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Un grande sonno nero

In un video la vicenda umana e politica di Guido Rossa.

Al percorso umano e politico di Guido Rossa, l’operaio dell’Italsider di Cornigliano ucciso dalle Brigate Rosse sotto la propria abitazione all’alba del 24 gennaio 1979, era dedicato il secondo incontro di "Storie e Storia – biografie, testi, ricerche", la rassegna organizzata dall’Accademia Roveretana degli Agiati, il Museo Storico Italiano della Guerra e il Museo Storico del Trentino.

L’ospite invitato a ripercorrere le storie e il clima di quegli anni era Renato Penzo, compagno di fabbrica particolarmente vicino a Guido Rossa e protagonista di un documento emozionante contenuto all’interno di "Un grande sonno nero. Vita e morte di Guido Rossa. Alpinista e operaio". di Micol Cossali, Diego Leoni e Matteo Zadra, il film documentario che ha aperto la serata. La sera stessa dell’omicidio, davanti alla macchina da presa, Penzo raccontò insieme ad altri compagni di fabbrica i momenti condivisi insieme a Guido Rossa: ricorda quanto fosse taciturno sul proprio passato di alpinista e quel racconto, quasi una confidenza, di quando, giovanissimo accademico del Cai, aveva scelto di recidere decisamente e definitivamente ogni legame con l’ambiente alpinistico, di congedarsi dalle montagne per scendere in fabbrica e dedicare tutte le proprie energie alla lotta politica. La scelta era maturata in seguito alla sfortunata spedizione del gruppo Cai Uget di Torino nel 1963, alla conquista del Langtang Lirung sull’Himalaya nepalese, segnata dalla tragica morte di due compagni di cordata e dalla scoperta delle condizioni di estrema povertà degli abitanti di quelle zone.

"La cosa che mi ha fatto più impressione - scriverà alcuni anni più tardi in una lettera al notaio Ottavio Bastrenta, quasi un testamento della sua esperienza di alpinista - non è stata l’enorme estensione delle vette glaciali ma la grande fame dell’Asia: le spedizioni devono essere fatte più che per soddisfare le nostre aspirazioni di conquista e vanità, per vaccinare tutti i bambini di quelle terre senza difesa".

Nato a Cesiomaggiore, in provincia di Belluno, il 1° dicembre 1934, a due anni non ancora compiuti si era trasferito con la famiglia a Torino. Entrò per la prima volta in fabbrica alla FIAT a 14 anni, come fresatore e nel 1959 si trasferì a Genova per essere assunto all’Italsider di Cornigliano. Fra Torino e Genova Rossa scoprì precocemente le montagne e l’arrampicata, con piglio provocatore e anarchico rifiutò da subito ogni appartenenza di scuola, anticipando nello spirito il movimento alpinistico libertario e antidogmatico del "Nuovo Mattino". Il suo carisma si esprimeva soprattutto all’interno del Gruppo Alta Montagna del Cai Uget di Torino, quello con cui partecipò nel 1963 alla spedizione himalayana. "L’anima del gruppo è Guido Rossa - annotavava Massimo Mila, al tempo suo compagno di scalate - un artista, un arrampicatore elegante e dalle visioni lungimiranti".

Una traccia di quanto profonda fosse quella scelta di scendere dalle montagne per lottare in fabbrica si ritrova nelle poche parole con cui Gian Piero Motti ricorda uno degli ultimi scambi avuti con Rossa: "Incontrerò una sera d’inverno Guido Rossa, il quale fissandomi con quegli occhi che ti scavano dentro e ti bruciano l’anima, con quella sua voce calma e posata mi dirà che l’errore più grande è quello di vedere nella vita solo l’alpinismo, che bisogna invece nutrire altri interessi nobili e positivi".

L’esperienza dell’alta montagna aveva plasmato in profondità il carattere e il temperamento di Guido Rossa, fino al punto in cui quell’educazione alla determinazione e al coraggio venne percepita come inadeguata, per certi versi addirittura sprecata, per l’ambiente alpinistico e inziò a reclamare la necessità di potersi esprimere in un contesto più strettamente politico: "Da ormai parecchi anni mi ritrovo a predicare l’assoluta necessità di trovare un valido interesse nell’esistenza, un interesse che si contrapponga a quello quasi inutile dell’andare sui sassi. Che ci liberi dal vizio di quella droga che da troppi anni ci fa sognare e credere semidei o superuomini chiusi nel nostro solidale egoismo, unici abitanti di un pianeta senza problemi sociali, fatto di lisce e sterili pareti".

