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La guerra in Ucraina e la sinistra

Alcune convinzioni, molte incertezze, qualche domanda. Da “Una Città”, mensile di Forlì

Luigi Manconi

A due anni dall’invasione dell’Ucraina, il bilancio di ciò che ho compreso e di ciò che non ho compreso è contraddittorio: una serie di convinzioni si sono irrobustite, ma una serie più nutrita di domande tendono a incrinare qualsiasi certezza. Non credo che la mia sia una condizione isolata.

Quelli che chiamerò Uopl (Umani Orientati al Progresso e alla Libertà) rivelano sintomi e disturbi da stress post-traumatico. Mi riferisco a quei cittadini che si collocano nella sinistra dello schieramento politico e che dall’esperienza della guerra ricavano uno stato di smarrimento.

Il 24 febbraio del 2022 si è consumata inesorabilmente l’era sovietica e l’imperialismo russo si è mostrato, senza infingimenti, come una macchina di distruzione e di morte. In quell’occasione, una parte degli Uopl portava a compimento il suo estremo congedo da quanto era stato, per oltre un secolo, il simbolo della sinistra stessa: gli ultimi residui, cioè, della memoria della Rivoluzione d’Ottobre.

Si dirà: ma questo lavoro era stato già avviato, più di 40 anni fa, dal PCI di Enrico Berlinguer, ed è vero. Sopravviveva tuttavia uno stato d’animo che perpetuava legami sottili, spesso inconsci, con suggestioni capaci di influenzare le scelte politiche e intellettuali. Dai Soviet alla resistenza di Stalingrado, ai soldati russi che entrano ad Auschwitz: tutto induceva a una sorta di tendenziale privilegiamento, a una tentazione giustificatoria, ogni volta che la Cosa Russa si contrapponeva alla Cosa Americana.

Più che altro un sentimento, ma assai forte. Con l’invasione dell’Ucraina si è consumato un ulteriore strappo: e una componente degli Uopl oggi riconosce che, tra Putin e Biden, può scegliere il secondo, senza che ciò faccia dimenticare le responsabilità, passate e presenti, dell’imperialismo americano.

Ma la separazione dalla Cosa Russa, inequivocabile per molti, non lo è per tanti tra coloro che si vogliono di sinistra. Ma cosa impedisce che la frattura con il putinismo sia irreversibile?

In primo luogo, una sottovalutazione del primato del sistema democratico rispetto ad ogni altro. Per considerare Putin il concentrato di tutto ciò che un democratico deve detestare potrebbe essere sufficiente il fatto che il suo potere assoluto duri da oltre vent’anni, consentendogli di fare strage di vite e di diritti.

Se tutto ciò non basta, è forse perché, come dice Massimo Recalcati, “l’inconscio di una certa sinistra detesta la democrazia”. Un’affermazione terribile ma, a mio avviso, non immotivata. Se infatti si approfondisce il discorso, si potrà scorgere una presbiopia, che si fa relativismo etico e si esprime attraverso formule retoriche primitive. Come ad esempio: “Anche in Occidente comandano sempre gli stessi”; “L’informazione è in mano agli oligopoli”; “In Parlamento a decidere sono le lobby”.

In altre parole, sembra sfuggire a molti che la democrazia più imperfetta (quella italiana come quella ucraina), per sua stessa natura è preferibile a qualunque forma di autocrazia. Insomma, la guerra in Ucraina consente di andare al cuore della questione. Ovvero: “Sto con l’Ucraina perché sto con la democrazia”. Tantissimi tra gli Uopl non condividono però questa impostazione: “Perché gli Usa...”, “Perché la Nato...”, “Perché l’Europa...”.

Hanno ragione nell’elencare le cause e i precedenti storici, ma hanno torto nello sfuggire al tema centrale, che rappresenta la sostanza della questione: il senso della democrazia, la sua qualità e la sua superiorità.

Una parte della sinistra si colloca su questa posizione, senza che ciò possa rassicurarla rispetto agli esiti della guerra, dal momento che lo scenario è decisamente confuso e le prospettive di arrivare anche solo a un cessate il fuoco appaiono assai esili. Dunque, come continuare a sostenere, anche militarmente, la resistenza senza che ciò determini la riproduzione all’infinito della spirale bellica? E come farsi protagonisti, insieme alla sinistra europea, di un percorso di tregua, negoziato, mediazione che produca colloqui e conferenze internazionali e finalmente dia una chance alla pace?

