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“Patologie del nostro tempo”

“Patologie del nostro tempo”, su “Testimonianze”, n. 438-439, pag. 240, 15. La tecnologia, l'umanesimo, il disagio sociale, su una rivista e in un dibattito sugli orizzonti dell'Università.

Davide Bassi e Gianluca Salvatori concordano: è per mantenere in Trentino il nostro benessere che è necessaria la ricerca scientifica. Nell’epoca della competizione globale, quando l’India e la Cina sono ormai i paesi più minacciosi, è l’innovazione scientifica e tecnica che qualifica l’apparato produttivo, industriale, agricolo, dei servizi. Lì si decide il futuro di un territorio, piccolo, eppure orgoglioso.

Il rettore dell’Università e l’assessore della Provincia, (ed Enrico Franco, direttore del Corriere, che li intervista) sono autorevoli esponenti della classe dirigente locale, fra quelli che la società stima ancora, anche quando il dibattito diventa aspro. L’Italia è in coda ai paesi dell’Unione Europea, e con il governo di destra il disinteresse è cresciuto, ma il Trentino si vanta, a ragione, per le risorse che l’ente pubblico (quasi solo, però) investe nella ricerca.

Il rettore e l’assessore si distinguono in un’accentuazione diversa. Il primo privilegia la ricerca di base, a lunga scadenza, rischiosa, che può anche fallire: la fisica è una scienza che sta sulla scena del mondo, non è genovese o trentina, e le riviste che contano, e premiano un ricercatore emergente, sono dieci, e scritte in inglese.

L’assessore avverte l’urgenza di una ricaduta immediata, applicata all’industria del territorio: spetta alla società, alla politica, scegliere con rigore gli ambiti (pochi) su cui indirizzare le (scarse) risorse. Ma nessuno dei due nega (è una dialettica fisiologica, che dura quanto è lunga la storia) il valore della priorità indicata dall’altro. L’importante è convenire che, per reggere nella competizione, e continuare a stare bene in Trentino, serve la scienza. E la tecnica che, in tempi sempre più rapidi, ne applica le scoperte.

La piccola folla, presente nel foyer del Teatro Sociale, applaude convinta. E’ lì convocata dal Museo di Scienze Naturali, per festeggiare l’anno della scienza, quando Giunta e Consiglio stanno per approvare la legge di riforma, dopo un aspro confronto sindacale e politico. Perché i cittadini sappiano come stanno le cose, dai nostri massimi esperti.

Io, al dibattito, mi sono portato l’ultimo numero di Testimonianze, la rivista (per me prestigiosa) fondata a Firenze, cinquant’anni fa, da Ernesto Balducci. La sezione monografica, "Patologie del nostro tempo", è dedicata alla società occidentale nel terzo millennio. C’è un abisso fra lo sguardo gettato sul mondo dai relatori trentini, sul nostro star bene, la fortezza a rischio che dobbiamo difendere, e la malattia, il nostro star male, descritta invece dagli studiosi toscani che sto leggendo (angosciato).

E’ un malessere sotterraneo che esplode in episodi feroci, apparentemente inspiegabili. Sono i piccoli crimini in contesti domestici, e i grandi crimini della storia, la violenza e la guerra. La domanda è: gli scoppi di follia omicida, i suicidi, i comportamenti crudeli, sono eventi eccezionali, disturbi che sorgono in un corpo sostanzialmente sano, o sono, le patologie, "il lato in ombra della nostra normale quotidianità"? Severino Saccardi, direttore di Testimonianze, nell’introduzione, propende per la seconda spiegazione. Fra normalità e devianza, fra lo "stare bene" e lo "stare male", vede quasi un rapporto di causa-effetto, o almeno di correlazione. Fabio Dei, tuttavia, docente all’Università di Pisa, mette in guardia da un generico radicalismo che accusa la modernità in sé, perché questa tesi trascura la "faccia chiara" della civiltà: "il fatto, cioè, che essa rende possibili forme nuove di convivenza pacifica e di rispetto dei diritti e della dignità degli esseri umani".

