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QT n. 1, gennaio 2014 Seconda cover

Maschi violenti

Un’indagine fra gli uomini trentini per capire come percepiscono la violenza sulle donne. Uomini sospesi fra retaggi culturali e voglia di una nuova mascolinità.

Un bell’uomo sulla quarantina sonnecchia con aria paciosa. Distinti signori brizzolati in tenuta bancaria parlano delle loro turbolenze aziendali. Sul corridoio un crocchio di giovani ammazza il tempo su You Tube facendo baccano. Il mio torpore è rotto dal dondolio del treno e da una domanda che mi balza in testa: chi fra questi maschi potrebbe alzare le mani appena varca la soglia di casa? Perché l’uomo manesco non è l’orco che occupa nella nostra casella mentale il posto di un alieno, ma nel 76% dei casi è chi ci sta accanto: mariti, fidanzati, amanti.

Tutte le notizie sui femminicidi hanno i fari puntati sulle donne “vittime”. Mi chiedo come mai gli attori della scena rimangano invece sullo sfondo. Eppure il gesto violento non è un’emergenza femminile, ma una faccenda che riguarda in primo piano gli uomini. Da qui voglio partire con la mia inchiesta. Un piccolo viaggio nel mondo del sesso forte trentino, di diversa età ed estrazione sociale, per capire cosa fluttua nell’immaginario dell’uomo comune. Per scovare i significati che attribuisce alla violenza, setacciando il brodo di cultura ove questa potrebbe attecchire.

Violento chi?

“Quelli sono bestie e come tali vanno puniti!”- grida Mauro, un corpulento dirigente quarantenne, con tutta la voce che ha in gola. Ho la percezione che l’indagine si riveli più impervia del previsto. Molti rispondono con frasi confezionate o col telefono muto. Altri vogliono chiarire da che parte stanno: “Quelli” sono altro da sé. Magari alcolizzati, drogati o pazzi. Alzano muri al pensiero che io possa appiccicargli l’etichetta di maschio manesco. Alcuni, memori delle teorie fisiognomiche di Cesare Lombroso, temono che io abbia letto nelle loro facce il Dna del violento. Solo con le mie rassicurazioni l’intervista prende un’altra piega.

Fiuto un clima surriscaldato con un gruppo di mezza età e le voci si accavallano per condannare ogni azione violenta contro le donne. “Non c’è nessuna scusante. - esordisce Andrea, uno spigliato commercialista, con voce tonante - Se iniziamo ad accettare la minima violenza, poi non c’è freno. Non si può dire l’occhio nero va bene, la coltellata no!”. Eppure, man mano che l’aria si fa confidenziale, magari senza la soggezione di un microfono, colgo un sottilissimo confine fra un gesto controllato e quello che deraglia. Fra emozioni equilibrate e incanalate, perché si è imparato a gestirle, e quelle che potrebbero esplodere. “Violenti siamo un po’ tutti - continua Andrea - e mi metto dentro anch’io, nel senso che riusciamo a fare male alla nostra partner ed anche a riceverlo. Certo questo succede quando scoppiano le cose. Il gesto violento, fisico o psichico, è quello che ti fa cambiare dentro, perché colpisce nell’intimo. Prima ci sono i battibecchi e le offese. Il gesto violento, invece, muta il rapporto con lei e non sarai più quello di prima. Penso che all’inizio non sia un’azione volontaria, uno dice non voglio usare violenza, ma se me la tiri fuori dalle mani, allora ti picchio. Certo, sembra inaccettabile, ma bisognerebbe capire cosa c’è dietro, senza condannare la persona. Perché c’è tanta frustrazione, fragilità e debolezza maschile, ma anche femminile”.

C’è un’arma, a parere di molti uomini, che la donna non ha nelle mani ma nella testa, e che guardano con un certo timore: la violenza psicologica. Un’arma, a loro dire, sottile e invisibile, che non sanno gestire perché non riescono a leggerne i confini. Un’arma che per molti, soprattutto i giovani, non legittima un gesto violento, ma che per qualche uomo maturo lo rende più accettabile, e trasforma il conflitto in una lotta ad armi pari. Come per Mirko, un funzionario cinquantenne dai modi spicci: “Le donne a volte sanno essere perfide e ti stendono con due parole. Questa violenza fa altrettanto male, ma ovviamente non fa notizia. È una violenza più subdola, che non lascia segni fisici, ma può scatenare le reazioni impulsive del maschio, che sono comprensibili”.

E c’è chi a mezza bocca prova a tracciare gli equilibri di potere che potrebbero crearsi in una coppia. Un gioco di ruoli fra maschio dominante e donna sottomessa, che accetta con complicità il suo posto. Gianni, un artigiano quarantenne dall’aria grintosa, ha elaborato una sua teoria: “Non escludo che certe donne, magari inconsciamente, accettino la violenza del marito. Si sentono deboli e un marito fisicamente forte gli dà stabilità. Ok, le prendo, ma ho un partner che mi rassicura. Quindi finiscono per giustificarlo”.

