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QT n. 4, aprile 2020 Cover story

Eroici e impreparati

Chi e come ha perso la sfida del contagio: l’Occidente, l’Italia, il Trentino

La testimonianza che segue viene dalla Lombardia. E ci presenta una realtà diversa da quella raccontata nelle conferenze stampa. Una situazione di abbandono, di incertezza, di crescente angoscia in cui il cittadino comune che segue le regole e si fida dell’autorità finisce con il non fare il bene dei propri cari.

7 Marzo (sabato): dopo aver cenato, io e mia moglie usciamo per una brevissima passeggiata. Ritornati a casa, lei dice di non sentirsi molto bene. Le sento la fronte, scotta. Misura la febbre. Sono le 22.00: la temperatura è già a un livello preoccupante, 38,8°. Prima non aveva avuto alcun tipo di sintomo. Dopo un’ora raggiunge 39°. Contemporaneamente trapelano notizie sul possibile varo di un provvedimento governativo che impedirà gli spostamenti se non per motivi specifici. Nella notte molti “scapperanno” dalla Lombardia.

8 Marzo (domenica): durante la giornata la febbre oscilla fra 38,5° e 39,6°. Per abbassarla provo con la Tachipirina: nessun risultato. Cerco di documentarmi su Internet e scopro che quando la febbre è provocata da coronavirus la Tachipirina non funziona. Comincio a preoccuparmi seriamente.

9 Marzo (lunedì): al mattino presto mia moglie va in bagno, sviene. Cadendo picchia il mento sul lavandino e si procura una ferita al mento. La trovo per terra in mezzo ad una chiazza di sangue. Allarmato, comincio il giro delle telefonate, ignorando che nei giorni successivi mi dovrò dedicare a questo per ore e ore. Ligio alle procedure che vengono martellate dalle autorità e dai mezzi di comunicazione, chiamo il nostro medico di base che mi dice semplicemente di continuare con la Tachipirina e di contattare eventualmente il numero verde della Lombardia dedicato al Coronavirus. Telefono al numero verde e mi dicono di non chiamare assolutamente il 112, ma mi suggeriscono di sentire il mio dottore. Chiedo di far fare il tampone a mia moglie e a me, visto il sintomo inequivocabile della febbre alta che perdura da quasi due giorni senza scendere con i medicinali tradizionali per l’influenza. Mi dicono che il tampone non si può fare.

10 Marzo (martedì): tutta la notte e tutto il giorno febbre fra 38,0° e 39,1°. Insisto con la Tachipirina. Visto che la febbre non cala, verso sera provo con Vicks Flue (ibuprofene): nessun risultato.

11 Marzo (mercoledì): Al mattino 38,7°. Ricominciano le telefonate. Dal numero verde mi rimandano al mio dottore. Insisto dicendo che a questo punto porto mia moglie al pronto soccorso. Mi ripetono con tono deciso che è assolutamente proibito andare al pronto soccorso e ribadiscono con forza che devo andare dal medico curante. Vado personalmente dal dottore. Chiedo di nuovo di fare il tampone a mia moglie, mi dice che non è possibile e prescrive due antibiotici e bustine di Broncomnes (un antibroncospastico).

12 Marzo (giovedì): comincio la cura prescrittami. Febbre continua fra 38.0° e 39,5°.

13 Marzo (venerdì): Mia moglie si sveglia con 38,4°. Nel frattempo sta sempre peggio, non mangia e devo sostenerla quando deve andare in bagno. Disperato, torno dal dottore, esprimo tutta la mia preoccupazione per il suo stato. Mi dice di aspettare lunedì (sic!) per vedere se i farmaci fanno effetto.

14 Marzo (sabato): al mattino 39,4°. Penso al peggio, ma poi miracolosamente la febbre verso mezzogiorno si abbassa a 37,5°. Sono quasi felice e mi illudo che non sia Coronavirus. Forse avevano ragione i medici, forse mi sono preoccupato troppo e mia moglie sta guarendo piano piano. La sera la speranza è già svanita.

15 Marzo (domenica): al mattino 39,7° e verso sera 38,8°. Cominciano i primi problemi di respirazione, non so più cosa fare. Stupidamente, da cittadino abituato ad ottemperare alle regole, mi attengo alle istruzioni del numero verde e non porto mia moglie al pronto soccorso.

