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Pasolini e la falsa rivoluzione del ‘68

Aldo Riccadonna

Riprendo alcune frasi di Ettore Paris nell’articolo Ma quale guerra civile?!, apparso su QT del 26 febbraio: "Stavamo cambiando la società"; "tutto questo era anche il riflesso del passaggio da una società prevalentemente contadina ad una pienamente industriale: ma sta di fatto che noi ne eravamo gli interpreti"; "era il rivolgimento epocale". Questo grande mutamento è considerato trionfalisticamente il prodotto della contestazione del ’68. Ma per Pasolini essa non è un "prendere coscienza" della storia, anzi gli studenti sono vittime e colpevoli di un colossale equivoco.

Roma, 1° marzo 1968: la polizia a Valle Giulia.

Questi giovani rivoluzionari che hanno pronunciato una condanna radicale contro i loro padri, alzando contro essi una barriera insormontabile, si sono perciò isolati, chiudendosi in un ghetto che impedisce loro un confronto dialettico. Si sono chiusi nel ghetto della gioventù, il loro rifiuto puro è per Pasolini arido e malvagio. Sono dei borghesi come i loro padri, non solo perché figli di borghesi, ma perché tali nella loro visione del mondo. Anche per gli studenti, allora minoritari, provenienti dalle classi popolari, la partecipazione alla contestazione fu il lasciapassare per approdare in seno alla borghesia trionfante: "Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte/ coi poliziotti,/ io simpatizzavo coi poliziotti!/ Perché i poliziotti sono figli di poveri./ Vengono da periferie, contadine o urbane che siano./ [...] I ragazzi poliziotti/ che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione/ risorgimentale)/ di figli di papà, avete bastonato,/ appartengono all’altra classe sociale./ A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento/ di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte/ della ragione) eravate i ricchi,/ mentre i poliziotti (che erano dalla parte/ del torto) erano i poveri".

I giovani studenti non sono, come essi si immaginano, la luce dell’avvenire comunista; essi sono certo la luce dell’avvenire, ma di quello neocapitalista. Con essi avviene una lotta intestina alla borghesia: questo è il l’equivoco che Pasolini pensa di avere smascherato, tirandosi addosso le critiche di tutta la sinistra.

In polemica con Marcuse, secondo il quale gli studenti sono gli "eroi del nostro tempo", Pasolini intende fare una distinzione tra studenti americani e della Germania Occidentale da un parte, e studenti di Italia e Francia dall’altra. La discriminante è data dalla presenza o meno di una cultura marxista. La qualifica di eroi vale solo per i paesi in cui non esiste questa cultura, mentre là dove esiste, gli studenti, secondo Pasolini, giustamente criticano un marxismo vecchio, ma da una posizione non marxista e dunque la loro è una guerra civile e non una rivoluzione. Costoro assomigliano ai loro padri borghesi per l’odio contro la cultura, la "coscienza dei loro diritti" e l’aspirazione al potere: "Smettetela di pensare ai vostri diritti,/ smettetela di chiedere il potere./ Un borghese redento deve rinunciare a tutti i suoi diritti,/ e bandire dalla sua anima, una volta per sempre,/ l’idea del potere".

Per Pasolini gli studenti sono anticomunisti, anche se verbalmente adoperano il linguaggio marxista. Nella Apologia a Il PCI ai giovani!, Pasolini spiega come i suoi versi siano stati una provocazione. Il pezzo sui poliziotti sarebbe un pezzo di ars retorica, una captatio malevolentiae, dunque appunto una provocazione.

Trasumanar e organizzar, un libro di poesie scritto tra il 1968 e il ‘71, è in gran parte dedicato alla critica della rivolta studentesca. Gli studenti formano ormai la nuova opinione pubblica, ma ogni opinione pubblica è sede di Terrore: "il grido estremistico/ li salva come una medicina che fa tacere la realtà". Pasolini aveva criticato e criticava il PCI per il suo stalinismo e il suo conformismo, e tuttavia egli si sentiva sempre legato ad esso per un patto di lealtà verso gli operai e dunque verso il loro partito, anche se ormai era diventato una istituzione. Anche gli studenti contestatori criticarono aspramente il PCI, ma con una opposizione netta e quindi non dialettica. Anche in questo Pasolini sospetta la natura borghese di questa rivolta. (…)