Tabù

Qualcosa non gira quando pronuncio la parola “violenza sessuale”. È come se gli uomini non volessero sentirla. Nessuno menziona lo stupro. Preferiscono glissare. Decido quindi di sondare il tema a microfoni spenti. Eppure è proprio intorno a questa parola che colgo un vortice di emozioni: la voglia dei maschi di mettersi dall’altra parte della barricata, per essere vicini a quello che una donna prova in un gesto così brutale che macchia il genere maschile. Le altre violenze rimangono sullo sfondo di fronte a un atto che va condannato senza appello e che molti non riescono a spiegare o hanno rimosso.

Un senso di smarrimento misto a rabbia che Matteo, un impiegato trentenne dal viso bonario, esprime chiaramente prendendo le distanze: “Il sesso è una cosa bella e non posso pensarlo fatto a colpi di botte. Capisco le paure di una donna che deve evitare certi luoghi o non vestirsi in un certo modo, anche se non vuole istigare nessuno. Un uomo stupra perché vuole comandare e svilire la femmina, ma è senz’altro un perverso con delle turbe psichiche. Magari perché non soddisfa gli istinti animaleschi a casa. Molto spesso sono extracomunitari, perché nella loro cultura la donna è come un oggetto da usare, senza rispetto”.

Voragini

C’è un vuoto di parole, un terreno friabile su cui gli uomini faticano a camminare. Un alfabeto emotivo che molti non hanno imparato perché gli hanno dato poco peso. Proprio quello che mi dice Piero, manager quarantenne con piglio autorevole ed eleganza impeccabile: il suo chiodo fisso è far marciare a gonfie vele i bilanci delle aziende, mica può perdere tempo a filosofare sulla grammatica dell’amore. Eppure è proprio a questo vuoto che molti uomini si aggrappano come salvagente per giustificare i perché della violenza. Guardano con un po’ d’invidia alla capacità comunicativa delle donne che è scritta nel loro Dna. E se non trovi le parole per dirlo, per buttare fuori quello che hai dentro, può succedere di alzare le mani come scorciatoia. Una scorciatoia che i più bollano come debolezza facendo uscire questa parola sottovoce. “Penso - chiarisce Pino, un commerciante quarantenne dall’aria giovanile - che se io non sono attrezzato con strumenti verbali per cambiarti e non ho la possibilità di confidarmi con qualcuno, allora ricorro alla forza che fa parte della nostra natura, così tu fai come dico io e basta”.

Una supremazia fisica che molti uomini rigettano come una seconda pelle che gli sta stretta, perché hanno lavorato su di sé, perché stanno male dentro quel cliché. Come Marco, un giornalista sulla sessantina dalla voce calda, con la testa di un trentenne: “Questa cosa la sento dentro come un limite, non come un orgoglio. Un elemento sicuramente negativo dell’essere maschile. Certo nel corso di migliaia di anni la difesa del territorio, la guerra, la caccia, sono state svolte dai maschi grazie ad un fattore di aggressività. Non so se sia nel suo Dna biologico, ma certo è un fatto culturale, che va cambiato per il bene di tutti”.

Avverto un vuoto palpabile nel fluire dei racconti. C’è voglia, specie tra i giovani, di sentirsi maschi in modo diverso, facendo a pezzi tutti i modelli di virilità che la società gli ha appioppato col mito dell’uomo dominante, assatanato di sesso e in cerca di prede. Alla ricerca di quella parte femminile che ognuno ha dentro, ma che fatica a uscire. Sono gli uomini maturi ad arrancare di più, perché conservano frammenti dei propri padri patriarcali che facevano sentire la loro forza su mogli pazienti e devote. Uomini che hanno metabolizzato quelli che loro stessi definiscono “ruoli sbagliati”. “Io non voglio usare violenza contro mia moglie - esordisce Antonio, un operaio cinquantenne - e mi controllo per non oltrepassare il confine, perché lei a volte con la lingua mi taglia in due. Mio padre ogni tanto era manesco con mia madre, insomma le faceva capire chi comandava. E non aveva mica il problema della bottiglia. Io questa rabbia cerco di soffocarla... certo uno schiaffo mi è scappato”.