16 Marzo: all’una di notte 39,7°, al mattino 38,4°. Sono disperato. Al mattino torno dal medico di base e gli spiego che la situazione è estremamente grave. A questo punto si convince che bisogna fare qualche cosa. Telefona lui al numero verde Coronavirus della Lombardia. Dopo un po’ ottiene la linea, spiega il quadro sintomatico di mia moglie e gli dicono di chiamare un altro numero specifico. Il dottore prova un paio di volte, ma la risposta in automatico dice che tutti gli operatori sono impegnati e che bisogna richiamare. La scena diventa surreale: il dottore mi suggerisce di tornare in sala d’aspetto e provare io finché rispondono, mentre lui può continuare le visite. Dopo telefonate continue per più di un’ora riesco a parlare con un operatore: entro nello studio e passo il cellulare al dottore. Spiega di nuovo la situazione e l’operatore risponde che questo è il numero sbagliato, questa è la linea dedicata all’assistenza ai malati di Coronavirus a casa e non riguarda le urgenze, per quelle c’è il numero verde Coronavirus. Di nuovo il giro dell’oca. Tentiamo finalmente di chiamare il 112. Dopo più di un’ora un operatore risponde. Il dottore spiega per l’ennesima volta il caso di mia moglie. L’operatore prende atto e dice che appena possono mi chiameranno. Nel frattempo siamo arrivati alle due del pomeriggio. Torno a casa e cerco di tranquillizzare mia moglie dicendo che fra un po’ dovrebbero chiamarmi e mandare un’ambulanza.

Il tempo passa, sono le sette di sera e lei sta sempre peggio, con gravi difficoltà di respirazione. Nessuna chiamata dall’ambulanza. Contatto mia figlia e le dico che a questo punto carico mamma sulla macchina e la porto al pronto soccorso. Facciamo un ultimo tentativo con un altro numero per le emergenze: rispondono quasi subito e, miracolo, la commutano sul 112. Una voce promette che appena possono mi chiameranno. Alle 11 di sera si fanno sentire, dico che mia moglie ha difficoltà di respiro; si convincono a mandare subito un’ambulanza. Arrivano verso mezzanotte. Le infilano immediatamente nel dito l’ossimetro: misurano la saturazione. Il livello è 56, bassissimo, insostenibile. Infatti il livello dovrebbe oscillare tra 90 e 99. Applicano la maschera con ossigeno e la portano all’ospedale più vicino. Mi dicono che non posso seguirli al pronto soccorso.

17 Marzo (martedì): ore 3 di notte. Telefono al pronto soccorso, mi dicono che risponde bene all’ossigeno e che appena hanno più informazioni mi chiameranno. Passo la notte in bianco. In tarda mattinata mi comunicano che mia moglie è ancora in pronto soccorso e che non ci sono ulteriori novità. Alle tre del pomeriggio suona ancora il telefono, sembrano arrivare buone notizie: fra un’ora sarà trasferita al reparto malattie infettive e mi suggeriscono di chiamare il reparto più tardi. Alle 16 chiamo il reparto malattie infettive: la dottoressa la sta visitando, potrò richiamare fra un paio d’ore per avere informazioni più dettagliate. Attendo con grande ansia il passare del tempo. Ma prima che telefoni io, alle 18 mi chiama la dottoressa del reparto rianimazione, dicendomi che la situazione è peggiorata e che hanno dovuta intubarla.

Da quel giorno l’ospedale mi chiama regolarmente ogni pomeriggio per aggiornarmi sullo stato di mia moglie. Dopo una settimana è ancora lì, stazionaria.

18 marzo (mercoledì): mi chiamano i vigili e mi comunicano che sono in quarantena fino al 31 marzo.

A questo punto mi chiedo: perché non è stato fatto il tampone a mia moglie ancora all’inizio, quando i sintomi erano inequivocabili? Perché non è stata subito considerata come affetta da Covid-19?

Perché io non sono stato considerato come possibile positivo al virus oppure come potenziale portatore sano? Perché nei giorni in cui mia moglie stava sempre peggio, nessuno ha pensato che dovessi stare in quarantena? E invece liberamente sono potuto andare in farmacia, più volte dal medico di base (e anche nella sua sala d’aspetto), al supermercato… Siamo stati completamente abbandonati, non abbiamo avuto alcun supporto. Perché il tampone è stato fatto a tutti i calciatori anche se non sintomatici?

