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L’ASAR per sentito dire

Giorgio Jellici

I passaggi riguardanti l’ASAR (Associazione Studi Autonomistici Regionali) riportati nel riassunto della tesi di dottorato di Lorenzo Gardumi su QT del maggio 2010 (non li cito qui per brevità), si accontentano dei soliti consunti stereotipi, con radici nei rottami dell’ostilità anti-ASAR del dopoguerra. Di storico hanno solo la patologia, non la ricerca. All’epoca dell’ASAR il giovane Gardumi non era ancora nato. A maggior ragione dovrebbe forse dare un’occhiatina a qualche buon libro di storia (ad esempio: “Le orme del mio passaggio”, di Valentino Chiocchetti o “Storia dell’ASAR”, di Lorenzo Baratter) e fare un po’ più di attenzione prima di emettere giudizi su ciò che fu il movimento socio-politico più importante nella storia del Trentino, a lui noto solo per sentito (male) dire.

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L’articolo apparso su QT è solo una breve introduzione a una tesi di dottorato, più complessa e articolata, rivolta a porre sotto una nuova luce il Trentino del secondo dopoguerra attraverso il tema della violenza. Una questione che, con buona pace del sig. Jellici, non riguarda solo l’ASAR ma la comunità trentina nel suo complesso. Chi si occupa di storia deve accordare le proprie convinzioni con la necessità di ricostruire il passato storicamente e apoliticamente, avvicinandosi alla realtà tramite le fonti più diverse, comparandole in un confronto dialettico e facendo emergere i lati oscuri, anche quello che non ci piacerebbe sentire. La storia non dovrebbe essere mai una questione personale. Valentino Chiocchetti è una figura complessa. “Le orme del mio passaggio”, in quanto autobiografia, costituiscono una fonte soggettiva, intrinsecamente limitata. In altre parole, ci può dire quant’era bello militare nell’ASAR, ma non i suoi aspetti critici, le contraddizioni e le problematiche interne al movimento. Il libro di Baratter è esemplificativo di come non si dovrebbe fare storia. Per la prima volta, egli analizza delle carte d’archivio, svela i documenti contenuti presso l’Archivio dell’ASAR di Rovereto. Purtroppo, si ferma qui. Non incrocia queste con altre fonti, la bibliografia è scarna per non dire inesistente. Il riferimento ai giornali dell’epoca è limitato alla sola Autonomia, organo dell’ASAR, e anche in questo caso, scegliendo gli articoli, diciamo, più comodi. Non si citano altre fonti, né giornalistiche, né archivistiche. Insomma, la storia di Baratter non complica di una virgola quegli eventi. Dice poco o nulla su ciò ch’era stata la battaglia dell’autonomia tra XIX e XX secolo, non indaga su fenomeni antecedenti e simili all’ASAR apparsi al termine della prima guerra mondiale. Nel giornale La Fiamma, pubblicato dal 1919, avrebbe potuto trovare alcuni elementi che si ripresentarono poi nel secondo dopoguerra: l’antimeridionalismo, l’ostilità alla burocrazia e, più in generale, all’Italia in quanto nazione. Non abbiamo un ragionamento sull’antifascismo trentino, che si estrinsecò anche in un’avversione verso i nuovi governanti, atteggiamento che gli organi di repressione fascisti etichettarono come austriacante o filo-tedesco. Non si analizza neanche il complesso periodo dell’Alpenvorland. Tutto ciò per dire che, nel libro di Baratter, ritroviamo una rappresentazione illibata dei “genuini trentini”, indefessamente proiettati al raggiungimento dell’autonomia. Battaglia sacrosanta, ma che partiva da lontano. Non abbiamo nemmeno una riflessione su quanta mitologia aleggiasse nel movimento asarino circa il passato asburgico. L’impero, dilaniato dalle lotte nazionali, non concesse mai l’autonomia amministrativa. Le stesse condizioni socio-economiche del Trentino lasciavano a desiderare. Dalle nostre valli, la gente emigrava per non morir di fame. La pellagra, come altre malattie endemiche, infestava paesi e borgate. Nel secondo dopoguerra, la ripresa di sentimenti filo-austriaci non teneva in considerazione il contesto di un’Europa devastata dal conflitto. Era possibile che l’Austria, ritornata alla democrazia ma occupata dagli alleati fino al 1955, potesse rappresentare la soluzione ai problemi della nostra provincia? Sfogliando le pagine di “Storia dell’ASAR” non vi è alcun riflesso su quanto incisero la guerra, il fascismo e soprattutto la crisi identitaria scatenata dall’8 settembre, sulla “colpevole defezione dello Stato” alla difesa dei propri cittadini. Baratter non contestualizza l’esperienza episodica del movimento asarino. Dico episodica perché, a partire dal 1948, quest’associazione, forte di quasi 100.000 iscritti, si sciolse come neve al sole, assorbita in massima parte dalla DC. Certo, anche Baratter non era nato all’epoca e magari questo può avere influito sulla sua ricerca.

Caro sig. Jellici, non solo ho letto gli scritti di Chiocchetti e il saggio di Baratter, ma anche ciò che è stato pubblicato in precedenza. Ad esempio, “Storia dell’ASAR, 1945-1948, e delle radici storiche dell’Autonomia” di Domenico Fedel (1980), opera alla quale Baratter non aggiunge nulla di nuovo. Se però ci basta una rilettura edulcorata e personale di quel periodo, allora il libro di Baratter va benissimo. Però non è storia, o quanto meno è una sua versione parziale. Affermare che anche nell’ASAR s’impose in certi casi il ricorso alla violenza non vuol dire criminalizzare un intero movimento: sentimenti di avversione esplicita all’Italia e ai suoi rappresentanti attraversarono trasversalmente la società trentina a partire dal CLN. La mia ricerca utilizza le carte processuali e le sentenze emesse tra il 1945 e il 1948 dove emergono anche questi sentimenti di ostilità nei confronti dei rappresentanti dello Stato in uniforme, soldati, carabinieri, finanzieri, partigiani... Queste fonti sono state comparate ad altre, alle relazioni degli organismi di P.S., dei CLN, ecc. I risultati della tesi non si pongono come verità inconfutabile, ma credo che abbiano almeno il merito di complicare il traumatico dopoguerra, l’uscita dalle distruzioni materiali e soprattutto morali prodotte da vent’anni di dittatura e da un conflitto in cui la violenza si era scatenata in modo totale.

Se il sig. Jellici avrà la pazienza di aspettare la pubblicazione della mia ricerca, poi potrà giudicarla e criticarla, non però aprioristicamente.

Lorenzo Gardumi