La novità eretica dei contestatori è in realtà una nuova ortodossia con le sue alleanze cameratesche, il disprezzo esaltato contro gli infedeli, la stereotipia, il tono predicatorio, il moralismo, il ricatto nel nome della lotta dei giusti: il tutto perfettamente codificato e prevedibile. Mirano alla purezza originaria del pensiero con le loro rivolte "dirette da una segreta ansia di ordine". E per ortodossia Pasolini intende il fanatismo, la voglia di uniformità e l’odio per i diversi, tutte cose che il poeta assimila allo spirito borghese. Gli studenti vogliono instaurare una nuova Chiesa coi suoi riti e i suoi anatemi.

La rivolta del ’68 è stata una falsa rivoluzione, che si è presentata come marxista, ma in realtà non era altro che una forma di autocritica della borghesia, che si è servita dei giovani per distruggere i suoi vecchi miti divenuti obsoleti. La rivoluzione neocapitalistica era già avvenuta nella struttura; ora bisognava che fosse perfezionata la rivoluzione a livello sovrastrutturale-culturale: questa è la più feroce critica di Pasolini al ’68. Per rivoluzione neocapitalistica si intende il passaggio all’omologazione consumistica: non più le vecchie culture (contadina, borghese, proletaria ecc.), bensì un’unica cultura, quella del consumo ed anzi di identici consumi per tutti, così da produrre il livellamento e la fine della critica.

Ogni gioventù, ha diritto alla ribellione. Ma questi giovani contestatori hanno avuto solo l’illusione della ribellione, hanno già trovato la strada spianata da coloro (la vecchia borghesia che si stava riorganizzando per approdare al neocapitalismo) che volevano contestare la tradizione. Quindi la rivolta non fu provocata da questi giovani, ma fu instillata in loro dai padri, o meglio dalla nuova cultura neocapitalistica. Erano i padri che volevano farla finita col loro passato, con la loro storia. Il capitalismo aveva bisogno di mutare radicalmente, e strumentalizzò i suoi figli per raggiungere l’obiettivo. Fu una ribellione voluta dall’alto e i ribelli ingenui vi si buttarono furiosamente pensando di esserne i veri promotori. (…).

Queste critiche alla contestazione studentesca non impedirono a Pasolini di scorgervi anche gli elementi di positiva novità. Egli volle sempre un confronto-scontro con gli studenti. Addirittura nel 1971 fu per tre mesi direttore responsabile di Lotta continua, quando questo giornale ne fu momentaneamente sprovvisto, a causa di condanne per reati d’opinione dei precedenti direttori. Nel 1972 Pasolini girò anche un film-documentario assieme a Lotta continua: "12 dicembre", un excursus sull’Italia di quel momento. (…)

Sulla questione di Piazza Fontana, Pasolini si schiera coi gruppi extraparlamentari contro la tesi governativa degli "opposti estremismi" tendente a equiparare i gruppi di estrema destra e di estrema sinistra come responsabili di quell’attentato terroristico e di tanti altri. E’ anche dell’avviso che gli studenti hanno svegliato dal sonno i sindacati ed hanno aiutato le lotte operaie, pur con le limitazioni sopra osservate. Il Movimento studentesco ha anche riattualizzato la lotta di classe, riprendendone temi che andavano scolorendo. Insomma, se soggettivamente gli studenti potevano anche essere convinti di essere dei rivoltosi, oggettivamente erano incanalati nella trasformazione neocapitalistica.

Aldo Riccadonna

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1968. Temi, miti e valori di una generazione che voleva cambiare il mondo
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Commenti (3)

