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QT n. 12, dicembre 2020 Cover story

I tentacoli

Come la piovra si è insinuata nella società trentina. E come ha trovato spazi ed alleati.

Nota per il lettore

In queste pagine vengono riportati ampi brani dell’ordinanza e stralci dalle intercettazioni. Per distinguere le fonti, abbiamo usato questi artifici grafici:

In tondo sono parole nostre.

In corsivo sono frasi del Gip o degli investigatori.

In corsivo grassetto sono intercettazioni come riassunte dai trascrittori.

In corsivo grassetto sottolineato sono parole come effettivamente pronunciate.

Un’ulteriore avvertenza: nelle intercettazioni ricorrono numerose, pesantissime, insultanti offese. Per rispetto alle persone coinvolte chiunque esse siano, abbiamo il più possibile mascherato gli insulti, compatibilmente con lo sforzo di riferire fedelmente il clima dei colloqui.

Si avvalevano e si avvalgono della forza di intimidazione, della condizione di assoggettamento e di omertà derivante dalle associazioni criminali di provenienza” dell’”effetto ulteriormente intimidatorio derivante dalla commissione di svariati reati in Trentino… per acquisire la gestione o comunque il controllo diretto o indiretto di attività economiche, di concessioni, di appalti e servizi” mettendo in atto “plurime condotte di detenzione illecita e porto illecito di armi comuni e da guerra… di sfruttamento di lavoratori del porfido… gravi reati contro la persona e contro il patrimonio… plurimi reati contro il fisco, e di reati contro la libertadi voto”.

Queste le parole con cui il Giudice per le Indagini Preliminari Marco La Ganga ha disposto carcerazione o domiciliari per 18 persone, individuate come componenti di una “locale” trentina della ‘ndrangheta. Le intercettazioni che abbiamo riportato nello scorso numero crediamo descrivano pienamente il modo di operare di queste persone, la violenza aperta o latente, l’estrema pericolosità per i singoli e per la comunità.

Come hanno fatto a insinuarsi nella nostra società? E fino a che punto, cosa controllano, quali alleati hanno trovato? Nell’economia, nella politica, nelle istituzioni. Questi i temi che andiamo ora a trattare.

Tutto ebbe inizio con Giuseppe Battaglia, che giunse in Trentino dalla Calabria negli anni ‘80. Nella natia Cardeto aveva già partecipato, giovanissimo, a fatti di mafia assieme al sodale Innocenzio Macheda; arrivato in val di Cembra, passò alcuni anni ad ambientarsi. Frequentava la casa di Fortunato Casagranda, comunista verace, dove conobbe altri giovani del paese, che parlavano di politica e di ideali egualitari. Lui, in disparte taceva, stava ad ascoltare, imparava. Degli altri giovani il figlio di Fortunato, Ezio, sarebbe diventato sindacalista di estrema sinistra Cgil, avrebbe fondato in Trentino il sindacato di base ma poi... (ne parleremo nel prossimo numero); la figlia Giovanna sarebbe diventata sua moglie e “contabile” delle sue successive innumeri società (ora si trova imputata e agli arresti domiciliari); Walter invece, un operaio che di cognome faceva Ferrari ed è uno degli estensori di questo articolo, si sarebbe speso dall’altra parte della barricata, animando il Comitato Lavoratori Porfido e le denunce dello strapotere padronale e le derive mafiose.

Ma torniamo agli anni ‘80. Il giovane Battaglia, una volta ambientatosi, nel 1989 diede vita con il fratello Pietro a una ditta artigiana (Battaglia Giuseppe & C. s.n.c.) che si occupava di lavorazione e posa del porfido, scavi e movimento terra e dal 1992 anche di autotrasporti. Ma il grande balzo avvenne a cavallo tra il 1998 e il 2000, quando mise le mani sulla grande cava di Camparta. Come ci riuscì? Con quali denari?

Pecunia non olet

Ne abbiamo parlato nel maggio scorso (I signori del porfido) e allora alcune cose non tornavano. Ora abbiamo delle prime risposte. È Domenica Denisi, madre di Macheda (considerato dagli inquirenti il capo dell’organizzazione) a spiegare in un’intercettazione che “lei a Peppe Battaglia, quando il figlio (Innocenzio Macheda ndr) è salito per fare la ditta, ha inviato tantissimo denaro, nell’ordine di milioni”. Non è l’unica testimonianza: di questi ingenti capitali portati dalla Calabria a Cembra per far fare il salto di qualità al piccolo imprenditore Battaglia, parlano spesso gli altri sodali, ad esempio Mario Nania “non solo qua, ma dappertutto ha avuto l’aggancio, ha avuto i soldi... ha avuto dappertutto”. O il fratello Pietro Battaglia: una terza persona non identificata dagli inquirenti “arrivò con una valigetta piena di soldi, li mise sul tavolo, si sedette invitando i presenti a controllare se fossero giusti. Pietro racconta che si sedettero e si misero a contare pazientemente il denaro nella valigetta impiegando mezza mattinata”.

Ecco dunque il giovane Battaglia che con questi soldi calabresi si lancia nel giro degli affari grossi, e subito trova dei partner d’eccezione nel settore, i cugini Carlo e Tiziano Odorizzi, che assieme ai fratelli Stenico di Fornace all’epoca controllavano oltre il 60% del mercato mondiale. È il primo caso: i capitali trentini, quelli grandi e potenti, garantiti o anticipati dalle banche locali, si mescolano senza batter ciglio con quelli calabresi sbucati dal nulla. Perché attenzione, Tiziano Odorizzi non è un imprenditore qualsiasi: consigliere provinciale, della Margherita (il partito dell’allora presidente Dellai), è il referente in valle della politica. È lui a fare, disfare, bloccare leggi e provvedimenti, è lui a poter agire con autorità sugli organismi provinciali di controllo.