La riflessione si dispiega attorno a questo interrogativo, in saggi e racconti, di antropologi, psicoterapeuti, medici, sociologi, storici, educatori, operatori sociali, critici letterari, artistici, musicali.

Sono sorpreso, ma solo un poco, all’inizio, quando scorro l’indice in fretta, che nel volume trovino spazio l’analisi delle canzoni di Fabrizio De André, delle poesie di Dino Campana, (il poeta che viaggiò nella "pazzia"), delle fotografie di guerra, delle immagini televisive, delle parole che usano i giornalisti nei loro servizi.

Elenco i temi del disagio (ma anche delle esperienze di cura) per titoli: la depressione, i disturbi alimentari, il culto malato del corpo, l’alcolismo, la tossicodipendenza, il ricorso smodato ai farmaci (anche la "pillola della felicità"). In famiglia: i fallimenti matrimoniali crescenti, la violenza nascosta, la difficoltà a generare e ad essere genitori. E ancora: il narcisismo, l’invidia, la schiavitù del gioco d’azzardo, l’acquisto compulsivo dettato dal consumismo, il mobbing sul posto di lavoro. Più in profondità: il piacere del crimine, l’intreccio fra sacro e violenza, il virus dei media, l’occultamento della morte, la sofferenza connessa alla diversità culturale.

E’ soprattutto il saggio di Attilio Monasta, dell’università di Firenze, che mi colpisce. La sua tesi è che "gli investimenti privati e pubblici per la ricerca nel campo delle scienze umane, che potrebbero aiutare non solo a capire di più e talvolta a prevenire questi fenomeni… sono invece all’ultimo posto e a grande distanza, nella scala degli investimenti di ricerca scientifica."

Il divario, fra scienze della natura e scienze sociali, prova come solo alle prime, "esatte", si riconosce lo statuto forte di scienza, mentre le seconde sono relegate nell’ambito lenitivo, (parolaio), dell’etica. Il pensiero sottinteso è che in questo mondo noi stiamo bene, che l’attuale modello di sviluppo economico e tecnico è un destino di benessere meritato e irrinunciabile, da sostenere con altre iniezioni di scienza. All’interrogativo sulle patologie il divario dà una risposta di "buon senso"che tranquillizza: sono arti malati, da affidare ai nostri terapeuti specializzati, ma il corpo è sano, continua a crescere rigoglioso.

Quando cito, nel dibattito, la tesi di Attilio Monasta, bisogna dire che Davide Bassi e Gianluca Salvatori replicano con prontezza, riconoscono che la scienza va equilibrata con l’umanesimo. L’università a Trento è nata "umanistica", proprio con Sociologia, e l’Istituto Trentino di Cultura non è solo l’Irst, ma anche l’Istituto Storico e di Scienze Religiose.

E’ un fatto però che, nell’introduzione, alle scienze sociali non è stata dedicata una sola parola, che la sala è affollata di scienziati (della natura) e di tecnici. I sociologi, i giuristi, gli storici, i linguisti, i filosofi, i teologi, i pedagogisti, mi paiono assenti, quasi che, anche per loro, un dibattito nel cuore della città, titolato "La ricerca scientifica in Trentino", sia fatalmente riservato alle industrie e alle macchine. L’assenza è il sospetto con cui guardano, estranei, in collina, ai dirimpettai dei laboratori e delle officine.

Il mio pessimismo, fortunatamente, è subito smentito dall’intervento di uno psicologo (aziendale): "L’esperienza mi dice che l’interesse delle aziende non sempre coincide con l’interesse delle persone". E’ il momento culminante, il più teso, dell’assemblea: ai due paradigmi apre uno spazio immenso di ricerca, comune. Certo, ricerca mai pacificata, in tensione perenne. Nessuno vuole prendersi gioco dei dati del Pil, (sarebbe, oltre tutto, una mancanza di rispetto verso i paesi più poveri), ma i profitti nell’economia e i successi nella tecnica, con tutta evidenza, non ci fanno felici.

