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QT n. 7, luglio 2009 L’editoriale

Fragile Europa

L’Italia è ammalata. Ed anche l’Europa non è il ritratto della salute. Nella recente campagna elettorale si è parlato di tutto, tranne che dei problemi di un’Europa politicamente unita. Che infatti unita lo è solo perché c’è l’euro, neanche dappertutto, e le frontiere fra i singoli Stati sono senza dogane. Ma una politica unica dell’Europa non esiste. Nemmeno sui problemi del mondo. Forse è affetta da obesità per essersi allargata troppo e troppo in fretta. Ma non è solo questo.

Vi è una rinascita virulenta dei movimenti fascisti e neo nazisti, in particolare nei Paesi del cosiddetto ex blocco sovietico. Dobbiamo constatare una crescita allarmante dei partiti della destra antisemita razzista e xenofoba. E correlativamente il crollo dei partiti di sinistra. Il Labour in Inghilterra, l’SPD in Germania e i socialisti francesi hanno avuto tutti un risultato elettorale sotto il 20%. Il nostro Partito Democratico, con il suo 26%, nel confronto fa la figura del gigante. Dunque le difficoltà della nostra sinistra non sono originate dalla sua interna litigiosità, dalla mancanza di dirigenti carismatici, dai micropersonalismi che la impacciano. Anzi, direi che questi vizi sono più la conseguenza che la causa della crisi della sinistra. Intendo tutta la sinistra, il Partito Democratico ma anche quella realtà, circa il 10%, che con esso non si identifica, e soffre delle stesse identiche patologie, persino in misura più accentuata e devastante.

Le cause sono altre. Sono profonde e vaste ed operano su tutto il continente. Risiedono nella natura e gravità dei problemi del mondo contemporaneo. Crisi economica, immigrazione dal terzo mondo, contagio fra diverse civiltà, limiti dell’ambiente naturale: dinanzi a questi problemi la destra propone risposte contrarie ai principi della nostra civiltà cristiano-illuminista e tali che non risolvono i problemi, anzi li aggravano. Però trovano consensi.

Le soluzioni giuste ed efficaci a questi problemi sono oggettivamente difficili da attuare e soggettivamente ostiche da far accettare dal corpo elettorale. Esse si scontrano con due ostacoli di natura strutturale.

La struttura economica internazionale che sfugge al controllo della politica. Le enormi masse di denaro che galleggiano improduttive nei mercati finanziari potrebbero utilmente essere impiegate nei luoghi da dove proviene l’immigrazione. Ma chi ne può disporre non lo farà mai. La capacità produttiva sovradimensionata di settori importanti dell’economia, da cui deriva il consumismo, dà segni di crisi insanabile (le fabbriche di automobili) ed esige processi di conversione che i governi dei singoli Stati non hanno il potere di imporre.
La struttura culturale dei nostri popoli è infarcita di falsi valori. La sobrietà è definita pauperismo. Il rispetto della legalità è sprezzantemente chiamato giustizialismo. L’imperativo etico diventa moralismo. Il tutto sommerso da una incontenibile frenesia di consumismo. È incredibile, ma questa sottocultura ha contaminato anche vasti settori dei ceti poveri.

Far passare una diversa cultura ed un diverso indirizzo dell’economia è un’impresa assai ardua. Fino ad oggi in Europa nemmeno tentata.
La sinistra al potere lo è paradossalmente nel più grande e potente stato del mondo: gli Stati Uniti d’America. Ed anche lì vediamo quanto fatichi il presidente Obama a tradurre in fatti concreti le sue idee. L’Europa avrebbe l’occasione di dargli una mano per propiziare la nascita di un governo del mondo, attraverso il quale la politica possa mitigare gli effetti perversi del libero mercato.

Ma l’Europa di oggi temo che non sia nemmeno consapevole di questa sua grande occasione. Figurarsi l’Italia.