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QT n. 6, giugno 2020 Cover story

La riforma smantellata

Dalla nascita del Servizio sanitario nazionale alle lacune evidenziate dal Covid 1

Rodolfo Taiani

È con il primo gennaio 1979 che nasce il Servizio sanitario nazionale. Con esso si passava da un modello di tipo prettamente mutualistico (la copertura delle spese sanitarie garantita sulla base del limite di prestazione fissato dalla mutua di riferimento e non delle cure necessarie) a uno che accoglieva i principi fondamentali stabiliti dall’articolo 32 della Costituzione e richiamati nell’articolo 1 della legge costitutiva del Servizio sanitario stesso, la 833 del 1978: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività mediante il SSN. La tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana. Il SSN è costituito dal complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività destinati alla promozione, al mantenimento ed al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzione di condizioni individuali e sociali e secondo modalità che assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio”.

Quanto si affermava era la cura delle malattie come diritto e non solo come possibilità a seconda del ceto sociale di appartenenza e delle disponibilità economiche: le nuove parole d’ordine erano universalità e solidarietà, gestione pubblica e territorialità, ma centrale da un punto di vista organizzativo era proprio quest’ultimo aspetto. Alle Unità sanitarie locali fu affidata la responsabilità di produrre ed erogare agli abitanti del territorio di competenza tutte le prestazioni di prevenzione, cura e riabilitazione gestendo al proprio interno tutti i livelli di assistenza e assicurando anche le attività di vigilanza igienico-sanitaria, valutazione e controllo della propria attività. In altri termini, la riforma sanitaria del 1978 avrebbe dovuto tradursi operativamente anzitutto nella formazione di gruppi di lavoro territoriali, operanti nei distretti, composti da più figure quali il medico di medicina generale, il pediatra, il medico del lavoro, il medico igienista, il ginecologo, l’infermiere, l’operatore dell’assistenza, l’assistente sociale ecc.

Il compito delle équipes territoriali sarebbe stato principalmente quello di indagare e monitorare la situazione socio-sanitaria della popolazione, raccogliere ed elaborare i dati epidemiologici offrendo conoscenze utili a livello centrale per riformulare i successivi piani sanitari, intervenire in stretto collegamento con i servizi specialistici ospedalieri e con i servizi sociali offrendo un’adeguata risposta a domicilio o presso ambulatori distrettuali.

Era questa la strategia che avrebbe potuto favorire la prevenzione, impedire o almeno ritardare la cronicizzazione della malattia, ricorrendo al ricovero ospedaliero in casi mirati e solo qualora ci fosse stata la necessità di utilizzare tecniche e strumentazioni non disponibili in altra sede. Lo stesso valeva per tutte le strutture residenziali come le case di riposo. Particolare importanza era data anche al diretto coinvolgimento della popolazione attraverso la presentazione in assemblea pubblica dei rendiconti annuali da parte dei responsabili.

I problemi cominciano subito

La riforma nacque però con due problemi di fondo. Il Ministro che avrebbe dovuto avviarne l’attuazione era Renato Altissimo, ma il suo partito di riferimento, il Partito Liberale, non aveva votato la riforma sostenuta da Tina Anselmi. In secondo luogo la riforma, avviata in anni di relativo benessere economico, entrava in vigore dopo la crisi economica degli anni settanta. Il solidarismo costituzionale che ne aveva ispirato l’impostazione avrebbe dovuto trovare le risorse necessarie attingendo alla fiscalità generale.

Il disegno riformatore del 1978 fu minato alla base da questi ostacoli e da successivi interventi di riordino della disciplina in materia sanitaria: fra i vari il D. Lgs. 502 del 30 dicembre 1992, che dettava norme sulla cosiddetta “Aziendalizzazione delle U.S.L.”. Tutto ciò contribuì a rendere irreversibile un processo di lenta ma inesorabile deriva dell’impostazione originaria.

Nell’attuale situazione di emergenza sanitaria è lecito pensare che una sanità territoriale, ben organizzata e ricca dell’esperienza di quasi quarant’anni secondo quel disegno, avrebbe potuto probabilmente rispondere con più efficacia alle prime cure al paziente infetto e ai suoi familiari, sia a livello domiciliare sia, ad esempio, a livello di Residenze sanitarie assistite, impedendo o almeno ritardando l’aggravamento della malattia, il ricorso agli ospedali e il loro affollamento, fonte di ulteriore propagazione del contagio.