Diventato partner di Odorizzi, Giuseppe Battaglia ha fatto il salto di qualità. Capiamo subito cosa ci abbia guadagnato Battaglia; e Odorizzi?

C’è poi una seconda anomalia. Dopo una vorticosa serie di passaggi (li abbiamo illustrati nel dettaglio sempre in I signori del porfido) tra molteplici società spesso omonime (per renderne più complessa l’identificazione?), approdi a paradisi fiscali come l’Isola di Man o il Liechtenstein, Odorizzi e Battaglia spendono sette miliardi di lire per la nuova società Camparta srl, ma la precedente proprietaria Lavorazione Porfido ne incassa solo 2,9. Gli altri soldi, dove sono finiti, tra un passaggio e l’altro?

Anche qui le intercettazioni forniscono delle risposte. A iniziare dallo stesso Battaglia che confida: “Se hai disponibilità di soldi... io quando stavo bene che ho comprato la Camparta... ho guadagnato a comprarla e rivenderla dopo tre anni ho guadagnato un bel pò di soldi...”. Più brutali i suoi sodali, che sembrano ipotizzare, da parte di Battaglia, anche un gioco in proprio, al di fuori dell’organizzazione. Tra i tanti, Pietro Denise: “Battaglia dice che sicuramente quelli in nero li ha già spesi, comprando l’attrezzatura, ma sicuramente 1 o 2 milioni di euro li ha nascosti da qualche parte… quella volta è uscito con una valigia piena di soldi e non si sa che fine hanno fatto…”.

Con questa gente gli Odorizzi si sono messi a fare affari, cooptandoli tra i grandi imprenditori della valle. Pecunia non olet.

Si credono furbi, sono suicidi

A Battaglia si aggiunge poi, portando dalla Calabria ulteriore capitale, Mario Giuseppe Nania. Meno raffinato, meno diplomatico, decisamente più incline alla violenza, comunque subordinato a Battaglia, che rimane la mente del gruppo. È molto esplicito, Nania nel narrare a tal Delana Angela la sua salita in terra trentina: “E io a 16 anni quando sono arrivato qua che ho fatto l’investimento di 7 milioni di euro... Delana: “… e ma perché dietro tutta la struttura che vi sostiene...” Nania “...eh la struttura... chi è che ci sostiene!!...” dove con “struttura” scrive il magistrato “si sottintende – data l’entità della somma - verosimilmente la ‘ndrangheta”.

Incomincia a costituirsi una vera e propria rete di società facenti capo a Giuseppe Battaglia, con amministratori i fratelli Giuseppe e Pietro, la moglie Giovanna Casagranda, Mario Nania, e “altri vari soggetti provenienti da Cardeto”, cui si aggiunge poi Mustafà Arafat ed altri ancora. Nel servizio L’affare Marmirolo: gli ‘ndranghetisti e il Trentino del maggio di quest’anno avevamo elencato le varie società. Riportiamo le conclusioni del giudice La Ganga “Dunque, alcuni esponenti dell’associazione sono riusciti a creare un cartello monopolistico nel campo del porfido”.

Come hanno fatto? “Non vi è prova, peraltro difficilmente ottenibile, che le relative costosissime acquisizioni di imprese siano avvenute con il riciclaggio di denaro della ‘ndrangheta, anche se ciò, date le elevatissime somme investite, appare probabile.” Costosissime acquisizioni, elevatissime somme investite, scrive il giudice, confermando l’anomalia da noi rilevata; per Battaglia & C, l’entità dei soldi da mettere in gioco non è un problema.

Bene, può dire qualcuno, sono comunque soldi investiti sul nostro territorio. Di sicuro qualcuno lo ha detto. Ed altri lo dicono ancora. E questo può spiegare come mai questo ragionamento, che si vorrebbe furbo, è invece solo molto stupido. Porta al harakiri di una comunità. Se fai entrare un’organizzazione criminale, ti suicidi.

L’ordinanza di La Ganga, così prudente sul reato di riciclaggio (“probabile”), lo è molto meno su altri reati: “maggiore evidenza indiziaria risulta invece in ordine al modo in cui le imprese hanno prosperato, ovvero con ripetuti illeciti di ordine fiscale e con la messa alla fame dei dipendenti”.

E questo, già gravissimo (anche se delle condizioni miserande dei lavoratori per lo più immigrati, forse a qualcuno non importa) e che segna l’imbarbarimento di un tessuto produttivo, è solo l’inizio.

Ci sono poi le truffe, le intimidazioni agli altri operatori, i fallimenti programmati. Seguiamo infatti il destino di alcune di queste aziende.

Le aziende sfruttate, spolpate, fatte fallire

Vediamo la Anesi srl, di cui Nania è amministratore unico, quote di maggioranza in mano ai figli di Giuseppe Battaglia, che ne è anche, dice il giudice, “amministratore di fatto”. Abbiamo visto nel numero scorso la linea “sindacale” di Battaglia-Nania: quando occorre, pagare i lavoratori quel tanto che basta perchè sopravvivano (“Gli dò i duecento euro per mangiare ed è finito li il discorso”) e comunque tenersi sempre molto sotto i 700 euro mensili (quando Giovanna Casagranda dice a Nania che ha pagato gli operai 700 euro, questi trasecola (“Minchia mi ammazzano porco giuda...”). Su questo fronte la giustizia un po’ si è già mossa: di fronte alle lamentele degli operai per i continui mancati pagamenti, il Comune di Lona Lases, nell’agosto del 2014, aveva diffidato Nania, intimandogli di pagare gli operai, pena “la sospensione e/o revoca della concessione”. La replica di Nania erano state le minacce con cui costringeva cinque dipendenti “a firmare una dichiarazione con la quale attestavano sotto la loro responsabilità di aver ricevuto tutti gli stipendi loro dovuti fino al mese di giugno 2014”. Denunciato dal Comitato Lavoratori Porfido, è stato rinviato a giudizio e recentemente (aprile 2019) condannato a sei anni di reclusione. Viene anche sospesa all’Anesi srl la concessione estrattiva della cava, cosa su cui pende un ricorso in Cassazione.