Il Trentino è in una situazione un po’ meno drammatica della Lombardia. Mentre scriviamo, i dati (su cui come vedremo c’è peraltro molto da discutere) parlano di 129 morti trentini contro oltre 6.000 lombardi, cioè 2,2 ogni 10.000 abitanti, contro 6. Eppure la situazione di smarrito abbandono in cui si trova il cittadino, e di incapacità e disorganizzazione con cui le autorità preposte affrontano l’emergenza, è del tutto analoga, come testimonia la lettera da Massimeno che pubblichiamo nel box a p. 12.

Gli errori

Intendiamoci. L’Italia, il governo Conte, le varie autorità regionali, tutti noi, non siamo stati più inefficienti degli altri paesi occidentali. Anzi. Gli altri, a iniziare da Francia e Spagna, per non parlare della Gran Bretagna di Johnson o dell’America di Trump hanno fatto tutti i nostri errori ed altri ancora, pur avendo davanti proprio il nostro caso che era anticipatore, e i nostri provvedimenti, pur confusi, sono risultati coraggiosi e perfino esemplari. Ed è grazie ad essi se, in questi ultimi giorni, i dati sono meno sconfortanti e si può iniziare a pensare a passi successivi.

Detto tutto questo, bisogna affermarlo con chiarezza: abbiamo sbagliato. Tutti. E nel profondo. L’Occidente ha mostrato arretratezza e inadeguatezza allarmanti. Nel senso letterale: è suonato l’allarme sulle nostre capacità di assicurare la sopravvivenza a centinaia di migliaia di noi. Questo ci dicono le testimonianze, da Milano come dalla Rendena e da Canazei (vedi l’articolo a pag 15).

Entriamo nello specifico. Di cosa NON abbiamo imparato dall’Oriente parliamo in una scheda a p. 13.

Qui vediamo invece gli errori di politica sanitaria che sono a monte di questa tragedia. Perché individuarli è giusto e bisognerà porvi rimedio; ma è soprattutto utile anche nell’immediato, per correggere da subito le macroscopiche attuali storture. Che sono il risultato di anni di politiche sanitarie oggi a tutti rivelatesi nella loro essenza: politiche suicide.

Il primo errore non è nemmeno di politica sanitaria, ma di politica tout court, quale idea della società, quale allocazione delle risorse. Parliamo di venti anni almeno di costante riduzione del welfare praticamente in tutto l’Occidente, pur in presenza di una grande crescita economica. È stata una precisa scelta strategica: risorse dai poveri ai ricchi, dalla collettività all’individuo.

E così in Italia”nel decennio 2010-2019 tra tagli e definanziamenti, al Servizio Sanitario Nazionale sono stati sottratti circa 37 miliardi” sostiene l’ultimo report dell’Osservatorio Gimbe. Di anno in anno il finanziamento della spesa sanitaria italiana ha rappresentato una quota sempre minore del bilancio statale, in controtendenza rispetto agli altri paesi Ocse.

Si è messa in moto una curiosa dinamica. “Sono aumentati i costi di diagnosi e cura, attraverso metodi e strumenti più raffinati ma più cari, per esempio dai raggi alla Tac, alla risonanza - ci dice Marco Ioppi, Presidente dell’ ordine dei medici - e così sono aumentate le guarigioni, la durata della vita, il che ha provocato un ulteriore aumento della spesa”.

A questo punto si poteva tornare alla Rupe Tarpea, cioè alla morte per i deboli, come peraltro qualcuno ha proposto nel caso del Coronavirus. Oppure si poteva scegliere la via americana, lasciando i poveri al loro destino. O quella della maggioranza degli stati europei, aumentando la spesa. “Noi invece abbiamo improvvidamente seguito un modello Italia - prosegue Ioppi - con tagli di decine di posti letto, abolizione del turn over in corsia, mancate sostituzioni dei medici andati in pensione, mancanza di previsione nella formazione di nuovi medici”. Il risultato è stato un sistema tirato al massimo, un motore sempre al limite del fuori giri. Che alla prima, grande emergenza non poteva non andare in tilt.

