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“Lì assaggiai la vittoria”

Il tragitto che ha portato un giovane palestinese, nato e vissuto in regime di occupazione, alla scelta della non violenza come lotta per la difesa dei diritti del suo popolo.?Da “Una Città”, mensile di Forlì

Issa Amro. A cura di Barbara Bertoncin e Stefano Ignone

Sono nato nel 1980 nella città vecchia di Hebron. Mio padre è cresciuto in orfanotrofio, suo padre era stato ucciso dall’Occupazione. Soprattutto per questo voleva che io stessi alla larga dalla politica, come aveva fatto lui; gli bastava che fossi un bravo studente. Si può dire che giocare a calcio e studiare fossero le mie passioni da piccolo. Sono cresciuto in mezzo ai coloni, anche se gli insediamenti si trovavano ai margini della città e non erano tanti; anche i soldati erano pochi. La città, per me, aveva un’identità pienamente palestinese.

A casa mia non si parlava mai dell’Occupazione. L’evento che mi ha indirizzato verso la politica è stata la strage della moschea di Abramo del 1994, dove furono uccisi 16 palestinesi e più di 60 rimasero feriti. In quella strage persi un amico, un ragazzo di un anno più giovane di me con cui giocavo a calcio e il cui fratello era mio compagno di classe. L’evento mi lasciò sconvolto e scatenò il mio odio per gli ebrei. Subito dopo quel fatto non sono andato a scuola per tre mesi. Avevo paura dei coloni e di chiunque indossasse la kippah.

Il mio sogno era laurearmi in ingegneria, prendere un dottorato e diventare docente universitario, così nel 1998 mi sono iscritto all’Università palestinese di Hebron. Studiavo giorno e notte ma, giunto all’ultimo anno, la mia Università venne chiusa a causa dell’Occupazione. La cosa mi fece infuriare: tornai a casa distrutto, pronto a scatenare la mia vendetta contro Israele. Eravamo nel mezzo della seconda Intifada, l’esercito era ovunque, faceva raid in ogni quartiere. All’epoca volevo fare la rivoluzione. Per fortuna, i primi autori che lessi furono Gandhi, Martin Luther King e altri esponenti del movimento pacifista, ma il problema era che, con questi, faticavo a convincere i miei compagni alla non-violenza, perché non erano autori musulmani. Studiando ancora scoprii il pensiero di Bacha Khan, un attivista non violento seguace di Gandhi e -soprattutto- musulmano. Dai suoi scritti ho appreso molto su come usare l’Islam per la non violenza. Forte di questi studi, tornai dai miei compagni per convincerli a fare qualcosa per riaprire l’Università e opporci all’esercito israeliano. Dopo alcuni mesi occupammo il campus, cosa che attirò l’attenzione dei media. Lì assaggiai la vittoria. L’esercito alla fine consentì la riapertura del campus, ma i professori si rifiutavano di insegnare perché avevano paura. Continuammo la nostra campagna convincendo gli studenti degli ultimi anni a insegnare alle matricole.

Nel 2003 cominciai a formare a Hebron un movimento internazionale di solidarietà con la causa palestinese. Nel 2004 iniziai un progetto, “Figli di Abramo”, che comprendeva palestinesi, israeliani e altri da tutto il mondo impegnati a monitorare i rapporti tra israeliani e palestinesi, a documentare ciò che stava accadendo.

Nel 2006 abbiamo creato il “Camera project” per distribuire macchine fotografiche alle famiglie. Di che si trattava? In quell'anno era in corso un’impennata delle violenze da parte di Israele e noi attivisti andavamo in giro con le nostre macchine fotografiche, ma non riuscivamo a cogliere le violenze sul fatto. Se i coloni attaccavano un insediamento palestinese, quando arrivavamo noi era già tutto finito. Di qui la mia idea di lasciare i nostri apparecchi alle famiglie, che però, inizialmente, le rifiutarono, dicendo che era inutile e pericoloso. Io rispondevo che sì, era pericoloso, ma non inutile! Così addestrammo donne e bambini a usare gli apparecchi, perché erano loro che stavano sempre a casa. Per proteggerli li avevo rassicurati che non appena fosse successo qualcosa mi avrebbero dovuto chiamare e sarei arrivato subito. Una delle prime volte mi chiamò una famiglia perché i coloni li attaccavano continuamente: loro li stavano riprendendo e volevano che andassi subito. Andai e fui arrestato.

Hebron

Un’altra volta, nel 2007, a Tel-Rumeida avevamo convinto una famiglia a utilizzare una foto-videocamera, e qualche mese dopo mi consegnarono il materiale. Chiesi: “Avete registrato qualcosa di speciale?” e loro: “No, cose normali”. Alle due di notte un operatore di Bt’salem mi chiama: “Issa! Nella registrazione c’è qualcosa d'importante, domattina vai da quella famiglia e chiedi il permesso di pubblicarl o”. Mi disse che avevano registrato una colona israeliana che insultava la donna palestinese dandole della “sharmuta” (puttana). Così andai dalla signora che mi disse: “Non te l’abbiamo detto perché non è niente di speciale, succede tutti i giorni”. Pubblicammo il video e girò parecchio, divenne virale, al punto che la Knesset dovette formare un comitato speciale per investigare sull’episodio.

Giravo tutta la Cisgiordania, formavo le famiglie su come usare gli apparecchi, come nasconderli, come documentare. Le macchine fotografiche potevano essere usate per autodifesa, perché legalmente i palestinesi sono sottoposti a legge militare e quindi sono considerati colpevoli fino a prova contraria, così i video servivano in primo luogo a proteggerli. Riuscimmo a distribuire molti apparecchi. Il nostro sogno era di distribuire ventimila macchine fotografiche, eravamo convinti che così avremmo messo fine all’occupazione. Sognavamo di farlo, ma ora non è più necessario, perché si è venuta a creare la cultura del riprendere e ciascuno lo fa col proprio smartphone.

