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Il lato oscuro del regime di Rabat

La moglie italiana racconta l’odissea del marito condannato dopo una confessione estorta con la violenza

Jacopo Granci

Seduta in una panchina di via Garibaldi, in un pomeriggio bergamasco, J. racconta la sua storia con pazienza. I passanti non nascondono la loro curiosità di fronte all’hijab azzurro che ricopre i capelli della ventitreenne. Convertita all’islam nel 2005, J.Z. ha fatto il suo ingresso nella Umma musulmana col nome di M.. “Fin da piccola ero attratta da questa religione. Quando avevo 7 anni era venuta a vivere vicino a me, ad Alzano Lombardo, una famiglia maghrebina. Io passavo tanto tempo in casa loro, ero affascinata dall’ospitalità, dai rituali e dalla passione con cui vivevano la loro fede. La mia conversione è avvenuta dopo che ho conosciuto Y., ma non è stato lui a obbligarmi. Era una mia convinzione già prima di incontrarlo. Del resto non mi ha mai costretta a portare il velo e non ha voluto nemmeno insegnarmi a fare la preghiera. Ho dovuto imparare da sola”.

Quella di J. è anche la storia di Y.Z., trentenne marocchino con cui è sposata nel 2007, e del loro figlio A.; è la storia di un’ingiustizia, che da sei anni priva la coppia di una vita normale. Un’ingiustizia di cui le autorità italiane sono responsabili almeno quanto i pari grado di Rabat.

Terrorista con il visto

Y., originario di Casablanca, entra in Italia nel 1997, con regolare permesso di soggiorno. Quando arriva assieme ai suoi fratelli è ancora minorenne. Con la Boxe Bergamo diventa campione italiano di kickboxing e vice-campione mondiale. Una sera del 2003, il ragazzo e J. si conoscono in discoteca. Dopo due anni di fidanzamento, il 3 dicembre 2005 Y. viene prelevato dalla Digos. Per lui è pronto il decreto di espulsione (legge Pisanu), firmato dal ministro dell’Interno, per motivi di sicurezza nazionale: “Un consolidato circuito relazionale con elementi di primo piano dell’integralismo islamico”, è la formula, sempre identica, utilizzata dalla questura per motivare l’allontanamento coatto dal territorio nazionale di un “sospetto”, senza bisogno di ricorrere alla giustizia né garantendo il diritto alla difesa. A Y. non sono contestati reati specifici. La sua colpa? Essere fratello di S.Z., arrestato nel 2002 e condannato a morte in Marocco (che ha aderito alla moratoria della pena capitale) per coinvolgimento in attività terroristiche. La condanna, tuttavia, è avvenuta dopo gli attentati del 16 maggio 2003 a Casablanca, quando S. - attualmente detenuto - si trovava già in carcere.

Quanto successo nel regno alawita dopo il 16 maggio 2003, come testimoniano i rapporti di Amnesty International e di Human Rights Watch, resta una delle pagine più nere che il paese ha conosciuto dalla fine degli “anni di piombo” e dalla morte del re Hassan II. Le autorità hanno iniziato una caccia all’islamista che ha portato a centinaia di sparizioni, torture e arresti arbitrari, trasformati in verdetti decennali.

È questo il quadro che si trova di fronte Y. al momento del rimpatrio. Sceso dall’aereo, viene prelevato dalla polizia e sparisce per due settimane. “Dopo l’espulsione sono partita da Bergamo col primo volo - racconta J. - ma arrivata in Marocco, di lui non c’era traccia. Sua madre e io l’abbiamo cercato in ogni commissariato della città”. È il primo passaggio nel centro di detenzione segreta di Temara (periferia di Rabat), dove la DST (la polizia politica locale) svolge gli interrogatori nel totale disprezzo dei diritti umani e delle norme detentive. La famiglia ha sue notizie solo dopo il trasferimento ufficiale in carcere. Y. resta in prigione dieci mesi (una condanna in primo grado a due anni, ma le accuse di terrorismo non vengono confermate in appello) per falsificazione di documenti. Nessuna prova a suo carico durante il processo. Probabilmente le autorità marocchine hanno voluto mostrare il loro zelo di fronte agli omologhi italiani, secondo cui il giovane Z. rimane un sospetto jihadista, con divieto di ingresso nella penisola per dieci anni.

Uscito dal carcere, Y. si stabilisce con J. a Casablanca. Nel marzo 2007 si sposano al consolato. Nel 2008 nasce Adam. La coppia vuole tornare a vivere in Italia, riparare l’ingiustizia dell’espulsione e cancellare le ombre che hanno stravolto la vita di entrambi. Fanno ricorso alla Corte d’appello di Roma, di cui si attendono ancora gli sviluppi. Dopo il matrimonio Y. può rientrare a Bergamo col visto del consolato, che autorizza il ricongiungimento familiare, ma quando la questura se ne accorge lo cattura con un dispiegamento di forze hollywoodiano e lo espelle di nuovo. Stesso epilogo nel 2008, quando Z. varca ancora la frontiera, indisturbato, per stare vicino alla moglie prima del parto. “Il visto è un errore del consolato”, si giustifica la polizia, per cui resta valido il decreto emesso nel dicembre 2005, anche se il processo in Marocco ha scagionato il giovane anche dalle accuse mossegli nel nostro territorio.

Il secondo arresto in Marocco

Il 19 aprile 2010 Y.Z. sarebbe dovuto comparire di fronte al tribunale di Como per rispondere di violazione della legislazione in materia di immigrazione. “Avevamo già pronti i biglietti e un nuovo permesso temporaneo per assistere all’udienza - riferisce J. - ma pochi giorni prima mio marito è scomparso dalla nostra abitazione di Casablanca”.