Un’altra parte della sinistra, pur ribadendo che la Russia è l’invasore, si è ritagliata uno spazio di equidistanza (negata a parole, ma accettata nei fatti), una volta che la priorità è sempre e comunque la cessazione delle ostilità.

Anche il pacifismo politico rivela una disperante afasia. Esso conserva una sua vitalità nell’azione quotidiana, sotterranea e preziosa, ostinata e solidale, interreligiosa e interculturale, ma resta incapace di farsi soggetto pubblico. In altre parole, l’esperienza della guerra continua a incidere in profondità nell’inconscio individuale e collettivo dell’Occidente.

Come si diceva, la mancata elaborazione dell’immenso lutto che si consuma nei massacri in Ucraina produce, tra l’altro, due false rappresentazioni: che tutto stia accadendo per la prima volta (la prima dopo il 1945) e che si viva, ormai, nel dopoguerra. Queste due costruzioni mentali sono fallaci: perché è già successo (Sarajevo, Srebrenica, Kosovo) e perché la guerra continua e il dopoguerra non è alle viste.

È questa inconsapevolezza che rende ancor più drammatico lo smarrimento della sinistra e le impedisce di immaginare una strategia di pace fondata sulla resistenza dell’Ucraina e sulla sua capacità di indipendenza, anche militare. Un tempo era la guerra a “far maturare” (si diceva così) gli adolescenti (quelli che non vi perivano) e a renderli adulti. Oggi la guerra sembra rendere ancora più immatura la sinistra.

Dalla parte delle vittime

La guerra ha posto con forza alla riflessione domande che già la diffusione del coronavirus aveva iniziato a formulare. Domande radicali raramente consentite dal corso ordinario della vita quotidiana.

È accaduto così che, a seguito della sequenza micidiale pandemia-guerra, quelle domande si presentassero in maniera concretissima. E che perdessero ogni contorno astratto, acquisendo una dimensione politica ed esistenziale. Ciò contribuisce a spiegare lo stato di smarrimento di cui sopra. E questo ha portato a mettere in discussione il giudizio sulla natura stessa della guerra.

Così che, nel dibattito, dopo una premessa d’obbligo sul fatto che c’è un aggressore e c’è un aggredito, il successivo ragionamento ha portato a confondere questi due ruoli. Lo si è visto fin dal primo momento, quando una diffusa opinione si è impegnata a negare che quella degli ucraini fosse una vera Resistenza. Chi abbia letto Beppe Fenoglio ricorderà con quanta ansia le formazioni partigiane attendessero e, poi, con quanto sollievo accogliessero i lanci dei rifornimenti da parte degli aerei degli eserciti alleati. E quanto quelle provviste che piovevano dal cielo contribuissero a determinare il morale dei combattenti, la loro capacità militare e l’equilibrio dei rapporti di forza.

Di conseguenza, fatico a immaginare perché mai inviare mezzi militari ai resistenti ucraini costituisca un errore e un rischio mortale. Per me l’ANPI è sacra, ma non riesco a intendere le parole del suo presidente Pagliarulo quando, già nel marzo 2022, affermava che “l’invio di armi in Ucraina espone il nostro Paese a un grave pericolo”. E, dal contesto, si evince che ciò che si teme sia la rappresaglia contro l’Italia, oltre che l’acutizzarsi del conflitto.

La conseguenza ultima, ma coerente, di un simile ragionamento è quella di chiedere la resa dell’Ucraina. Ma, con questa logica, si sarebbe dovuto rinunciare a gran parte delle azioni armate della Resistenza contro il nazifascismo, con l’inevitabile mortificazione di qualunque ruolo del nostro Paese nella guerra di liberazione e di qualunque successiva ambizione all’indipendenza e alla sovranità nazionale.