Pentiti di lusso Sergio Falcone

“E nel periodo del cosiddetto ‘riflusso’ – come si disse con metafora mestruale azzeccata per una generazione già definita come ‘proletariato biologico’ – ho potuto osservare che i più furbi, gettato il colletto alla Mao alle ortiche, occuparono poi i migliori posti nelle Università, nelle televisioni e nelle amministrazioni pubbliche e private, e si comprarono la Bmw e la cocaina tipica dei ‘tossici integrati’ degli anni Ottanta, in attesa di collegarsi via Internet e gettarsi a capofitto nella superstrada dell’informazione, nel sogno di una supposta o suggerita comunicazione globale o liberazione tramite costose protesi elettroniche. Questo mentre i più stupidi fra quelli che volevano dare l’assalto al cielo finivano in cura dai guru per una buona terapia a prezzi popolari; e i più poveri finivano in cessi insanguinati, con l’ago nella pancia, in qualche angolo della metropoli rischiarato d’irrealtà. Non so se quella sessantottina sia la peggiore generazione di egoisti, di pentiti e di opportunisti e psicopompi che l’Italia abbia mai conosciuto. So però che volevano mandare al potere l’immaginazione, la loro immaginazione. E che molti han dovuto vedere le proprie buone intenzioni rovesciarsi in cattivi effetti. Che li consoli un po’ di buona letteratura. Kafka, per esempio: ‘Non ci fa tanto male ricordare le nostre malefatte passate, quanto rivedere i cattivi effetti delle azioni che credevamo buone’. […] E’ qui, a Milano trent’anni dopo, che inciampo ancora nel corpo del mio essere sociale, lo rivolto con la punta del piede e lo trovo splendidamente decomposto. Al punto giusto per ritornare verso le portinerie delle case dalle finestre munite di solide inferriate e lampeggianti segnali pronti a dare ancora l’allarme; e i videocitofoni e gli orologi e le telecamere agli angoli di certe strade del centro con le banche vigilate notte e giorno; e poi le scale e gli uffici delle amministrazioni e delle Ussl disinfettate all’alba, tutti i santi giorni, con impiegate in preda a sogni agitati ‘un attimino’ e burocrati, leghisti di mezza età o ex-compagni di un tempo sopravvissuti a tutti i cambiamenti, anche a Tangentopoli, seduti su poltroncine in pelle, anche umana, girevoli, che ti offrono un sigaro con un sorriso brillante come un getto di napalm…”, GIANNI DE MARTINO, I CAPELLONI, CASTELVECCHI, ROMA 1997.

urano

il liberismo può realizzarsi a patto che tutti siano liberi, ma il capitalismo crea rapporti di subordinazione "foucault" tali per cui anche volendolo l iphone molti non sarebbero liberi di comprarlo, senza pensare ai rapporti di subordinazione del sistema mondo centro-periferia dove il liberismo fa affondare navi nel mediterraneo di continuo. Pasolini era contro lo sviluppo non contro il modernismo o il progresso- per concludere le sue ragioni si basano su un po di psicologia spiccia e sulle sue abituni allo shopping ...non c'è razionalità ma solo doxa per ritornare ai greci, irrazionalismo /spacciato per logos attitudine che faceva bagnare hitler

frankdd

Ecco, Pasolini è il classico reazionario, e con caratteristici tratti:
-una visione omo-erotica del poliziotto, dell'operaio e del contadino, non molto dissimile dagli archetipi umani che tutti i regimi totalitari imponevano alle masse, dal mito arcadico che Platone aveva intravisto a Sparta, dai biondi guerrieri delle steppe pontico-caspiche che di notte bagnavano i pantaloni di Adolf Hitler e dal mito di Stachanov in URSS;
-disprezzo per lo studente sessantottino e per la sua lotta anti-autoritaria, molto probabilmente dettato dall'esigenza di colmare, con questo atto di "sadismo intellettuale" verso la figura dello studente borghese degenerato ed annoiato (manco Casa Pound è esplicita come lui a riguardo), il complesso di mancanza di mascolinità arrecatogli dalla sua omoesessualità;
-un antimodernismo ed una visione del mercato e della civiltà capitalista paranoica, cieca e demenziale che contagia gli estremismi politici trasversalmente, da Karl Marx a Julius Evola.
Sono orgogliosamente figlio di questa civiltà borghese: nessuno mi viene a prendere per i capelli per comprare l'I-phone (tant'è che non ce l'ho), nessuno mi obbliga a vedere grande fratello (tant'è che non lo vedo) e nessuno mi tira per le orecchie e mi butta nel gay pride vestito da donna.
Questa civiltà borghese che voi reazionari, di destra e di sinistra, disprezzate tanto, mi dà la libertà di ritagliarmi il mio spazio e mi da la responsabilità di ritagliarmelo al meglio possibile.
Francesco.
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