Secondo il comunicato dell’associazione Al Karama, che dispone di una vasta documentazione sulle violazioni subite dai detenuti islamici in Marocco, “Y.Z. è stato prelevato da alcuni agenti della DST e condotto, bendato, nel centro di Temara, dove è rimasto per 16 giorni prima di essere trasferito nel commissariato di Maarif” (Casablanca, n.d.r.). A Temara è stato “privato dei suoi vestiti e picchiato selvaggiamente”; stesso trattamento nelle due settimane trascorse nei sotterranei del commissariato. Durante gli interrogatori, oltre alle torture e alle minacce, gli vengono somministrate sostanze stupefacenti. “Se non parli portiamo qui tua moglie e la violentiamo di fronte a te”, così - testimonia J. - si divertivano i suoi aguzzini. “L’incubo è finito solo quando Y. ha accettato di firmare alcuni fogli di cui non conosceva il contenuto. Lo abbiamo scoperto al momento del processo”.

La sentenza di primo grado, pronunciata nell’aprile scorso, mette in relazione Y. con la locale galassia salafita, accusata dal regime di essere dietro agli attentati di Casablanca (e poi di Marrakech). Tuttavia, nessuna inchiesta ufficiale in merito è mai stata resa nota, a fronte degli oltre 2.000 arresti effettuati dal 2003. La condanna a 5 anni fa riferimento ancora una volta alla “falsificazione di un passaporto”, di cui le autorità non hanno fornito né prove né testimoni. Come ricorda l’avvocato della famiglia Z., “il verdetto si è basato sulla presunta confessione di Y.., strappata con la violenza e l’intimidazione durante la permanenza a Temara”.

Dal giorno del processo, per mesi J. non può vedere il marito, in isolamento dal 17 maggio scorso, quando agenti e secondini hanno fatto irruzione nella prigione Zaki a Salé per trasferire i detenuti islamici, che avevano iniziato a denunciare i trattamenti riservatigli dalla polizia politica. “I media ufficiali hanno attribuito la responsabilità dei disordini ai prigionieri, ma alcuni filmati mostrano come lo scambio di violenze sia iniziato dopo l’intervento delle forze anti-sommossa. Per la disparità dei mezzi, per la ferocia con cui gli agenti si sono accaniti contro i detenuti, possiamo dire che si è sfiorato il massacro (35 feriti gravi)”, afferma Rida Benotmane, portavoce della CADI (Coordination des Anciens Detenus Islamistes) e membro dell’AMDH (Association Marocaine des Droits Humains). “L’assedio ai prigionieri disarmati saliti sul tetto del carcere è durato 48 ore; per due giorni gli agenti hanno utilizzato pietre, bastoni, manganelli, gas lacrimogeno ed hanno anche sparato”.

Ramadan “in punizione”

Dopo la “rivolta” i detenuti sono stati trasferiti in altri penitenziari. Di Y. non si è saputo più niente per diverse settimane, fin quando l’avvocato è riuscito a incontrarlo nella prigione di Salé 2. “Alle famiglie è stato negato il diritto di visita per 45 giorni. Una punizione, ma anche una precauzione per occultare i segni delle ritorsioni dei secondini sui loro corpi”, afferma J. che da allora, caduta in depressione, è rientrata a casa, ad Alzano Lombardo, col piccolo A..

Per loro è impossibile entrare in contatto con Y.. Nel carcere speciale di Salé 2 non sono ammesse telefonate. “Da inizio luglio mia suocera può andarlo a trovare una volta a settimana, ma lo scenario in cui avvengono i colloqui di 15 minuti è tremendo”. Una fitta rete metallica la separa dal figlio, con cui non può avere un contatto fisico, mentre due guardie rimangono ferme alle loro spalle. “Mio marito porta addosso ancora i vestiti logori di quel 17 maggio, dal momento che è vietato portargli abiti puliti, e i suoi effetti personali sono stati trafugati. Dorme in una branda di cemento, senza coperte né lenzuola. È dimagrito, la disperazione e la mancanza di una via d’uscita sembrano logorarlo”, prosegue la giovane, mentre fa scorrere tra le dita le foto di Y.. Ritratti di un ragazzo spensierato, allegro, in posa a Parigi vicino alla Tour Eiffel, abbracciato ai compagni della squadra di calcio, al mare in Calabria, a Casablanca nell’appartamento della sorella...

Nemmeno nel mese sacro di Ramadan le misure rigorose adottate dalla Delegazione delle carceri (diretta da Hafid Benhachem, noto come uno dei più fedeli torturatori del regime durante gli “anni di piombo”) si sono attenuate. Y. resta in isolamento; impossibile pregare assieme ai compagni e rompere il digiuno, la sera, in modo comunitario come vuole la tradizione. Non hanno tappeti per recitare la salat, perfino l’ingresso del Corano è stato vietato. “Il pasto è sempre lo stesso, fagioli o lenticchie, tranne quando la famiglia riesce a fargli avere dei cibi cucinati dalla madre la sera prima della visita”, scriveva J. nel suo blog.

A settembre è ritornata in Marocco per il processo d’appello ed è finalmente riuscita a ottenere di poter visitare il marito. Ma la sentenza, nel clima teso seguito all’attentato al Café Argana dello scorso aprile, che ha provocato la ripresa della crociata contro il terrorismo, è stata dura: quattro anni di carcere.

“Mi trovo ancora in Marocco - scriveva scoraggiata J. all’indomani della condanna - e al momento non riesco a trovare le parole per raccontarvi il senso di ingiustizia che ci circonda. Io e A. torneremo presto in Italia. Inshallah, non dimenticate la nostra famiglia nelle vostre preghiere."

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