Ma questo viene vissuto solo come un incidente di percorso, la linea industriale programmata da Battaglia è “condurre intenzionalmente la società al fallimento, sfruttandola il più possibile, evadendo volutamente l’iva e il pagamento di tutte le tasse”. Così un colloquio tra i due sodali: “In un anno non pagherà né tasse né Iva né altro... Mario (Nania, ndr) insiste con Giuseppe (Battaglia, ndr) che devono fare così, di fregarsene, che loro adesso sono attivi, un anno devono lavorare, partiranno a febbraio a lavorare e che potranno fare un anno o due, stimando questo tempo che gli rimane da lavorare. Mario afferma che se non gli daranno la cava, devono fare una botta (cioè se la Cassazione non ridarà la concessione, faranno un attentato, ndr) tutta la responsabilità se la prenderà lui e dice a Giuseppe di non pagare nulla, neanche una tassa, zero. Mario prosegue che tanto se non avranno i soldi, anche se lo arrestano per una settimana, cosa gli faranno…”.

A parte le minacce alla Cassazione, o meglio, a chi ad essa si è rivolto, il resto del programma viene rigorosamente attuato: evasione totale delle tasse, spogliazione della ditta. Nania intercettato assicura che “lo sa fare, senza che se ne accorgano... che ha intenzione di far fallire la ditta per non pagare i debiti e cercare di distrarre 2/3 milioni di euro ma che deve aspettare la sentenza di Roma”. Illuminante un colloquio in macchina tra lui e dei potenziali acquirenti dei beni dell’Anesi fallita, e che quindi non dovrebbero essere nella sua disponibilità. “Nania Mario Giuseppe sale in macchina assieme a dei soggetti e parla di un macchinario che è nuovo ed invita uno dei passeggeri a portarselo via,… uno dei passeggeri chiede a Mario se quel furgone è a posto o se ha qualche fermo, Mario dice che è a posto... Mario parla poi di un camion Volvo che ha con 30 anni di vita, il passeggero chiede se glielo fa vedere, Mario acconsente... Mario poi mostra ai passeggeri la cava e racconta agli stessi che gliel’hanno sequestrata perché ha fatto un buco di 2.000.000 di euro; uno dei passeggeri chiede dove hanno fatto questi buchi visto che il porfido si vendeva come oro, Mario dice che lui non ha pagato il Comune e l’ha truffato, il passeggero dice che ha fatto bene, indica al passeggero fino a dove arrivava la cava, asserisce che se l’è mangiata tutta e che quando se ne sono accorti l’hanno rovinato, il passeggero chiede a Mario se adesso è sequestrata la cava e Mario conferma, il passeggero chiede se c’è il cancello chiuso, Mario dice che c’è il lucchetto e che lo aprono, il passeggero chiede se è tutto del Comune adesso e Mario conferma dicendo che non importa, in quanto ormai il loro lo hanno fatto. Mario ferma la macchina presso la cava della ditta Anesi e scende dalla stessa assieme ai passeggeri e mentre scende dice al passeggero che “gli vende anche quella pala”. In seguito si sente aprire un cancello…”.

Dopo aver sfruttato, truffato, imboscato due milioni, della ditta defunta si spolpano i pochi resti.

Caso analogo la Cava Porfido srl di Bruno Saltori. Scrive l’ordinanza: “Già nel 2015 il sodalizio criminale aveva acquisito la gestione della Cava Porfido srl che per quanto di formale proprietà di Saltori Bruno veniva gestita da Battaglia Giuseppe, dalla moglie Casagranda Giovanna, dal fratello Casagranda Pietro e da Nania Mario Giuseppe”. Saltori da titolare passa in cava a ruolo del tutto subalterno, ridotto a interfaccia con i lavoratori mal o mai pagati (ed è quindi indagato per riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù, art. 600 codice penale), si presta a giochetti vari con “camion di grezzo in nero” allo scopo di “trasgredire la normativa per l’estrazione del porfido”. Più in generale si rende conto di come Battaglia con la moglie “anche nel caso della Cava Saltori, come per l’Anesi Srl prima, l’ha svuotata della sua ricchezza, per poi abbandonarla a se stessa. Saltori si dice dispiaciuto perché ha lavorato una vita per creare quello che ha adesso ed in un attimo Giovanna (Casagranda) gliel’ha ‘mangiato fuori’.

“A casa tua c’è il fuoco! E te lo garantisco...”

Inquietante per quanto minore, il caso di Angelo Lorenzi, titolare con i fratelli e i cugini di una storica ditta di Fornace con concessione di lotto estrattivo comunale, la Lorenzi Vito di Lorenzi & C. s.n.c.

Mustafà Arafat, uomo di mano del gruppo, già tra gli autori del pestaggio di Hu Xu Pai, “in concorso con Cocco Oscar, approfittando del rapporto di preventiva conoscenza e fiducia della persona offesa con il Cocco, inducevano Lorenzi Angelo… ad effettuare due forniture di porfido del costo complessivo pari ad euro 24.086,22 apparentemente destinate a Cocco Oscar, di fatto ritirate da Mustafa’ Arafat… in tal modo procurandosi un ingiusto profitto, con danno per la società Lorenzi”. A questo punto Lorenzi presentava querela per truffa, peraltro ben sapendo di non trovarsi di fronte a semplici imbroglioni, davanti alla polizia giudiziaria definiva (5 maggio 2015) “Mustafà persona poco affidabile e da cui era meglio stare alla larga”. Infatti, quando pochi giorno dopo (26 maggio) incontrava Mustafà, per precauzione registrava il colloquio, che comprova, afferma il giudice, “la capacità intimidatoria e di sopraffazione dell’organizzazione”.