A questo si sono aggiunte due ulteriori scelte politiche. La prima, scrive il Rapporto Sanita? 2018 di Nebo Ricerche PA, è consistita nel “virare dei servizi sanitari sempre piu? verso l’ambito privato”. I posti letto nelle cliniche private erano meno del 15% nel 1985, vent’anni dopo sono oltre il 20%. È stato il “modello Formigoni”, che ha spopolato in tutta Italia: in particolare in Campania in Calabria e… in Trentino, dove la quota privata è arrivata al 25% (vedi il grafico).

L’andamento dei posti letto per 10.000 abitanti nelle strutture sanitarie italiane. Si vede la progressiva, netta discesa dei posti letto pubblici, giustificata con la ricerca dell’accorciamento delle degenze. Però parallelamente non calano i posti letto privati, la cui incidenza diventa sempre più rilevante. E questa dinamica è particolarmente accentuata in Trentino. Dal Rapporto Sanità 2018 di Nebo Ricerche PA

Ed ora, se è vero che diverse cliniche private rappresentano l’eccellenza, sono cioè in grado di curare, e bene, malattie particolari e rare, un contagio lo si affronta con tutt’altri mezzi, con la predisposizione e le capacità per curare molti, moltissimi malati. E questo lo fa solo il pubblico. Di tutto questo dovremo ricordarci.

La seconda scelta è stata di far coincidere la sanità con l’ospedale, abbandonando il territorio. E questa è stato l’elemento più pesante, in negativo, nell’affrontare la pandemia. “La storia della medicina italiana è stata sempre ospedalecentrica - afferma Ioppi - Poi si è visto che si deve ridurre l’ospedale perché costa troppo, ma non si è potenziata la medicina del territorio.” Così il numero complessivo dei medici di base e? andato complessivamente diminuendo nel corso degli anni: secondo il Rapporto di Nebo Ricerche, in Italia si è passati dai 940 residenti per medico di base degli anni ‘80 ai 1.140 del 2013, che è l’ultimo dato disponibile (!) per poi aumentare ancora, e di molto. In Trentino già nel 1999 il Presidente dell’Ordine nonché consigliere provinciale Paolo Barbacovi metteva in guardia da questa montante carenza. Invano, oggi le sue previsioni si sono avverate, come conferma Ioppi e rimarca lo stesso Barbacovi (intervista a Il Dolomiti del 2017): “Se oggi il limite di pazienti per medico di famiglia è fissato per legge a 1.500, in qualche modo in Trentino dovrà essere essere innalzato artificiosamente, forse a 2.000”, cioè il doppio di quanto considerato ottimale.

Se a questo aggiungiamo “le carenze delle attrezzature negli ambulatori di base, la loro mancata evoluzione”, come dice Ioppi, incominciamo a vedere il quadro in cui vanno iscritte le testimonianze attuali, le nostre come quelle registrate in tv: la sanità nel territorio è inconsistente. Così di fronte al Covid ci si è chiusi dentro Fort Apache, gli ospedali; il territorio lo si è lasciato agli indiani. Non si fanno i tamponi, non si mettono le quarantene, non si fanno le visite a domicilio dei potenziali infetti.

Cosa denuncia il nostro testimone lombardo? Di essere dovuto andare in giro per giorni da Ponzio a Pilato, con la moglie contagiata e quindi anch’egli infetto, nella totale indifferenza delle autorità sanitarie e dei loro centralini intasati.

Il trattamento all’ospedale è stato straordinario - commenta - ma fuori…”. Fort Apache combatte eroicamente, ma è drammaticamente solo, dalle pianure e dalle colline continuano ad arrivare sempre nuovi indiani.

E cosa ci dice Alessandro Giacomini? Nessun tampone, né a lui, né alla moglie, messa a letto con febbre altissima dopo essere stata, per lavoro, a stretto contatto con turisti di Codogno (!) negli sciagurati giorni del “Venite pure in Trentino!”. Nessuna quarantena, denuncia Giacomini: “Sono contabile in una grossa cooperativa di lavoro, per seguire gli appalti dovrei andare sul posto, incontrare persone. Sarei autorizzato; ma ho deciso di rimanere a casa, ho capito che, pur da sano, avrei sparso il contagio”. Ma lo ha capito lui, non gli è stato fatto alcun test, non gli si è data alcuna disposizione. La sanità territoriale ha abdicato al suo ruolo.

