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La donazione Federico Zeri

Cinquanta opere appartenute a Federico Zeri dialogano con altrettanti capolavori dell’Accademia Carrara di Bergamo.

In un capitolo riservato alla conservazione dei Beni Culturali Federico Zeri (era il 1990) ebbe a scrivere di collezioni d’arte snaturate e smembrate: non convinto delle "ristrutturazioni" che danno ad alcuni musei l’aspetto di "cliniche di lusso", privilegiava "il rapporto tra opere d’arte e spazi ambientali... l’atmosfera nella quale vivevano coloro che avevano raccolto dipinti e oggetti" e rivolto agli architetti, denunciava: "Spesso paiono ignorare che ai musei ci si reca per vedere le raccolte e non per ammirare le architetture; nel Museo ideale queste ultime dovrebbero persino sparire".

I musei che Zeri prediligeva erano il Poldi Pezzoli di Milano, perchè privato e di "straordinario carattere", e l’Accademia Carrara di Bergamo, perché amava i collezionisti, soprattutto se del calibro dei conti Giacomo Carrara e Guglielmo Lochis e del grande storico dell’arte Giovanni Morelli. Non a caso Zeri ha donato a queste due importanti istituzioni gran parte delle opere che gli han tenuto compagnia nella sua casa di Mentana e che attualmente sono in mostra nel Palazzo della Ragione di Bergamo fino al 25 giugno 2000. Due dipinti prenderanno la via di Milano: il tondo con la Santa Elisabetta d’Ungheria di Raffaello e le figure "diafane, fantomatiche, medianiche... immerse in una sfera di rovello mistico" della bellissima Pietà di Giovanni De’ Vecchi, ma la raccolta di sculture resterà in pianta stabile presso l’Accademia Carrara colmando così un vuoto di opere d’arte plastica (caso raro in Italia).

Nel 1989, in occasione della mostra "Il conoscitore d’arte", Zeri aveva rilevato il carattere un po’ atipico della sua collezione formatasi "per la casualità degli incontri sul mercato, per il livello qualitativo sufficientemente alto, perché il prezzo era modico".

Il catalogo delle sculture parte dal rilievo del San Girolamo di ambiente padovano, che gira intorno alla figura centrale di Donatello, e dal ritratto d’uomo visto di profilo della seconda metà del Quattrocento, e segue per tutto il Cinquecento alcune linee guida nel modello allegorico della Prudenza di scuola senese, o nella forma del ritratto, nel bellissimo bozzetto dell’Apollonio Massa, terracotta plasmata da Alessandro Vittoria (che rimanda immediatamente all’opera finale vista di recente a Trento nella mostra dedicata a questo artista). Questo piccolo gioiello "ci aiuta a capire - sono parole di Andrea Bacchi, curatore della mostra bergamasca nonché ricercatore presso l’Università di Trento - come lavorava Vittoria: egli riservava il proprio intervento diretto alle fasi cruciali della realizzazione, modellando di propria mano, di fronte al personaggio ritrattato un ‘primo pensiero’ comprendente non l’intera composizione, ma il solo volto, privo del busto".

D’improvviso però questa collezione sembra farsi più sistematica quando di colpo l’aria si fa più mite, si va nella capitale e tutto si mette a girare intorno al grande assente Gian Lorenzo Bernini. Al suo posto troviamo gli esponenti principali della scultura romana della seconda metà del Cinquecento, a cominciare da Pietro Bernini, padre di Gian Lorenzo, con la sua dolcissima Andromeda, e Nicolas Cordier con lo stupendo busto di papa Paolo V Borghese di forte caratterizzazione psicologica, quasi fosco nella contrapposizione marcata delle ombre e dello sguardo. Non sono da meno i due Putti marmorei di Francois Duquesmoy e il busto di Domenico Guidi, allievo prediletto di Alessandro Algardi; come sorprendente risulta l’abilità di modellato nelle terrecotte del genovese Filippo Parodi e del lionese di stampo classico François Marie Poncet...

Questa mostra si impone inoltre per lo stupendo allestimento delle opere, che traduce nel linguaggio della luce un credo di Zeri: quello di vedere l’opera non come un’icona, ma nel legame, nel sistema di relazione che essa stabilisce con il suo tempo.