Attilio Monasta non protesta certo per allargare un poco la borsa di una corporazione: "Tutta la comunità scientifica dovrebbe accorgersi di quanto sia sospetta l’enorme sproporzione fra investimenti nelle tecnologie belliche, spaziali, energetiche, e investimenti nella ricerca scientifica finalizzata a capire di più il comportamento umano e sociale". Riconosce la necessità di "imporre criteri severi per la validazione della ricerca anche nelle scienze umane". E aggiunge che la cattiva informazione giornalistica, drammatizzando nella coscienza collettiva i cosiddetti "raptus" di violenza (con le cialtronesche domande alla madre della bambina sequestrata se "perdona" il criminale o se "è favorevole alla pena di morte"), finisce per nascondere la patologia più grave della nostra epoca: "la degenerazione dei sistemi democratici imposta dal capitale finanziario".

Io penso alla commozione che ci prende, per un giorno, in Trentino, ogni volta che un anziano, o un giovane, decidono di suicidarsi. Ci impegniamo persino a non dimenticare, ma poi, presi nell’ingranaggio del nostro star bene, in competizione, sospendiamo la ricerca troppo difficile.

Quando il sabato sera muore un ragazzo (o due, o tre, o quattro, insieme), correndo con l’auto, abbiamo un altro soprassalto. Perché corrono tanto, in molti? La mia impressione, dalle cronache dei quotidiani, (ma non esistono dati… scientifici) è che i più esposti al rischio di morire, e di uccidere, siano quelli che non hanno potuto finire gli studi, o che con la scuola hanno avuto un cattivo rapporto. "Bravi ragazzi, grandi lavoratori, al bar rallegravano la compagnia", troppo spesso si legge: ma non a scuola, dove (in qualche modo) si elabora un pensiero più profondo, e più tenero, sul mondo, sul piacere, sulla donna, sull’infinito, su dio. E così corrono, per realizzarsi, e sentirsi vivi, su un cavallo d’acciaio.

Dalla scienza non mi aspetto risposte definitive, indiscutibili. Davide Bassi dichiara inattendibile la tesi sugli investimenti del collega fiorentino Monasta. Gianluca Salvatori correrà in Giunta, domani, supportato da tabelle di numeri immagino, a sostenere la necessità dell’autostrada Valdastico. Sviluppo sostenibile, questo.

Se a un incrocio il traffico è intasato, il "tecnico", con carta e penna, senza sbagliare, conta le auto, misura quanto è larga la strada, il livello dello smog e delle polveri fini, numera i parcheggi esistenti. Ho fra le mani un programma per le elezioni al Comune di Trento: il partito ("l’unica vera credibile alternativa" all’attuale amministrazione) si vanta di essersi opposto a "restrizioni di strade" e promette di costruire "parcheggi per tutti a costi accettabili". Siamo noi ("la politica siamo noi, in quanto esistiamo al plurale", diceva Hannah Arendt) che decidiamo se sono strette le strade, e scarsi i parcheggi, o se sono troppe le auto in circolazione. Disincentivare le auto è una scelta politica.

La scienza non dà la risposta ultima, solo quella intermedia. Significativa, però. I suoi risultati, provvisori, andrebbero divulgati, capillarmente, per aiutarci a sbagliare di meno. Né la scienza conosce gli scopi finali. Non è necessario pensare agli scienziati nazisti. Fabio Dei racconta la storia di Ishi, l’ultimo "selvaggio" sopravvissuto della tribù Yahi in California. Quando morì, nel 1916, nonostante le sue esplicite raccomandazioni per una sepoltura tradizionale, il grande antropologo (!) Alfred Kroeber fece sottoporre il suo corpo ad autopsia, e il suo cervello fu asportato per essere analizzato e conservato sotto formaldeide. "In nome della scienza".

E’ per capirne di più, penso, che alla fine del dibattito, a Trento, due scienziati duri, della natura, mi chiedono l’indirizzo di Testimonianze (l’indirizzo di Testimonianze è via G. Orsini 44, 50126 Firenze).