Ecco come Mustafà si rivolgeva a Lorenzi: “Ascoltami… tu non sai neanche… tu stai stuzzicando i muli e non sai neanche di che razza sono… tu non sei venuto… uno! Sono di fronte al Macheda… al calabrese… lo sai… Angelo!... Ti sei messo in un guaio talmente grosso che non ne esci fuori… te lo dico io Angelo! Puoi chiedere chi siamo noi… puoi chiedere in giro che abbiamo noi… non son qui per vantarmi… Nella mia casa tu scoppia la guerra… a casa tua c’è il fuoco! E te lo garantisco”.

Il giudice qualifica questi “atti idonei e diretti in modo univoco a costringere quest’ultimo (il Lorenzi, ndr) a rimettere la querela”. Risultato? “Il 15.02.2018 il G.U.P. di Trento dichiarava di non doversi procedere nei confronti di MUSTAFA’ Arafat“ Perché? “per intervenuta remissione di querela”.

Questo il punto, il suicidio di cui scrivevamo: quella che il giudice chiama “l’organizzazione criminale” di cui si è favorita la penetrazione prima, e tollerata poi la crescita a lo sviluppo, rischia di strangolare l’economia e devastare la convivenza.

La rete di appoggi

Una delle caratteristiche tipiche della criminalità organizzata è il tentativo, spesso riuscito, di cercare agganci e protezioni a livello istituzionale. L’organizzazione mafiosa ha denari a non finire, e una rete di appoggi già operante a livello nazionale: sfruttando questi mezzi cerca di sviluppare ulteriori appoggi, che la favoriscano e la proteggano.

Nell’avvicinarsi a questo argomento, il lettore tenga presente la nota che pubblichiamo nella pagina a lato: serve a introdurre il tema e definire la personalità di Giulio Carini, “vero e proprio faccendiere in grado, anche per livello professionale e culturale, di attrarre nella sua ragnatela personaggi di spicco, che possono tornare utili ai bisogni dell’associazione”. Nella nota poi definiamo le ragioni, gli ambiti, le modalità che ci guidano in questa delicata esposizione, non a caso l’unica apparsa sui media.

Dunque, qui scriviamo dei rapporti tra l’organizzazione e gli uomini delle istituzioni. Nel prossimo numero parleremo dei politici.

Il discorso parte da Giulio Carini: “partecipe dell’associazione, imprenditore calabrese affermato in Trentino si interfaccia alla pari con Macheda Innocenzio, esercita un ruolo di raccordo e collegamento con la Calabria e con le istituzioni politiche, economiche, amministrative nonché con la magistratura, mantenendo quotidianamente rapporti interpersonali al fine di raggiungere gli scopi associativi e personali”.

Carini è l’insospettabile, delegato ai rapporti con i colletti bianchi. Rapporti tenuti soprattutto attraverso convivi di diverse persone fino a trenta-cinquanta, in cui il piatto forte, da tutti decantato, è la capra calabrese. Un’autentica specialità evidentemente, perché svariate sono le personalità che si affollano, o addirittura sgomitano, per partecipare agli incontri conviviali. Siccome non si tratta di morti di fame, deduciamo che il motivo vero di tanto successo non sia la pur straordinaria capra, bensì il ritrovo tra vip: esserci vuol dire contare, tessere relazioni. Peccato che l’officiante sia ora indagato per associazione di tipo mafioso; e che alcuni degli argomenti di cui si parlava non fossero proprio innocenti. E ad avere rapporti altolocati non è solo l’incensurato Carini dal volto pulito, è anche Domenico Morello, pregiudicato e che più volte nelle intercettazioni appare aduso alla violenza più spiccia.

Il generale

Il Generale Dario Buffa, a capo del Comando Militare Esercito “Trentino-Alto Adige”

Tralasciamo le cariche minori, che comunque elenchiamo nella nota. La prima personalità di spicco coinvolta nelle cene e altro, è il generale Dario Buffa, nativo di Borgo, militare di alto grado, a capo del Comando Militare Esercito “Trentino-Alto Adige” (e insignito da Ugo Rossi dell’Aquila di San Venceslao). È partecipe non solo delle cene di Carini, frequenta anche Morello.

A questi procura, nonostante precedenti condanne, un porto d’armi (molto importante, come dimostrano numerose intercettazioni, per i nostri, che possono così girare armati e anche trasferire armi dalla Calabria). “Morello racconta che il generale gli aveva riferito che “sulle spalle” Morello aveva il reato di associazione (mafiosa, ndr) e lo ha scoperto in questo modo. Il generale è andato con Morello in Questura, poi si è recato dal questore ed è riuscito a fargli dare il porto d’armi. Morello racconta che si è salvato grazie all’intercessione del generale”. Cerca di aiutarlo anche sul piano finanziario intercedendo presso il presidente della Cassa Rurale di Trento Giorgio Fracalossi (in altra intercettazione definito come “socio e amico”). ”Buffa dice di aver fatto un giro di telefonate e per quanto riguarda Fracalossi è da lasciar stare perchè è impegnato con l’accentramento delle casse rurali sotto la cassa centrale”.

Soprattutto a Buffa, che gli indagati chiamano “Il Generale famoso nostro” Morello “si rivolge per chiedere verifiche su eventuali attività investigative nei suoi confronti”. Poi magari le verifiche del Generale non sono molto precise: a più riprese Morello viene intercettato mentre assicura, immaginiamo tra le risate dei trascrittori, “Io non sono sotto controllo, perché il Generale mi ha detto di no”.