C’è poi l’aspetto più drammatico. Questa deriva fa capire che anche i numeri dei contagiati come quello dei morti, sono inattendibili. Lo ha confermato lo stesso Capo della Protezione Civile Angelo Borrelli: “È credibile che per ogni malato certificato ce ne siano dieci non censiti”. Chiari e dolenti diversi sindaci, tra cui quello di Bergamo Giorgio Gori: “Sono numeri sottostimati quelli dei decessi, dal momento che molti muoiono in casa per polmoniti e bronchiti acute e nessuno si preoccupa di far loro il test”. Non parliamo delle case di riposo dove secondo il presidente del Veneto Luca Zaia ci sono stati almeno 40 morti “non inclusi nelle statistiche ufficiali che registrano i decessi negli ospedali”.

I tamponi

E qui veniamo al capitolo più grottesco: i tamponi. Verso i quali c’è stato un rifiuto totale, aprioristico. “Non servono a niente” ci siamo sentiti rispondere anche noi. “Non è una scelta logica” rispondeva ancora il 20 marzo il direttore dell’Azienda sanitaria Bordon a Ioppi, che chiedeva di eseguire i tamponi almeno sul personale sanitario (“Il medico, se non è protetto, diffonde il virus otto volte un normale cittadino”).

Il “non servono a niente” veniva poi rafforzato da una seconda motivazione, peraltro del tutto contrastante: “Non abbiamo personale, laboratori, materiali”.

Ma come? Se servono, per individuare i contagiati e circoscriverli, datevi da fare. Anche se la sanità sul territorio è stata lasciata andare, trovate dei rimedi. Quanto pensate che resista Fort Apache? Che ormai è ridotto con anche quattro medici in rianimazione?

Marco Ioppi

Poi la logica, la forza delle cose, e soprattutto l’esempio del vicino Veneto dell’ex mentore di Fugatti, Luca Zaia, che ha varato un piano di contenimento ad ampio spettro (“Abbiamo previsto che entro 5 giorni si possano effettuare test a tutti coloro che sono a casa malati”; finalmente!) hanno fatto cambiare idea anche a Trento.

E allora si è visto che i tamponi si potevano fare. Si è mobilitata la società civile: l’Università e in particolare il Cibio ha messo a disposizione i suoi tecnici, ricercatori, laboratori. Mancavano i reagenti. Il Cibio li ha trovati. Anche QT, nel suo piccolo, è riuscito a mettere in contatto un’azienda chimica trentina con i laboratori universitari.

Il punto ci sembra proprio questo. Imparare dagli altri. Dal Veneto, che di tamponi già la settimana scorsa “ne aveva fatti 85.000, e 24.000 agli operatori sanitari - afferma Ioppi - E a Vò Euganeo hanno tamponato tutti e in una settimana hanno finito il contagio, e i il rapporto tra i nostri morti e i loro è impressionante”. Ma anche, e forse soprattutto a questo punto, dall’Oriente.

Non abbiamo voluto imparare a gennaio? Siamo stati degli asini. Cerchiamo di imparare ora, e non trinceriamoci dietro paraventi tipo “Noi siamo una democrazia” o “Loro sono più obbedienti”. La reazione globalmente positiva della popolazione alle limitazioni di questi giorni dovrebbe suggerire altrimenti. Ed oggi sono impressionanti i filmati in cui si vedono cinesi e coreani attrezzarsi per provvedere alle quarantene, monitorare la popolazione, arginare i contagi di ritorno.

Roberto Battiston

Sull’argomento si sta virtualmente sgolando da giorni Roberto Battiston, astrofisico di fama internazionale, già presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana, che non è un medico, ma comunque ha un approccio scientifico ai problemi: “Deve ora scattare quella che i cinesi hanno chiamato fase 4 dell’epidemia, quella che segue il puro contenimento delle persone. Un esercito di 50mila volontari ha lavorato per individuare tutti i contagiati: quelli che non potevano fare la quarantena da soli, li hanno portati fuori dai nuclei familiari in apposite strutture temporanee, analoghe a quella che stanno completando a Bergamo gli alpini. Per non contagiare nessuno. Mi rendo conto che questo per l’Italia è uno sforzo enorme, anche culturalmente. Ma è fondamentale. Perché altrimenti le famiglie, i condomini, diventano focolai che si riaccendono continuamente”.

Il punto è che l’Italia, e ancor più il Trentino, le risorse umane per un progetto del genere le ha, come abbiamo visto prima. Si tratta di attivarle, di coinvolgerle.