L’arrivo dell’epidemia

Il 9 marzo scorso il Governo ha predisposto un Decreto Legge (il n. 14, Disposizioni urgenti per il potenziamento del Servizio sanitario nazionale in relazione all’emergenza Covid-19) con il quale si è chiesto alle Regioni di istituire entro dieci giorni le cosiddette Unità speciali di continuità assistenziali (USCA, una ogni 50.000 abitanti) per la gestione domiciliare dei pazienti Covid-19. Le competenze previste per queste strutture consistevano nell’assicurare il regolare svolgimento dell’attività ordinaria dei pediatri di libera scelta, dei medici di medicina generale e dei medici di continuità assistenziale e di garantire la diagnosi, la presa in carico e il monitoraggio delle infezioni da Covid19.

In particolare, le USCA sono state incaricate di provvedere:

alla gestione in isolamento domiciliare dei pazienti affetti da Covid19 e che non necessitano di ricovero ospedaliero;

alla gestione dei soggetti entrati in contatto con casi certi e mantenuti in isolamento domiciliare fiduciario;

alla valutazione dei casi sospetti e loro gestione domiciliare;

alle attività burocratiche/amministrative (cartelle cliniche, compilazione flussi ecc.).

Difficile dire al momento se questa scelta abbia sortito qualche effetto: si può pensare tuttavia che la soluzione proposta per il potenziamento del Servizio sanitario voglia essere una tardiva presa di coscienza che il disinteresse per il territorio abbia avuto sul lungo periodo delle conseguenze negative.

Spetta a igienisti, virologi e altri specialisti precisare quali specifici interventi e tecnologie dovrebbe ora mettere in atto la sanità di base, ma quel che è accaduto e sta accadendo – pur tenendo conto dell’eccezionalità della pandemia – segnala in modo drammatico che non si tratta solo di contrastare il Coronavirus, ma di riprendere in mano una riflessione di politica sanitaria. Per decenni si è voluto privilegiare nettamente, anche dal punto di vista finanziario, le strutture ospedaliere e se queste ora mostrano delle falle, vuol dire che l’intero sistema della sanità è gravemente inefficiente. In altre parole, vuol dire che altre patologie, che non fanno tanto rumore, non ricevono quotidianamente risposte adeguate.

È indispensabile per oggi e per domani organizzare una cura drastica che modifichi alle radici la cosiddetta “eccezionale” sanità italiana uscendo dallo slogan pubblicitario e restituendo alla politica sanitaria quel ruolo e quell’ampiezza di visione che l’attuale pandemia ha mostrato essersi smarriti.

Concludo con una sorta di epitaffio del nostro Servizio sanitario che traggo dalla lettura della pubblicazione “Nella storia della sanità italiana: cinquant’anni di AIOP”, di Filippo Leonardi e Mauro Marcantoni edita nel 2016 in occasione dei primi cinquant’anni di vita dell’Associazione italiana ospedalità privata: “Alla fine degli anni Ottanta la prima versione del SSN italiano giunge al termine, sommersa da infinite critiche, travolta dagli scandali e in cronico deficit. L’idea di una ampia e pervasiva politicizzazione della Sanità, con i Comitati di gestione delle USL espressione della lottizzazione partitica dei Comuni che governano e gestiscono ospedali, assunzioni e appalti, mostra tutti i suoi limiti, fra reparti ospedalieri pubblici a sempre più basso livello di utilizzazione e liste di attesa sempre maggiori. Mentre nuove tecnologie si rendono disponibili e la domanda di prestazioni di buona qualità sale, il metodo del finanziamento a piè di lista di ospedali e USL diventa un modo per sviluppare clientele politiche e malagestione, mentre amministratori pubblici sicuri del flusso economico si perdono in infinite alchimie e spartizioni localistiche, protetti da un oligopolio sempre meno difendibile”.

Al di là delle ragioni anche d’interesse che potrebbero aver suggerito una simile lettura, vi si può leggere in controluce l’annuncio di quello che l’emergenza Covid ha forse posto in risalto, ma che il dibattito pubblico fatica a fare proprio: la riforma del sistema sanitario nazionale di quarant’anni fa parlava e declinava i servizi in termini di territorialità e prevenzione. Di fatto quella riforma è stata giorno dopo giorno, pezzo dopo pezzo, sistematicamente smantellata preferendo all’articolazione territoriale il potenziamento di servizi ospedalieri centralizzati. Il Coronavirus ha impietosamente messo in mostra le carenze del sistema politico-sanitario ma anche il fallimento di un processo riformatore le cui vere cause sono tutte da indagare e comprendere. È azzardato associare i successi del Covid19 alle sconfitte di una riforma? Forse no...