Gli episodi forse più significativi avvengono all’indomani della notifica di proroga delle indagini (12 dicembre 2019), per errore inviata agli stessi indagati, che entrano subito in grande fermento. Morello si rivolge a Buffa, dicendogli che deve parlargli di cose “che non può dirgli per telefono”. “Buffa Dario si mette a disposizione e si accordano di vedersi la mattina del 19 dicembre 2019. Morello esprime chiaramente che avranno bisogno del giudice Avolio Guglielmo del Tribunale di Trento Morello dice che sicuramente avranno bisogno di quello che beve tanta birra. Buffa Dario, che mostra di comprendere perfettamente a chi Morello si stia riferendo, manifesta ulteriormente la sua disponibilità, affermando di essere sempre in contatto… Buffa capisce e dice “Va bene ok... sono in contatto … mi manda ogni giorno le sue cazzate Willy Guglielmo”Buffa chiede se ci vuole parlare“.

Guglielmo Avolio, Presidente del Tribunale di Trento.

Poi però Buffa si rivolge a un’altra fonte, e anche questa volta arriva alla risposta sbagliata: “Buffa Dario afferma di aver verificato, tramite conoscenze nella Procura della Repubblica di Trento, un’eventuale iscrizione di Morello nel registro degli indagati e di essere stato attento a non parlargliene per telefono… di non essersi rivolto direttamente al giudice Avolio, ma di aver chiesto ad altra fonte, apprendendo che Morello non è iscritto in nessun procedimento penale. Buffa Dario:indagato non risulti da nessuna parte... almeno cioè... non è che questo è affidabilissimo... perché io... non volevo andare da Guglielmo Avolio così perché poi diventa….

“Facciamo finta che c’è una rissa e lo ammazzano di botte”

Giulio Carini, imprenditore e Cavaliere della Repubblica

Già dai passi sovrastanti si vede come spesso sia riportato il nome del Presidente del Tribunale, Guglielmo Avolio, assiduo frequentatore delle cene di capra, per organizzare le quali spesso interloquisce con Giulio Carini.

Anche Domenico Morello confida in una - vera o presunta - vicinanza con il Presidente.

Il 13 agosto 2018 i coniugi (Morello e la moglie Alessia Nalin) “parlano del blocco dei loro conti correnti a causa del pignoramento avanzato da un creditore. Morello avanza l’intenzione di scrivere ad Avolio con una relazione precisa di quanto accaduto. Morello aggiunge che andrà a pranzo insieme ad Avolio appena tornerà perchè quello che gli sta dando il lavoro da 30 persone è buon amico con Avolio e quindi pranzeranno insieme. Gli sottoporrà quindi l’andazzo”.

Se non riuscirà l’aggancio con Avolio, Morello e Nalin progettano le maniere forti “nei confronti della controparte che ha avviato il procedimento giudiziario".

Morello: “Basta che hai un po’ di diavolina...appresso e la macchina piglia fuoco, piglia la prima, piglia la seconda, piglia la terza...

N: risata “E c’è gente che fa questi lavori?”

M: ”Qualcuno c’è! Ah, se vuoi fanno finta pure che c’è una rissa e lo ammazzano di botte! Ma la verità

N: Eh

M. “Che non vorrei menare prima lui; vorrei menare suo socio”

N: “Suo socio?”

M: “Perchè a suo socio a me come mi collegano? Io non l’ho manco visto mai! Quello è il bello! Che si facciano tremila domande! “mM a me perche? Io che cazzo c’entro?”

N: “Umh interessante!”

Altro episodio: “Il 6 settembre 2018 Morello Domenico avverte l’amico Costantino Demetrio che sarà a cena con il Presidente del Tribunale e diversi amici e che nella circostanza, chiamerà da parte il dottor Avolio Guglielmo e gli intimerà di far finire la sua vicenda giudiziaria (quale di preciso non si capisce, ndr) Morello espone che verso il 20 sarà a cena col presidente del Tribunale, con il quale converrà a cena con diversi amici; lo porterà da parte, e intimandogli di porre fine a questa vicenda, in quanto si è rotto i coglioni, altrimenti loro finiranno parlare di altro. Morello afferma che esporrà ciò proprio ad Avolio e che ne parlerà dopo che avranno bevuto molta birra.”.

Il grande amico del Presidente

Nell’ordinanza di 275 pagine come pure nell’informativa di oltre mille da cui essa è tratta, non appaiono conferme di questi desiderati contatti di Morello con il Presidente del Tribunale. Chi invece di sicuro contatti ne ha, e molto costanti, si direbbe amicali, è appunto Giulio Carini.

Gli investigatori ci tengono a mettere in chiaro: Carini è un ‘ndranghetista a tutto tondo. Sia per i continui viaggi ad omaggiare la ‘ndrangheta calabra, sia per comportamenti in loco. “L’evidenza che Carini, pur dicendosene formalmente estraneo, è permeato di condotte ‘ndranghetiste si ha anche dalla conversazione intercettata il 16 novembre 2019, nel corso della quale egli parla con il corregionale Dascola Lorenzo al quale esprime le problematiche che ha nel cantiere di un supermercato a causa del comportamento di un soggetto veronese, che sta ritardando l’esecuzione dei lavori, Carini quindi dice a Dascola che deve dire al Veronese che non lo caghi altrimenti gli tagliano le gambe. Dascola dice a Carini che in quel cantiere lavorano quattro dei suoi uomini che sono fidatissimi compreso uno che è di Trani il quale “ha le palle di sotto”, e dice nuovamente a Giulio di stare tranquillo”.

E ancora il GIP sull’“atteggiamento mafioso di Carini che, qualora debba risolvere questioni d’interesse, oltre alla metodica corruttela delle cene offerte, non esita a ricorrere alle minacce in perfetto stile ‘ndranghetista ‘Io ho minacciato il Russo, il Maresciallo Russo e questo che ti dicevo io no, il Sala, quello lì, quello lì che gli ha fatto il culo agli Azzolini. Gli ho detto, siccome sono amici miei, gli ho detto “Vi sparo alle gambe”.

