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La nave dei folli

Il nazionalismo, i clandestini e noi

Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali. Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione”.

Potrebbe essere l’intervento alla Camera del ministro Roberto Maroni, invece è la relazione dell’Ispettorato per l’Immigrazione del Congresso americano sugli immigrati italiani negli Stati Uniti, datata ottobre 1912.

A parte la ovvia osservazione su quanto poco sia cambiato il discorso razzista e anti-immigrati nel corso degli ultimi 100 anni, questo documento storico ci permette di capire alcune cose importanti sul periodo in cui è stato scritto e di trarre alcune preoccupanti conclusioni che derivano da poco incoraggianti similitudini storiche rispetto all’oggi.

Il liberale laissez-faire che ha accompagnato i movimenti di migranti per tutta le seconda metà dell’800 - l’epoca della Grande Migrazione e di una globalizzazione ante litteram - si sgretola all’alba del ‘900 sotto i colpi dell’impetuoso vento del nazionalismo. Si prepara la guerra; si chiudono le frontiere.

Il 6 agosto 1901 il presidente americano McKinley viene assassinato da un anarchico polacco; la risposta è l’Anarchist Act del 1903 che stabilisce l’espulsione, mentre la Corte Suprema decreta l’inapplicabilità agli stranieri del Primo Emendamento. Nel 1917 l’espulsione viene estesa ai “sovversivi” in generale, mentre con il Literacy Test si impedisce l’entrata negli USA agli analfabeti: quanti italiani dovettero tornarsene a casa per il cattivo funzionamento delle scuole del Regno?

L’intento di ridurre gli sbarchi era chiaro e andava di pari passo con la svolta isolazionista repubblicana: nel 1921, per la prima volta, entrò in vigore una legge che stabiliva le quote di immigrati che avrebbero potuto entrare nel Paese. Ha fatto scuola, non c’è che dire.

Nasce così la figura del “clandestino”, colui che - sulla nave dalla ciurma solidale e compatta, lanciata verso la vittoria, la nave della Nazione - sale di nascosto per strappare una briciola di pane, un lavoro da spalatore di carbone accanto alla caldaia.

Parlando con alcuni colleghi di QT qualche tempo fa, pur con diverse previsioni sul futuro del nostro Paese, si era tutti d’accordo sul fatto che l’immigrazione è un terreno centrale di battaglia politica su cui Berlusconi e i suoi accoliti stanno sperimentando un pericoloso scivolamento autoritario, che si trascina il senso comune di questo Paese.

Se la figura del “clandestino” nasce a cavallo tra ‘800 e ‘900 come scarto di un mondo che il nazionalismo sta per portare alla guerra, oggi esso è la vittima (e insieme l’indicatore) di un nazionalismo risorgente - anche se in forme diverse - e di un razzismo che ne alimenta i deliri, il tutto condito da una crisi economica che non farà che accentuare i conflitti. Significativa è la polemica contro l’Onu e la siderale distanza dell’Italia dall’Europa e da qualsiasi organismo internazionale proprio sulla questione immigrati. Una spirale che allora portò alla guerra. E oggi?

Questi sono i contorni della battaglia attuale, che ha la dimensione di una lotta epocale per la difesa della dignità dell’essere umani, liberi e solidali. Una battaglia per vincere la quale non bastano i lisi luoghi comuni della retorica multiculturalista. Ci vuole la lotta; è il tempo di scegliere “da che parte stare”, come recitava il titolo della manifestazione dello scorso 23 maggio a Milano: al fianco degli immigrati, contro il razzismo. È ora di scendere da questa nave, prima che esplodano le caldaie.

“Io ho lavorato per gli irlandesi, per i tedeschi e per i francesi. Ho lavorato anche per gente di altri popoli. A me questa gente piace quanto mi piace mia moglie e il mio popolo. È per questo che non credo nella guerra”. Parola di Bartolomeo Vanzetti, che non aveva patria, ma il mondo intero.