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Perché Emilio è caduto

Adriana Folgheraiter
Emilio Paternoster

La mattina del 4 ottobre un tecnico dipendente della Provincia di Trento di 55 anni che si trovava in missione sul Monte Pavone, a 1.770 metri di quota, è morto dopo essere scivolato per quasi 200 metri in un profondo burrone. Quel tecnico si chiamava Emilio Paternoster, era un mio vicino di casa oltre che un collega, una persona che mi dava serenità, con cui mi fermavo volentieri a chiacchierare. Ultimamente però lo vedevo poco, e, quando capitava, mi sembrava sempre più svuotato e stanco. Dopo la sua morte ho ripensato alle volte in cui, facendo un po’ i misteriosi e sempre mantenendoci sul vago, abbiamo parlato del nostro lavoro, e alla sera in cui, commentando la riforma delle pensioni appena approvata, si era lasciato andare ad uno sfogo: sembrava che il suo lavoro gli pesasse da morire. Solo ora capisco il suo disagio; leggendo la cronaca della sua morte sui giornali mi sono immedesimata in lui e ho provato una gran pena. Ho scoperto infatti che Emilio era da tempo impegnato nell’attività di “tracciamento dei confini tra il Veneto e il Trentino”. La mattina in cui è morto era stato prelevato all’alba, insieme a tre colleghi, da un elicottero della Provincia e “depositato in quota”, le cronache dicono proprio così, mentre dall’ufficio seguivano la sua impresa collegati in diretta audio, cosa che deve avergli dato la sensazione di stare partecipando al gioco del Grande Fratello o a una simulazione dello sbarco sulla Luna. Fare un lavoro che sembra un gioco è il sogno di tutti, ma temo che per Emilio guadagnarsi da vivere in quel modo fosse diventato un incubo. Si, perché “il progetto di rilevazione dei confini andava avanti ormai da sette anni. Il tecnico aveva fatto centinaia di uscite del genere”. Sette anni di vita passati, tra il 2005 e il 2012, a rilevare i confini tra la Provincia di Trento e la Provincia di Belluno, centinaia di uscite del genere a cui ne sarebbero seguite altre centinaia, fino alla fine della sua vita lavorativa, che quella mattina del 4 ottobre, mentre col peso dei suoi 55 anni sulle spalle procedeva per ultimo in fila indiana sull’orlo di un precipizio, doveva essergli sembrata drammaticamente lontana.

Sulla sua morte è stata aperta un’inchiesta, ma pare che, grazie alla testimonianza dei colleghi, le cause che si andavano cercando siano già state trovate, e senza neanche doversi sbattere tanto, dato che stavano tutte lì, in lui, nello “sfortunato tecnico”, e nella sua personalità. Era infatti uno che aveva una già ampiamente manifestata tendenza a cadere (“Altre volte eri caduto e ti eri fatto male, ma ti sei sempre rialzato”), e poi - spiegazione ritenuta dirimente - era anche un fotoamatore, ovvero uno che, quando si trovava a camminare per motivi di lavoro su sentieri pericolosi, non pensava a quello che stava facendo e a dove metteva i piedi, ma solo a guardarsi attorno alla ricerca di qualche bella immagine da immortalare, cosa che deve avere sicuramente fatto anche quella mattina.

Viviamo sfortunatamente in un’epoca in cui le persone di buonsenso e perbene sembrano essere ormai finite tutte, come Emilio, sul fondo di un precipizio. Ciononostante, io continuerò a coltivare una certezza e qualche speranza. La certezza è che la Provincia, pur con grande dispendio di mezzi e magari al costo del sacrificio di qualche altra vita umana, riuscirà, un giorno, a completare l’opera di tracciamento dei confini tra il Veneto e il Trentino. Solo una speranza è invece che, quando quel giorno arriverà, l’Italia sia ancora in piedi ed unita: i confini non saranno serviti a niente, ma resteranno per sempre scolpiti nei nostri gps e ne sarà valsa comunque la pena. L’altra speranza, purtroppo più flebile ma molto più grande, è che l’inchiesta sull’infortunio sul lavoro che ha ucciso Emilio Paternoster venga portata avanti con intelligenza, coraggio (soprattutto) e professionalità, e che accerti anche se al momento della sua altrimenti inspiegabile caduta non si trovasse per caso in uno stato di prostrazione psico-fisica determinato da quel fattore morbigeno che tecnicamente viene definito “disfunzionalità (o costrittività) organizzativa”: assegnazione di mansioni disagiate, di compiti fittizi, ripetizione ossessiva della medesima inutile attività, denigrazioni, uso esasperante della funzione disciplinare, queste solo alcune delle figure sintomatiche in cui esso si concretizza. Tutte cose che, lo so, potrebbero sembrare scherzi, e gli scherzi, anche quando hanno il gusto sadico e maligno dell’abuso di potere, vanno bene, però finché uno ha la forza di riderci sopra, e invece ora Emilio non ride più, forse non lo faceva più da tempo, e la sua morte, almeno quella, non è uno scherzo.

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