Con il Presidente del Tribunale invece, Giulio Carini fa l’amicone e Avolio contraccambia. Basti riportare questo duetto, da una telefonata di Avolio a Carini: “Guglielmo si scusa con Giulio dicendogli che non lo disturberà più, Giulio quindi dice a Guglielmo che se fa così inizia a dargli del lei ed a chiamarlo eccellenza, Guglielmo ridendo dice a Giulio che eccellenza sarà lei, poi lo saluta appellandolo compare e Giulio ricambia”.

Numerosi sono questi scambi di amorosi sensi, fra i due c’è simpatia, forse sincera. Almeno da parte di Avolio. Gli altri indagati commentano cinicamente: “Avolio può essere sempre comodo”. Carini a tratti dà giudizi positivi del presidente, anche se si esprime, dice il Gip, “in commenti sprezzanti verso i magistrati di Trento, puntualmente invitati alle cene che organizza, evidenziando quanto sia strumentale ai suoi interessi la frequentazione degli stessi e come però gli sia stata prospettata la possibilità di riceverne aiuto “se gli succede qualcosa, se avrà guai con la giustizia”. Questo disprezzo non risparmia l’”amico” Guglielmo, di cui vengono messe in piazza umane debolezze.

Questo avviene dietro le spalle. Formalmente invece c’è il comune, largo entusiasmo per i conviti a base di capra.

Giuseppe Serao, Presidente sezione penale del Tribunale di Trento

Eppure avviene un episodio a guastare l’ambiente: uno screzio tra Carini e la moglie del giudice Giuseppe Serao presidente della sezione penale del Tribunale, risentitasi per non essere stata invitata con il marito a una delle fantastiche cene di capra. “Quella (insulto) di sua moglie mi ha detto “Perché sarebbe l’unico che ti aiuta se hai bisogno”. La frase è riportata da Carini ma, inviata per sms, dovrebbe essere nella disponibilità degli investigatori che ne hanno sequestrato il cellulare e che quindi ne possono ora valutare il reale significato e il contesto. Di sicuro Carini la prende come una minaccia del giudice stesso (“se Serao avesse avuto un attimo di dignità non doveva fargli mandare i messaggi dalla moglie”) minaccia particolarmente grave perché incrina l’aura di rispettabilità di cui si ammanta “Ma la cosa che mi ha offeso e che io gli ho detto “Ma vedi che io non ho nessuna pendenza e non temo di averne”. Cerca di coinvolgere il presidente Avolio: così dice il 10 dicembre 2018: “L’unico, l’unico che ha capito il discorso è Avolio che mi ha detto che è un testa di c...”.

18 dicembre 2018: “Carini dice che deve parlare con Avolio perché la (insulto) della moglie di Serao gli ha scritto che suo marito è l’unico che lo può aiutare se gli succede qualcosa”.

31 dicembre: “La cosa che mi ha deluso, ma molto deluso e umiliato è che io la sera dopo ho ricevuto una fila di messaggi da una persona che era arrabbiatissima perché non li ho invitati lei e suo marito”.

23 gennaio 2019: “Niente Giudici così vaffanculo pure Avolio perché è da li che è nato il casino con quella (insulto) che mi ha inondato di messaggi, ai quali ho risposto pedissequamente, e alla fine mi ha chiesto scusa. Come si permette di dire che suo marito è l’unico che mi può aiutare se ho bisogno. C’ho bisogno di che, di un Giudice io? Quando mai!!...” e seguono insulti a Serao e alla moglie.

13 dicembre 2019, con il Prefetto Pasquale Gioffrè: “Sapete che mi disse.. e questo mi ha fatto girare le scatole.. “Guarda che l’unico che se hai problemi con la giustizia è l’unico che ti può aiutare... Io non ho pendenze, che sappia io”; seguono altri insulti.

Carini però si sbaglia. Ironia della sorte, il giorno prima, 12 dicembre, c’era stata l’improvvida notifica delle indagini in corso. E allora telefona ad Avolio, telefona al PM Giuseppe De Benedetto, premurandosi che venga invitato anche Serao, promosso a “caro amico”. Gli investigatori commentano: “L’insistenza con la quale Giulio Carini vuole assicurarsi la presenza di ulteriori magistrati del Tribunale di Trento è evidenza... che possa aver in animo di verificare, attraverso canali non rituali, lo stato dell’indagine della Procura di Trento”.

La cena si svolge la sera dell’11 febbraio 2020 a Lagolo. Partecipano tra gli altri Avolio e De Benedetto, non Serao. Gli inquirenti ritengono significative “alcune battute scherzose intercorse tra i commensali: Carini spiega che ha detto a De Benedetto che “non voglio niente; l’unica cosa è che se per caso, dovessi finire dentro, voglio essere condannato, reclusione notturna e diurna di isolamento; e la possibilità di poter...”. Carini spiega che De Benedetto gli ha chiesto come mai non voglia stare in compagnia e Carini risponde che lui in carcere non vuole fare la femminiella, ma il maschietto. Urcioli (ufficiale giudiziario in pensione, ndr) risponde che in carcere gli fanno “il servizio”.

Da quanto appare dalle intercettazioni, i commensali non sembrano per niente sorpresi del fatto che il loro anfitrione si ritenga con un piede in galera.

Tutti quanti a mangiare la capra!

Un altro commensale e stretto amico di Carini è l’ex Prefetto Pasquale Gioffrè. Queste le parole che Carini riporta, e di cui il Gip dice che “se veramente pronunciate, non farebbero certo onore ad uno dei rappresentanti più autorevoli dello Stato: ‘Te l’ho detto cosa mi ha detto il Prefetto... il Prefetto mi ha detto di non fidarmi dei vari Colonnelli, Questori e cose, perché ha detto sono sbirri mi ha detto di stare attento... e se mi ha detto così lui vuol dire che devo stare attento”.

