Sociologia occupata
Boicottaggio e coscienza civile, la protesta di Trento
Da alcuni giorni si è conclusa l'occupazione della Facoltà di Sociologia dell’Università di Trento, proclamata da un gruppo di studentesse e studenti che chiedevano l’interruzione di ogni collaborazione tra ateneo trentino e università israeliane. La mobilitazione - parte di un’ondata più ampia che ha attraversato campus europei e nordamericani – è nata come reazione al genocidio perpetrato in Palestina, ma anche come riflessione sul ruolo etico e politico delle istituzioni accademiche nelle relazioni internazionali.
A prima vista potrebbe sembrare una battaglia simbolica, ma è proprio nel simbolico che le azioni di questo tipo trovano la loro forza: influenzare l'opinione pubblica, spostare il consenso, generare nuove domande dentro e fuori i confini nazionali.
Israele è una società democratica con una opinione pubblica attiva e articolata, ma oggi fortemente polarizzata. In questo contesto, molte voci critiche interne – tra cui intellettuali, docenti, studenti – sono isolate o delegittimate. La pressione internazionale, soprattutto se proveniente da ambiti percepiti come progressisti (come l’università), può avere un duplice effetto: rompere l’isolamento delle voci critiche interne, e mostrare che le scelte dell’attuale governo israeliano hanno un costo, anche reputazionale.

Quando università straniere, movimenti studenteschi o associazioni culturali interrompono o sospendono collaborazioni con atenei israeliani o con istituzioni legate al governo, delegittimano sul piano internazionale pratiche considerate in violazione del diritto, costringono l’opinione pubblica israeliana a porsi delle domande, creano dibattito interno e, nella migliore delle ipotesi, stimolano una reazione critica.
L’università come spazio politico
Ma perchè l’università? Essa anzitutto è luogo di produzione del sapere e di formazione delle classi dirigenti, ed ha da sempre un ruolo centrale nella costruzione del dibattito pubblico. L’occupazione di Sociologia si inserisce in questa lunga tradizione, che non riguarda solo l’Italia e, soprattutto, non è figlia dei nostri tempi.
Pensiamo al boicottaggio accademico del regime dell’apartheid in Sudafrica: fu anche grazie alla pressione delle università e della società civile nei paesi occidentali che si generò una crepa nella legittimità internazionale del governo sudafricano. Allo stesso modo, movimenti studenteschi hanno contribuito a influenzare l’opinione pubblica americana durante la guerra del Vietnam, soprattutto attraverso azioni simboliche – come l’occupazione delle università o il rifiuto di partecipare a programmi di ricerca collegati all’apparato militare – che rompevano la narrazione governativa fino a farla diventare minoritaria.
Queste azioni, anche se minoritarie all’inizio, hanno la capacità di diventare mediatiche e di portare alla luce ciò che altrimenti rimarrebbe ai margini. Sono tentativi di contro-egemonia, pratiche che contestano le narrazioni dominanti e ne propongono di alternative.
Boicottaggio, disinvestimento, sanzioni: un precedente importante
Il movimento BDS (Boycott – boicottaggio, Divestment – disinvestimenti, Sanctions - sanzioni), nato nel 2005 su iniziativa della società civile palestinese, propone un’azione non violenta volta a esercitare pressione sul governo israeliano affinché rispetti il diritto internazionale.
Una parte importante della sua strategia è proprio rivolta al mondo accademico: interrompere la normalizzazione di rapporti istituzionali con università che collaborano, direttamente o indirettamente, con l’occupazione militare.
In alcuni paesi (Belgio e Spagna, tra i primi) università e gruppi di ricerca hanno accolto queste richieste, sospendendo scambi o rivedendo le partnership. Non si tratta di censura, ma di una forma di pressione simbolica e culturale. L’obiettivo non è colpire la libertà di ricerca, bensì chiedere coerenza etica alle istituzioni accademiche.
È qui che il salto valoriale è più interessante: le università israeliane sono parte integrante della società civile israeliana, ma anche in tensione con il governo – specie le università critiche nei confronti di Benjamin Netanyahu.