Le notizie sulla vita di Guido Rossa sostanzialmente si interrompono per riprendere quel giorno dell’ottobre del 1978 in cui sorprese Francesco Berardi, compagno di fabbrica e di partito, a diffondere all’interno dell’Italsider un comunicato delle Brigate Rosse. Fu Rossa a vederlo, e immediatamente all’interno della fabbrica si aprì una discussione radicale tra il partito di coloro che appoggiavano la soluzione di un semplice richiamo verbale e il partito di quelli che, come Rossa e Penzo, volevano denunciare il fatto alla polizia per sbarrare ogni possibile spazio ad ogni infiltrazione brigatista all’interno della fabbrica. "La lotta al terrorismo passa di qui - annotava Rossa in quel periodo -, perché è qui, nello spazio che separa la classe operaia dallo Stato, che il terrorismo si insinua. Dobbiamo riempire quello spazio. La vera posta in gioco oggi è la trasformazione dello Stato: o ci muoviamo coerentemente in questo senso o il terrorismo continuerà a trovare spazio".

Con oltre trentamila dipendenti l’Italsider era la fabbrica più grande e importante d’Italia, teatro in quegli anni di scontri e tensioni durissime, un nodo strategico per il Partito Comunista e oggetto del desiderio delle Brigate Rosse. La casualità di quella scoperta divenne così il primo anello di una catena mortale che costrinse Rossa ad esporsi isolatamente e personalmente prima nel firmare la denuncia del fatto, quindi nel testimoniare al processo che portò Francesco Berardi a una condanna di quattro anni e mezzo di carcere.

Guido Rossa con la figlia

Nel suo racconto Penzo sottolinea oggi come nonostante la scelta di denunciare il fatto non fosse condivisa da molti, Rossa non fu lasciato solo dal partito: prima gli venne data una scorta alla quale presto rinunciò, successivamente gli venne persino proposto di emigrare segretamente all’estero nell’attesa che la situazione cambiasse, ma lui rimase convinto nel proseguire la sua vita normalmente con la certezza di aver agito nel modo giusto.

La mattina del 24 gennaio 1979 un commando brigatista formato da Vincenzo Guagliardo, Riccardo Dura, Lorenzo Carpi e forse un quarto uomo mai identificato, tende un agguato a Rossa uscito di casa per recarsi al lavoro. Gli sparano alle gambe, poi, mentre si stanno allontanando, Dura ritorna indietro e lo finisce con un colpo al cuore.

La notizia dell’assassinio arriva presto in fabbrica e spontaneamente gli operai abbandonano il posto di lavoro. Il giorno successivo una folla di duecentomila persone si riunisce a Genova in piazza De Ferrari. Enrico Fenzi, ex brigatista, scriverà ricordando quella giornata: "Gli operai, in quella piazza, quella mattina, piangevano alla morte di uno dei loro e insieme piangevano in quella morte la fine di un equivoco. La strada del ritorno era sbarrata: in mezzo ormai c’era Rossa. Ora tutto aveva un altro colore, un altro senso".

Molte domande rimangono aperte a trent’anni di distanza. Anzitutto come fu possibile che a pochi mesi di distanza dall’assassinio di Aldo Moro ancora non ci fossero strumenti legali di tutela a protezione di chi denunciasse persone o episodi legati al terrorismo. Il secondo e più inquietante interrogativo riguarda come e perché le Brigate Rosse decisero di eliminare Guido Rossa. C’era la volontà di portare all’estremo uno scontro politico e sociale, c’era la consapevolezza che l’uccisione di un operaio avrebbe segnato definitivamente la fine di ogni possibile simpatia o adesione per i gruppi terroristi? La decisione di eliminare Rossa fu una scelta autonoma di Riccardo Dura oppure egli agì su ordini provenienti da un livello decisionale di cui non tutti i brigatisti erano a conoscenza?

Un filo di morte si dipana dalla morte di Rossa e va a toccare tutti coloro che si trovarono coinvolti in questa vicenda: Francesco Berardi, probabilmente esasperato dal carcere e dalla vicinanza con altri brigatisti rinchiusi in quel periodo nello stesso carcere di Cuneo, si impiccò l’ottobre successivo. Il suo avvocato, Edoardo Arnaldi, accusato di partecipazione a banda armata, si sparò un colpo in testa all’arrivo dei carabinieri. E Riccardo Dura venne ucciso insieme ad altri tre brigatisti da un commando dei carabinieri del generale Dalla Chiesa durante il blitz nel covo di via Fracchia, che casualmente si trovava a pochi metri dall’abitazione di Guido Rossa.