È Gioffrè il protagonista di un episodio significativo. Si tratta di una cena all’associazione “Magna Grecia” (presidente Giuseppe Paviglianiti) istituita, scrive il Gip, allo scopo di dare alla compagine ‘ndranghetista “una veste di autorevolezza e rispettabilità nel tessuto sociale”. Nell’aprile del 2018 l’associazione è chiamata a “fornire ‘un segno di rispetto’ e di assistenza (raccolta di denaro, ndr) a Paviglianiti Antonino detto Nino (cugino di Giuseppe, ndr) prima che si consegni in carcere per l’espiazione pena... decretata con sentenza di condanna definitiva”.

“Dalla conversazione in cui Paviglianiti Giuseppe partecipa l’invito alla cena a Carini Giulio emerge che a questo qualificato convivio era stato invitato anche il Prefetto (ndr Commissario del Governo Pasquale Gioffrè) il quale aveva declinato l’invito in quanto messo in guardia da tale “Mangusta” (Musolino Fernando funzionario dell’Agenzia delle Entrate di Trento)… ha chiesto se andava pure il Prefetto, e racconta che Mangusta gli ha detto al Prefetto di stare attento che c’è la ‘ndrangheta”.

Fernando Musolino aveva già fatto saltare un progetto di Carini di sfruttamento dell’eolico allertando la Guardia di Finanza, come pure l’inserimento di un ‘ndranghetista (poi finito in carcere) in un progetto commerciale assieme all’Hotel Centrale di Riva del Garda, allertandone il titolare. Per questi avvisi viene definito dai nostri come “l’infame” e molto peggio. Carini è furibondo, perché la commistione tra i due livelli – i pregiudicati e i rappresentanti istituzionali – rischia di far saltare il suo ruolo di cerniera. Ma il punto è la reazione del Prefetto. Saputa la cosa, aveva approfondito? Si era informato meglio? Aveva avvisato le altre autorità, a partire dai magistrati del Tribunale?

Qui francamente trasecoliamo. Ma come? L’allerta sulla penetrazione mafiosa arriva al cuore dello Stato, e non succede niente? Si va tutti gioiosi a mangiare la capra?

Nota a margine

Alcune persone si sono lamentate con QT, perché sono state nominate sull’ultimo numero nell’articolo “Cava nostra”. Sono dovute a loro e a tutti i lettori alcune informazioni. L’unica fonte delle notizie che QT sta pubblicando sul processo trentino alla ‘ndrangheta, è l’ordinanza cautelare custodiale con cui, il 29 luglio 2020, il Tribunale di Trento in funzione di Giudice per le Indagini Preliminari ha applicato il carcere a 13 indagati e gli arresti domiciliari ad altri 5. Gli indagati nel processo sono molti di più e non si sa chi sono, tranne alcuni; quelli privati della libertà sono giudicati pericolosi già a ragione del reato di associazione a delinquere di tipo mafioso, loro attribuito.

L’ordinanza di carcerazione non è un atto dell’accusa, del Pubblico Ministero: è già un provvedimento della Magistratura quale organo della giurisdizione, che provvede nel corso delle indagini sulle richieste dell’accusa, della difesa e delle parti private, al fine di garantire diritti fondamentali delle persone prima che inizi il processo vero e proprio.

In questo caso il GIP ha accolto la richiesta di quattro magistrati della Procura della Repubblica di Trento. Le indagini, condotte dalla Direzione antimafia di Trento attraverso il Raggruppamento Operativo Speciale – ROS – dei Carabinieri, sono iniziate nel 2016.Con pazienza e capacità straordinarie, i Carabinieri hanno tra l’altro registrato un’impressionante mole di intercettazioni, alle quali il GIP di Trento ha attinto per giustificare le carcerazioni cautelari.

Nei confronti degli indagati e di ogni indiziato vale, sia ben chiaro, il principio costituzionale di non colpevolezza sino alla condanna definitiva, di cui all’art. 27 della Costituzione, confermato come principio di innocenza nei trattati internazionali. Nei confronti di tutti, cittadini e opinione pubblica, valgono, sia altrettanto chiaro, il diritto di manifestazione del pensiero e la libertà di stampa, che la medesima Costituzione proclama nell’art. 21. L’ordinanza cautelare custodiale del GIP di Trento copre 275 pagine. Impossibile riprodurla su un periodico. Gli arresti sono stati eseguiti il 15 ottobre e l’ordinanza è stata consegnata in copia agli organi d’informazione lo stesso giorno.