La contraddizione che emerge da tutto ciò e che spiega l’atteggiamento dell’ANPI e di tanti militanti di sinistra, risiede nel fatto di negare alla mobilitazione popolare degli ucraini la definizione di Resistenza. Le motivazioni in proposito appaiono speciose. Ma quello che mi preme sottolineare non è tanto la debolezza di queste argomentazioni, bensì l’ambiguità del punto di vista adottato, che non pone al centro le vittime, i bersagli della violenza.

Esemplare di questa impostazione è il ragionamento di Luciano Canfora, che ha parlato dell’invasione russa dell’Ucraina come di “una guerra tra potenze”, nella quale “il torto sta dalla parte della potenza che vuole prevaricare”: cioè l’Ucraina. E ha definito “passanti” i profughi, aggiungendo che “la storia di una Irina che perde il bambino è un caso particolare e basta”.

Ho la sensazione che le opinioni di Canfora siano ampiamente condivise all’interno di quel mondo che chiamiamo “sinistra”. Mirabilmente nelle parole di Canfora, e più sciattamente in quelle di altri, le vittime scompaiono. In un duplice senso: perché vengono rimosse dalla vista e dal discorso, in quanto sopraffatte dalla genealogia delle cause storiche, antropologiche, etniche, geografiche e diplomatiche, che spiegherebbero la complessità dell’evento fino a escludere la nuda vita e la cruda sofferenza. E perché le stesse vittime sono sollecitate a scomparire, in quanto la loro sopravvivenza resistente incrementa il numero dei morti, prolunga il conflitto e, se aiutata dai mezzi militari dei Paesi europei, mette in pericolo la sicurezza nazionale di quegli stessi paesi. Ecco, almeno di questo rimango convinto: il punto di vista delle vittime deve essere il nostro punto di vista.

La superbia della bontà

Un’altra domanda imposta dal conflitto è la seguente: cosa sono disposto a fare di male per approssimare la pace? Davanti all’aggressore che brandisce la spada per colpire l’inerme, posso decidere di fare mio il disvalore della violenza e tacitare gli scrupoli morali per salvaguardare l’incolumità della vittima e dunque il bene supremo della vita? Sono disposto, cioè, a rinunciare alla mia mitezza e a ricorrere alla mia aggressività per tutelare l’aggredito?

È la questione più drammatica, perché non si fonda su una presunzione di superiorità etica (il pacifismo rispetto alla resistenza, la nonviolenza rispetto all’uso della forza), bensì sulla disponibilità a rinunciarvi per un fine più grande della mia personale innocenza.

Secondo dilemma: a cosa siamo disposti a rinunciare per avvicinare la pace? Il governo di Zelensky ha assunto provvedimenti limitativi della libertà di espressione: come l’accorpamento di tutti i canali tv al fine di realizzare un’unica piattaforma informativa; poi, la sospensione delle attività di 11 partiti di opposizione allo scopo di “tutelare la sicurezza nazionale”.

Una simile compressione delle garanzie costituzionali e dei diritti individuali in una situazione eccezionale, richiama in qualche modo quanto accaduto in Italia durante la pandemia. Ad esempio, l’imposizione di prescrizioni sanitarie e la sospensione del diritto al lavoro nel caso di inosservanza di determinati obblighi. Questioni delicate che il cittadino di un paese democratico deve poter discutere e criticare, commisurando la legittimità di quelle misure alle esigenze dell’emergenza.

E alla consapevolezza che, nel conflitto tra libertà individuale e salute pubblica, può accadere che quest’ultima debba prevalere. Tanto più, verrebbe da dire, in uno stato di guerra. Chi vive in una condizione bellica può accettare che le libertà democratiche vengano ridotte per salvaguardare la compattezza della resistenza popolare? E chi, come noi, ne è solo spettatore, può accettare che il governo Zelensky limiti la libertà di espressione senza che, per ciò, si neghi a quel governo il nostro sostegno?

Come si vede, la riflessione sulla guerra non porta a rassicuranti certezze, ma al moltiplicarsi dei dilemmi. L’invasione dell’Ucraina ha determinato conseguenze, nella geopolitica come nelle nostre menti, non reversibili. Ed è indubbio che non saranno nuovi luoghi comuni e nuovi stereotipi ad aiutarci a comprendere. Capire il tempo di guerra è un’impresa davvero improba.

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