“Oltre agli Alpini, possiamo pensare alla Croce Rossa, e poi a tante altre associazioni. Anche per il grande lavoro di tracciare le persone (ricostruire la catena dei contatti, n.d.r.), potremmo coinvolgere tanti cittadini che ora sono a casa. Oggi abbiamo chi muore letteralmente di lavoro e chi a casa è forzato a fare poco o niente. Avremmo anche i luoghi dove alloggiare le persone in quarantena: i tanti alberghi vuoti, tutto il comparto dell’ospitalità che riceverebbe così anche un incentivo. Certo che per fare questo serve una cabina di regia. In questo momento vedo che il governo si sta occupando degli aspetti economici. Mentre si vede uno sforzo eroico di alcuni settori come quello medico e non solo, non si vede, a livello paese, una strategia comune per affrontare la nuova fase. Ne abbiamo assolutamente bisogno, in modo da anticipare i problemi e non solo subirli”.

Confidiamo che si voglia, finalmente, imparare dalle altre nazioni anche se lontane. E magari abbandonare gli schemi mentali ultra liberisti che ci hanno portato al disastro.

Ne tampone né quarantena

Vorrei sottoporvi quanto sta accadendo nel mio contesto familiare: la dolce consorte manifesta febbre alta, ben al di sopra dei 38 gradi da oltre 3 giorni, la stessa ha avuto stretti contatti con molti turisti lombardi per esigenze lavorative; preoccupati, abbiamo chiesto lumi al numero dedicato alle emergenze da Coronavirus. Messi al corrente di tutto ciò, la risposta è stata quella che indica il protocollo dell’Azienda sanitaria: aggredire la febbre alta con massicce dosi di un noto antipiretico, mentre per quanto sia palese la sintomatologia al Covid 19 non viene eseguito nessun tampone e tanto meno la messa in quarantena.

Se mi è permesso, affrontare una pandemia con queste assurde procedure non è solo da irresponsabili, ma da criminali. Mia moglie e il sottoscritto siamo più che certi di essere dei potenziali iportatori di Coronavirus, ma per inqualificabili protocolli siamo liberi di muoverci in spazi pubblici. Certo, non si richiede un trattamento come quello del ‘600, quando gli untori erano stigmatizzati, ma di modificare i protocolli e le normative sanitarie, affinché per chi manifesta sintomi e comportamenti come sopra descritti il tamponamento debba essere obbligatorio, altrimenti la pandemia non si congelerà in tempi brevi.

Alessandro Giacomini, Massimeno

Non abbiamo capito niente

Non abbiamo capito niente di quanto stava succedendo ad Oriente. Con spocchiosa superficialità di stupidi ex-colonialisti abbiamo pensato che i travagli della Cina fossero problemi da terzo mondo che non ci avrebbero toccato. E a cascata, gli altri della Ue, che fossero problemi da italiani terroni, e poi l’Inghilterra che fossero problemi dei comunitari da cui aveva appena pensato bene di staccarsi, e poi ancora Trump…

Ma insomma: come si fa, a gennaio, di fronte al contagio montante in Cina (e giudicato pericolosissimo in un report della stessa Cia, finito in un cassetto se non in un cestino), come si fa a non prendere contromisure semplicissime come fare scorte di mascherine, guanti, respiratori, tamponi? Si sarebbe spesa un’inezia, nulla in confronto alle centinaia di miliardi che ora dovremo mettere in campo. E si sarebbero risparmiate migliaia di vite umane.

Non solo. Dalla Cina e ancor più dalla Corea (rispetto alla quale non si può accampare la giustificazione “noi siamo una democrazia, loro no”)del Sud ci sono arrivate testimonianze ed immagini esemplari: come si cintura una zona rossa, come si fa una quarantena, come si individuano i percorsi del contagio e li si blocca. In definitiva, come si esce dal contagio nell’arco di due mesi. Loro hanno imparato da precedenti epidemie - Sars, aviaria ecc; noi potevamo imparare da loro. Invece niente. Sono disarmanti i confronti tra le precauzioni in una casa di quarantena coreana e un pronto soccorso europeo, tra le protezioni degli addetti a un posto di blocco cinese e quelle degli infermieri in una Rsa italiana. E dovrebbero fare riflettere i tempi: la Corea ha impiegato, ad uscire dal contagio, meno tempo di quanto noi impiegheremo a raggiungere il picco.