Da allora ciò che v’è scritto è pubblico, non risulta che il Tribunale del riesame abbia accolto richieste di scarcerazione, QT non fa altro che riproporre ai suoi lettori, con ordine, degli stralci testuali. Nell’ordinanza il GIP esamina vari aspetti dell’organizzazione mafiosa e delle sue attività, attraverso la riproduzione di conversazioni tra indagati affiliati, tra indagati affiliati e indagati collusi, tra indagati affiliati o collusi e altre persone non indagate. Non è detto che quello che si racconta nelle conversazioni sia tutto vero, però il Tribunale lo ritiene attendibile al punto da giustificare le carcerazioni cautelari. Ne emergono nomi e circostanze che riguardano altre persone, indagate talune, oppure non indagate e solo coinvolte. Diverse erano insospettabili, alcune lo sono ancora. Gli insospettabili ora indagati come collusi comprendono pure un graduato dei Carabinieri, due sindaci, degli imprenditori, un parlamentare, un generale dell’Esercito italiano. Gli insospettabili coinvolti, non indagati, includono alti esponenti del Potere istituzionale: cariche del Ministero dell’Interno, un militare dell’Arma, magistrati degli Uffici giudiziari trentini. Perché il GIP li nomina? È scritto nell’ordinanza. “Come ogni associazione di stampo mafioso, quella calabro-trentina provvede a darsi anche una facciata di rispettabilità. Allo scopo lavorano non solo l’Associazione Magna Grecia, dall’accattivante nome storico-culturale, ma anche Carini Giulio, vero e proprio faccendiere in grado, anche per livello professionale e culturale, di attrarre nella sua ragnatela personaggi di spicco, che possono tornare utili ai bisogni dell’associazione. L’ascolto delle conversazioni di Carini Giulio documenta gli innumerevoli contatti e la sua particolare frequentazione con soggetti istituzionali, tra cui un ex prefetto di Trento, un Vicequestore di P.S., un Capitano dei Carabinieri, giudici del Tribunale di Trento, personalità della politica, un primario dell’ospedale S. Chiara ed altri. Le intercettazioni nel documentare le frequentazioni con tali soggetti, arricchite da incontri conviviali e riservati, cui partecipavano anche altri odierni indagati, organizzati personalmente da Carini evidenziano come il vero scopo di quest’ultimo fosse quello di asservire l’amicizia dei suoi invitati per raggiungere gli interessi personali, dato questo dimostrato anche dalle frasi di disprezzo verso dette personalità espresse in separata sede. Carini non esita mai ad interpellare le sue conoscenze per risolvere ogni qualsivoglia problema, ma non solo, è evidente che questo tipo di interlocuzione gli permette anche di esercitare un vero e proprio controllo del territorio, venendo in taluni casi a conoscenza anche in tempo reale di molte informazioni, e, a seconda della fonte, anche di notizie riservate. Inutile sottolineare che questi legami possono essere utili anche all’associazione oggetto di indagine nel suo complesso. Le intercettazioni di questo tipo, quali riassunte ed estrapolate dalla P.G. anche nella informativa finale, sono innumerevoli e si possono così raggruppare per soggetti/istituzioni - contattati e/o frequentati” (pag.87 dell’ordinanza).

Più avanti: “Carini Giulio imprenditore nel settore dell’edilizia, amministratore della Carini Edilizia srl, attivo nella zona del Lago di Garda, rappresenta, a livello umano, ma al pari dell’Associazione culturale Magna Grecia, l’ulteriore faccia rispettabile della poliedrica organizzazione criminale calabrese insediatasi in questo territorio, quella che permette contatti con le istituzioni e favori dalle stesse. Nel suo multiforme atteggiarsi, il lato scuro di Carini è quello che lo vede in contatto con il capo Locale Macheda Innocenzio, di cui ha chiaramente rispetto, e con gli altri sodali calabresi presenti in questa provincia nonché con soggetti stanziali in Calabria dalla fedina penale macchiata; il lato pulito di Carini lo colloca – grazie anche alla posizione imprenditoriale - in un ruolo rispettabile, elevato rispetto al resto della compagine criminale, conseguentemente poco propenso a frequentarla. Le intercettazioni dell’utenza di Carini Giulio hanno da subito documentato la sua specifica propensione alle relazioni nell’ambito politico-istituzionale locale (rappresentanti della politica locale, Commissari del Governo, magistrati, funzionari della Polizia di Stato, Carabinieri, e funzionari di Prefettura, ufficiali dell’esercito, Finanzieri, medici e avvocati nei cui confronti è aduso mettersi a disposizione per qualsivoglia esigenza), utili per raggiungere i suoi scopi, costituiti principalmente da interessi economici ma anche, indirettamente, quelli più estesi dei corregionali inseriti nella Locale trentina (pag. 206)…. Come già anticipato in altra parte del provvedimento, innumerevoli risultano contatti e frequentazioni di Carini con soggetti istituzionali, tra cui l’ex prefetto di Trento Gioffrè Pasquale, il Vicequestore di P.S Grasso Giuseppe, il Capitano dei Carabinieri Oxilia Andrea, diversi politici nonché alcuni magistrati del Tribunale di Trento. Le intercettazioni disvelano come tali frequentazioni, spesso ambientate in banchetti organizzati personalmente da Carini, sottintendano il vero scopo di Carini che è quello di strumentalizzare tali frequentazioni per i propri personali interessi. Non a caso, al di fuori di tali contatti personali, Carini si lascia andare ad affermazioni spregevoli nei confronti di tali persone. Possono richiamarsi le conversazioni riportate nella richiesta del PM, ma esse sono talmente numerose da occupare le pagine da 882 a 910 dell’informativa finale del ROS Carabinieri Trento”. (pag.212).

L’ordinanza spiega bene cosa significa essere coinvolti: vuol dire essere stati implicati dall’associazione mafiosa nel suo disegno delittuoso, secondo una strategia tradizionale, tipica della ‘ndrangheta.

Più precisamente, vuol dire essere incappati in quella complessa azione, determinante per il “controllo del territorio”, che si attua attraverso l’accorta tessitura di “legami con la politica e con le istituzioni”.

Questa trama è di solito ordita da membri della consorteria particolarmente versati, faccendieri abili nell’intrecciare relazioni sociali e di potere a vantaggio dell’organizzazione criminale.

Le persone coinvolte, o interessate se si preferisce un termine meno esatto, non sono consapevoli della rete tesa, non sono complici né colluse.

Una cosa, però, deve essere loro rimproverata: la responsabilità di aver accettato, taluni cercato, la convivialità o addirittura la familiarità di un personaggio che ne avrebbe di certo approfittato e per di più, in cambio, avrebbe prima o poi chiesto loro dei favori.

Una parte delle più significative intercettazioni raccolte dagli inquirenti sono riportate, con fedeltà e pazienza, nel precedente numero di QT, in questo e, se occorrerà, in quelli che seguiranno; alcune riguardano questo capitolo delicato e allarmante dell’indagine.

Ingenuità, imprudenza, altro? Si vedrà alla fine del processo, quando tutti gli atti saranno noti, dibattuti e giudicati. Il coinvolgimento è innegabile. Se è preoccupante lo possono valutare i lettori.

Gianfranco de Bertolini