Secondo un recente articolo di Le Monde Israele sta affrontando un’ondata senza precedenti di boicottaggi accademici che minacciano le relazioni internazionali, la capacità di attrarre studenti stranieri e la reputazione esterna. Il tutto in uno stato, come Israele, che tiene molto al proprio soft power e alla sua (presunta) immagine di Paese innovativo, democratico e culturalmente avanzato.
Le campagne di boicottaggio come quelle accademiche o culturali (basta pensare al clamore suscitato nel 2018 dall’annullamento del concerto previsto in Israele dall’artista pop Lara Del Rey) non colpiscono materialmente lo stato ma incidono sulla percezione e sulla sua reputazione e questo può spingere fasce moderate della società israeliana a prendere posizione contro l’attuale governo e le sue politiche genocidiarie.
Quando un’università israeliana – o gli studenti israeliani – cominciano a percepire che la comunità accademica internazionale la considera complice di una violazione del diritto internazionale, si apre una frattura simbolica: cambiano non solo le relazioni formali, ma anche la percezione interna di “normalità”. E quando cambia la percezione, può cambiare anche la base di consenso politico.
Ma può davvero influenzare l’opinione pubblica israeliana?
Ci sono precedenti. Durante la Seconda Intifada, l’intensificarsi delle critiche da parte di università europee e statunitensi contribuì a spostare una parte dell’opinione pubblica israeliana verso posizioni più critiche nei confronti dell’occupazione. Lo stesso vale per il 2014, durante l’operazione militare a Gaza, quando diverse università israeliane ricevettero lettere pubbliche di sospensione dei rapporti da parte di colleghi all’estero. Le reazioni furono varie, ma una parte del dibattito interno si rianimò proprio a partire da questi segnali.
Inoltre, come spiega il sociologo statunitense Charles Tilly, i movimenti non agiscono solo per ottenere risultati immediati, ma anche per ridefinire le categorie del dibattito: rendere visibile ciò che viene nascosto, creare nuove mappe cognitive. In questo senso, anche un’occupazione di pochi giorni può avere effetti duraturi.
L’influenza sul diritto internazionale
La cooperazione accademica non può essere neutra: laddove esiste un contesto di violazioni sistemiche del diritto umanitario – come appunto il genocidio in atto in Palestina – le istituzioni universitarie devono interrogarsi sul proprio ruolo. Non si tratta di interrompere il dialogo tra popoli, ma di non legittimare con la normalizzazione istituzionale pratiche o politiche che ledono i diritti umani.
L’occupazione di Sociologia a Trento non è un atto isolato di protesta. È un tassello, per quanto piccolo, nel tentativo di forzare il diritto internazionale a rispondere non solo agli Stati, ma anche alle coscienze. Se il diritto è davvero universale, allora ogni aula, ogni città, ogni gesto conta. Anche (o soprattutto?) quando viene dal basso.
E, sotto questo aspetto, la Corte Penale Internazionale si è mostrata più volte sensibile al clima internazionale: se cresce l’indignazione pubblica aumentano le probabilità che indagini e procedimenti si accelerino. E, storicamente, la stessa legittimità della CPI si alimenta del consenso dell’opinione pubblica globale. Fatto ancor più importante nell’attuale frangente storico, in cui diversi stati cercano di ignorare la CPI e la considerano – nei fatti quando non anche con le parole – un fastidioso e datato inciampo.
L’occupazione di Sociologia a Trento, dunque, può essere letta come un gesto politico dal forte valore simbolico, che interroga l’università sulla coerenza tra i suoi valori dichiarati e le sue scelte concrete. Non si tratta di espellere Israele dal contesto accademico, ma di chiedersi se continuare a cooperare senza condizioni sia oggi ancora accettabile, vista la situazione.
In un momento in cui la guerra si combatte anche sul piano della narrazione, gesti come questo servono a incrinare l’apparente normalità. E a ricordare che, anche da un’aula occupata, può partire una spinta verso una consapevolezza collettiva diversa – qui, e forse anche altrove.