcun vantaggio dalla crescente potenza di Hamas. La disoccupazione è al 62%, la più alta al mondo, e i civili vivono essenzialmente degli aiuti internazionale per cibo, medicine e beni di prima necessità. Per di più i palestinesi vivono in uno stato di quasi-assedio da terra e da mare a causa dello strettissimo controllo israeliano. Nella popolazione ne è quindi nato uno stato di disperazione e di dipendenza dai voleri di Hamas che può in parte spiegare la sopportazione popolare di un regime totalitario ed estremista come quello rappresentato dai terroristi.

Un terremoto geopolitico

L’attacco di Hamas, oltre a mettere sotto scacco il governo di Netanyahu, ha creato un mezzo terremoto geopolitico. Gli Stati Uniti si sono visti costretti a schierarsi in prima linea in appoggio di Israele dopo essersi nei fatti quasi del tutto ritirati dal Medioriente; si è assistito alla sospensione dei cosiddetti accordi di Abramo, promossi ancora ai tempi di Donald Trump e sostenuti anche da Joe Biden, che avevano lo scopo di riavvicinare i paesi arabi ad Israele, in particolare l’Arabia Saudita; nel gioco delle influenze sono entrati Turchia ed Egitto, la cui ambiguità sta rendendo ancora più difficile ogni ipotesi di negoziato; è divenuto concreto il rischio di un allargamento della guerra al Libano a seguito degli attacchi da nord degli Hezbollah sostenuti a spada tratta dall’Iran, che fa della lotta ad Israele il collante della sua tenuta politico-ideologica interna messa in crisi dalla rivolta delle donne e dei giovani; ed infine sono manifesti i benefici che ne derivano alla Russia per fare sparire dagli schermi dei mass media la sporca guerra in Ucraina; sullo sfondo si notano poi le mosse della Cina, che dopo avere favorito il ripristino delle relazioni diplomatiche fra Arabia Saudita e Iran, si sta proponendo come negoziatore nel grande caos Mediorientale.

L’unica grande assente da questa rivoluzione copernicana delle relazioni internazionali in Medioriente è a tutt’oggi l’Unione Europea, che ha sostenuto posizioni contraddittorie ed imbarazzate. Una vera e propria cacofonia sia fra i massimi vertici delle istituzioni comunitarie sia fra gli stati membri. Ha quindi dovuto intervenire ancora una volta, dopo ben tre settimane dall’inizio del conflitto, il Consiglio europeo riunito nei giorni scorsi a Bruxelles per trovare un minimo di unità e coesione sul fronte della guerra in Medioriente.

In questi giorni il conflitto israelo-palestinese si va incrudendo. Nel governo di Israele, le fazioni più oltranziste spingono ad una ritorsione massiccia, alle punizioni collettive. Non si fa distinzione tra i mandanti e manovali del terrore e i palestinesi come popolo: questo è trattato come un nemico che non merita fiducia, che non può essere interlocutore di un negoziato, che deve essere domato con la forza delle armi.

Al di là della cruda conta delle vittime, dei lutti e delle sofferenze di gente segnata per la vita dalla violenza, la mancanza di una strategia di lungo termine in ognuno degli antagonisti attanagliati in un conflitto nefasto sconcerta l’osservatore imparziale.

Hamas non ha una strategia: per lungo tempo ha condotto da Gaza una sciagurata guerra di guerriglia che ne ha esposto gli abitanti alle ritorsioni di Israele e non ha abdicato, nel suo settarismo ideologico, al principio del rifiuto dell’esistenza di Israele. L’antagonismo con l’Autorità palestinese dominata da Al-Fatah permane, malgrado l’accordo di riconciliazione negoziato nel 2017 che contemplava l’esercizio da parte della stessa Autorità della giurisdizione civile-amministrativa (ma non del potere militare) su Gaza.

Quale strategia d’altra parte persegue Israele? Con il ritiro di Israele nel 2005 Gaza poteva costituire un embrione di stato palestinese, sebbene necessitasse, per diventarlo degnamente, di un legame territoriale e politico con la Cisgiordania. Cisgiordania solo parzialmente in mano ai palestinesi e all’Alta autorità, dal momento che irresponsabilmente Israele ha favorito gli insediamenti illegali dei coloni israeliani in quell’area. Non vi è stata quindi nessuna possibilità né per Gaza né per la Cisgiordania di avviare un progresso civile ed economico in quelle terre diseredate.

Israele molto avrebbe potuto fare e forse ancora potrebbe con un futuro governo palestinese, dopo la sconfitta politico-militare di Hamas, formato da una possibile emergente leadership locale o con il ritorno a Gaza dell’Autorità palestinese, a cui restituire anche il controllo politico della Cisgiordania.

La sicurezza di Israele non può fondarsi sulla mera forza delle armi. Essa esige la piena accettazione della sua esistenza da parte dei palestinesi e dei vicini arabi; presuppone la sconfitta degli oltranzisti di Hamas e delle altre milizie salafite ma anche la convinzione della popolazione che dall’azione non-violenta e dalla trattativa può scaturire un futuro decente. È quindi interesse preminente di Israele agire per dissociare la società palestinese dall’estremismo integralista. Le azioni militari al più agiscono da deterrente nel breve periodo, ma mietono vittime civili, rafforzano la fascinazione per gli estremisti fra i palestinesi e isolano Israele dalla comunità delle nazioni per l’eccesso di violenza contro i civili, pur nell’esercizio del diritto di autodifesa. Diritto certamente legittimo, ma la questione rilevante è come esercitare quel diritto.

* * *

Gianni Bonvicini, studioso di questioni europee e di politica estera, è presidente del Comitato dei Garanti e consigliere scientifico dell’Istituto Affari Internazionali (IAI) di Roma, di cui è stato direttore e vicepresidente vicario. È pubblicista e editorialista per Vita trentina e Corriere del Trentino.