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Tramonto di un leader

Luci e ombre della politica di Tony Blair. Da L’altrapagina, mensile di Città di Castello.

Siavush Randjbar-Daemi

What goes up must comes down. Questo proverbio molto britannici riassume il tramonto della carriera politica di Tony Blair, il leader laburista che nove anni e mezzo fa mise fine a 18 anni di dominio dei conservatori: chi sale troppo in alto finisce per cadere. Osannato come il grande riformatore, l’uomo che fece uscire il partito dall’arcaico legame coi sindacati (Blair fece cancellare un articolo che impegnava il partito a lottare contro la privatizzazioni), Blair si è reinventato una sinistra soft, evidenziando più di una forte affinità col conservatorismo “compassionevole” in voga negli Stati Uniti. E forse è proprio la politica sociale di Blair, assieme alla difesa a spada tratta delle numerose avventure militari intraprese di concerto con gli Usa, ad aver diviso il Labour.

Eletto a furor di popolo nel 1997, con una maggioranza fino a pochi anni prima impensabile, Blair è succube delle lotte di potere che si susseguono alle sue spalle. Giunto alla leadership laburista attraverso una serie di indebitamenti interni con avversari come John Prescott (capofila dell’ala sindacalista) e Gordon Brown, paladino del “vecchio stile” ancora in voga tra i laburisti scozzesi, Blair è da subito indebolito da una serie di scandali che colpiscono i suoi più stretti collaboratori. Peter Mandelson, l’artefice della svolta blairiana, ha dovuto dimettersi per ben due volte dai suoi incarichi ministeriali, a causa di scandali finanziari. Alistair Campbell, portavoce di Blair nonché curatore delle sue apparizioni mediatiche, è stato costretto al ritiro dalla vita pubblica dopo “l’affaire Kelly”, che portò al suicidio di David Kelly, un esperto del Ministero della Difesa che aveva messo in dubbio il fatto che l’Iraq possedesse armi di distruzione di massa prima dell’inizio della guerra nel 2003.

La guerra con l’Iraq divenne il tormentone di Blair e oscurò di fatto le tante note positive dei suoi governi, dal miglioramento delle strutture sanitarie ad una economia quasi sempre in crescita, passando per decisivi passi in avanti nella risoluzione della spirale di odio interconfessionale nell’Irlanda del Nord.

Dopo aver sostenuto senza troppe esitazioni l’alleato americano – senza badare al suo colore politico - nelle campagne in Jugoslavia e Afghanistan, Blair decise di sfidare una opinione pubblica che aveva accolto con nervosismo i suoi propositi di attaccare il regime di Saddam Hussein senza alcun avallo da parte dell’ONU. Lo scandalo Kelly e il numero crescente di soldati caduti in Iraq, assieme alla mancanza di risultati concreti, ha ulteriormente screditato la linea del primo ministro inglese, assediato ormai da un tonificato partito conservatore, che sotto il nuovo leader David Cameron ha scartato come proprio simbolo la fiamma a favore di una quercia, che (come insegna la politica italiana) sottintende profondi cambiamenti e rotture col passato. Proprio come i DS nostrani, anche i Tories stanno abbandonando il loro tradizionalismo a favore di una destra moderna e attenta a temi come l’ambiente, la sanità pubblica e naturalmente le consistenti presenze militari in Iraq e Afghanistan, a cui Cameron comincia a opporsi in maniera sorprendentemente consistente.

Blair è stato inoltre accusato da molte parti di aver fomentato indirettamente la spirale di violenza interna di matrice islamica che ha colpito la Gran Bretagna in seguito all’impegno in Iraq. Ben il 64% degli intervistati di un sondaggio del quotidiano The Guardian ha infatti ritenuto che la guerra in Iraq sia stata una delle motivazioni principali degli attacchi terroristici del 7 luglio 2005 a Londra, che causarono la morte di 52 persone e un’ondata di panico collettivo.

Braccato internamente dal suo cancelliere dello scacchiere Gordon Brown, che lo ha indirettamente accusato di aver ritardato il passaggio delle consegne, Blair si è ritrovato con le spalle al muro e ha iniziato un lungo addio: entro il luglio 2007 il Labour sceglierà infatti un nuovo leader. Sebbene Brown sia in pole position per la successione, non mancano altre autorevoli voci che vorrebbero invece la salita al potere di esponenti come John Reid, un altro membro della potente “casta scozzese”, ora ministro dell’interno. I seguaci di Blair potrebbero invece fare affidamento sull’astro nascente della loro fazione, Alan Johnson, divenuto ministro dell’Educazione nonostante avesse abbandonato la scuola a soli 15 anni. Una sfida interna prolungata avrebbe però l’effetto di rafforzare la posizione di David Cameron, che in tempi recenti ha riportato i conservatori a indici di gradimento che erano un ricordo degli anni thatcheriani.

Tony Blair lascia le redini del potere dopo dieci anni in cui il partito laburista ha risollevato le sorti di una Gran Bretagna vittima della devastante crisi economica creatasi a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90, ma che ultimamente si è trovato vittima di innumerevoli scandali che hanno travolto i suoi più stretti collaboratori e della sua insistenza a fungere da obbediente gregario alle macchinazioni militari di Washington, nonostante lo scontento di gran parte dell’opinione pubblica. Resta da vedere se Cameron o i nuovi leader laburisti riusciranno a ricalcare alcuni dei punti fondamentali del suo decennio, oppure se la inimitabile era Blair sarà definitivamente accantonata.

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