Quindi ho messo in piedi un gruppo chiamato “Youth Against Settlements”, la cui idea principale era reclutare i giovani alla lotta non-violenta. Ho cominciato a girare le università, le scuole, a fare lezioni, a parlare di campagne organizzate, attività concrete, tutte cose con cui avremmo potuto rendere l’occupazione insostenibile per Israele.

Lo scorso febbraio, mentre mi trovavo con Lawrence Wright, uno scrittore americano, sono stato aggredito dai soldati, e anche di questo episodio c’è un video, ripreso da un fotografo, che ha fatto il giro del mondo, ne hanno parlato i principali media israeliani, ma anche americani. Il primo novembre scorso sono stato arrestato per aver ripreso un soldato israeliano che picchiava un ospite palestinese-israeliano, ma soprattutto perché nel video si vede un altro soldato che dice che erano “ordini di Itamar Ben Gvir”, il ministro per la sicurezza nazionale, un estremista, fra i promotori della riforma per sovvertire la Corte suprema israeliana, contro cui tanti israeliani sono scesi in strada lo scorso marzo. Il video è circolato molto. Tutti parlavano di come un palestinese fosse riuscito a riprendere dei soldati che violavano il codice di condotta dell’esercito. Dopo quest’altro episodio sono stato maltrattato, hanno razziato casa mia, quella dei miei genitori, mi hanno confiscato i dispositivi elettronici. Insomma, io e i miei amici israeliani e palestinesi siamo una minaccia al progetto dell’Occupazione, ma siccome non riescono a sbarazzarsi di noi, devono prendersela con le nostre case, razziarle, arrestarci e intimidirci.

Sulla non violenza la maggioranza dei palestinesi è pessimista e non fa nulla, quindi non è che debba convincerli di passare dalla violenza alla non-violenza; ciò che faccio è provare ad attivarli, perché la stragrande maggioranza di loro vuole restare pacifica, alla larga dall’Occupazione. Una volta attivati, li faccio lavorare a qualcosa. Quando al checkpoint un soldato cerca di provocare i ragazzini e loro si mettono a cantare, percepisci il soldato che scoppia di rabbia e senti la felicità dei ragazzini. Io offro loro le tattiche per trasformare la rabbia in un fatto positivo. È ciò che ho insegnato anche a me stesso.

Issa Amro

Il mio atteggiamento nei confronti degli ebrei è cambiato quando ho iniziato a costruire il movimento internazionale di solidarietà: con me c’erano molti stranieri non israeliani e una volta uno di loro mi disse che era ebreo. Era una persona fantastica. Io gli risposi: “Ma come! Gli ebrei sono nostri nemici! Guarda cosa hanno fatto alla moschea di Abramo, guarda cosa fa l’esercito...”. Lui cominciò a spiegarmi cos’è l’ebraismo e mi sono ricreduto. In seguito ho scoperto che c’erano molti ebrei che credevano nei diritti dei palestinesi, così col tempo il mio atteggiamento è cambiato. Mi ricordo di “Breaking the silence”, che ha avuto inizio nel 2005. Ero andato dalle famiglie palestinesi a dire che c’erano ebrei che volevano incontrarli per dimostrare solidarietà, ma la maggior parte aveva rifiutato. Mi dicevano: “Issa, gli ebrei sono tutti uguali”. Adesso, invece, quando gli israeliani vengono a Hebron e capita che vengano aggrediti dai coloni o dall’esercito, si possono rifugiare nelle case dei palestinesi dove ormai sono i benvenuti. Questo è un altro grande risultato.

Io un futuro lo vedo. Ho ottime relazioni con le famiglie locali e riesco a convincerle a rimanere, a non abbandonare le case, perché ora la tattica del governo non è più sfrattare direttamente ma rendere le cose tanto difficili da spingere i palestinesi ad andarsene.

Spesso il New York Times e il Washington Post ci chiamano, ci danno una voce, cosa che non succedeva fino a qualche anno fa. Mi ha sconvolto vedere che invece in Italia non c’è così tanto spazio sui media per la causa palestinese. Sono stato in parlamento, ho parlato con i deputati, con la gente comune, ma non vedo qui molti ebrei della diaspora al lavoro per la Palestina. Ero a casa di un’attivista ebrea e le suggerivo di dar vita a una sezione italiana di “If not now”, un gruppo di ebrei con base negli Usa, ma lei mi ha risposto che stava nascondendo la sua identità ebraica. Le ho detto che non avrebbe dovuto nascondersi, che era utile manifestare la sua identità, dire: “Sono ebrea e mi oppongo all’Occupazione e all’apartheid”. Perché anche molti ebrei sono contrari all’apartheid, e proprio loro possono capirlo meglio di tutti, dato che hanno patito e patiscono ancora l’antisemitismo.

Ora sono ingegnere, ho un master in cooperazione internazionale e sviluppo conseguito all’Università di Betlemme, però credo di essere nato per aiutare la mia comunità, la mia gente. Nel 2018 ho lasciato la Palestina per andare a Santa Cruz, negli Stati Uniti, in California. Ma ci sono rimasto solo due settimane, non sono riuscito a stare di più, dovevo tornare a Hebron...

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Issa Amro è un attivista palestinese di Hebron. È il fondatore del movimento nonviolento Youth Against Settlement.