Solitudine

Ho girato pagine e pagine di saggi sul tema, con numerose storie di donne violate in tutti i modi. Con cicatrici profonde e indelebili. Donne sole o protette da una rete affettiva. Pavide o coraggiose. Fragili o forti. Storie che ti portano a chiederti, come nel titolo del bel libro di Riccardo Iacona, “Se questi sono gli uomini”. Ora mi ritrovo ad ascoltare le ragioni del sesso forte, che mi traghetta su un’altra sponda, quella del disagio maschile. Un disagio soffocato, che esce poco a poco. Una solitudine data dalla paura di mettersi a nudo. Lo esprime in modo eloquente Gino, un impiegato quarantenne dallo sguardo severo: “Si parla solo della solitudine della donna, ma l’uomo si trova molto più solo e indifeso. Lei riesce a crearsi molti più supporti femminili, anche in caso di separazione. L’uomo invece va a star solo con i suoi problemi e se li tiene. Finisce per chiudersi in se stesso e questo può sfociare nella violenza fisica. Questa la vedi. Ma se io dicessi che lei mi fa violenza psicologica verrei deriso e basta. Come fai a confidarti? Per un uomo non è bello mostrarsi debole. Per la donna è accettabile”.

Percepisco in questi uomini la voglia di uscire dall’ombra, di fare rete e confrontarsi con altri maschi. Un desiderio ben tradotto dai gruppi di autocoscienza, come “Maschile Plurale”, che stanno facendo capolino in varie parti d’Italia, per esprimere un’identità maschile diversa e lontana dagli stereotipi.

Sono rari gli uomini che invocano solo leggi restrittive o forze dell’ordine per contrastare il problema della violenza. Ossia quelli che hanno scavato meno dentro di sé per comprendersi. Gli altri lasciano ai margini le sirene spiegate, perché sanno che la causa è nascosta dentro di loro. “Io - continua Gino - vorrei abolire quelle notizie dannose sui media che ci fanno credere che è solo un raptus. Vorrei avere più rapporti di qualità, anche con altri maschi. Se ti confronti, qualcuno potrebbe far luce sul gesto violento, così potresti almeno vergognarti. C’è bisogno di associazioni proprio per discutere di queste cose, perché per noi è difficile parlarne”.

Modelli

Mentre lavoro all’inchiesta allungo gli occhi su un quotidiano nazionale. Una scritta campeggia nella pubblicità di un gorgonzola: “Dimentica tua moglie al supermercato”. Tradotto: lasciala lì come una cosa fra tante altre cose. Lo so, direte voi, è solo una pubblicità. Poi però se aggiungiamo le ragazze in vetrina “mute” della tv e le giovani senza talento, arruolate in politica al motto “Sii bella e stai zitta”, vien da chiedersi se ci sia un filo che lega tutto ciò alle violenze. Un filo che la maggioranza degli uomini del nostro sondaggio sa ben tracciare. Perché un corpo di donna mercificato si fa oggetto. E un oggetto lo puoi sentire tuo. Un concetto che Mauro esprime in modo crudo ma efficace: “Se basta che la donna abbia un bel culo e la vivi come una cosa, da ciò nasce il possesso. E se un uomo paragona la moglie ad una cosa, come può essere una macchina o la casa, piuttosto di lasciarsela portar via la brucia”.

Sono soprattutto i maschi giovani a denunciare lo svilimento di questi corpi, come Luca, un simpatico universitario ventenne che ha tutt’altra idea di donna in testa: “Sono cresciuto con modelli educativi paritari e mi dà fastidio quando gli amici fanno battute pesanti sulle donne. Forse perché in ogni donna rivedo quelle che amo in famiglia. L’immagine proposta dalla società danneggia tutta la sfera sessuale e il rapporto con l’altro sesso in modo malato”.

Non è solo il modello della donna oggetto che può scatenare la scintilla della violenza. Secondo il parere di qualche uomo maturo, anche la donna libera dai laccioli della tradizione, che mette una croce sul ruolo di angelo del focolare, potrebbe essere un detonatore. L’uomo allora scricchiola, perché è in bilico tra modelli femminili vecchi e nuovi. Ma il nuovo non è ancora metabolizzato. Andrea lo dice con una punta di vergogna: “Anche oggi molti uomini cercano nella moglie la propria madre, perché non sono cresciuti interiormente. Le donne invece fanno più esperienze di vita, soffrono di più, sono emancipate. Io fatico ad accettare la sua libertà, con i suoi mille impegni fuori casa. Mi destabilizza un po’. Viceversa la routine può dar fastidio, ma è rassicurante. Tu hai nella testa il modello di donna e uomo liberi, poi in concreto vuoi la famiglia tradizionale”.

Appena chiudo il taccuino dell’ultima intervista, mi ronza in testa una frase scritta da Michele Serra in un suo editoriale: “Come è noiosa l’idea della femmina addomesticata e possibilmente domestica. Com’è migliore - più vario, più stimolante, più luminoso - il confronto con una tua pari, che ha vita da raccontarti, che ti fronteggia, che oltre ad ascoltarti ti parla, e sei tu che l’ascolti”. Sarei molto curiosa di sapere, con un’indagine ad ampio raggio, quanti uomini riflettendo su questa frase cliccherebbero “Mi piace”.

Quando l’uomo violento va in cura

Daniele Vasari

Un poster alla parete mostra una donna rannicchiata, con un uomo sullo sfondo. Una frase mi rimbomba nitida: “Qui abbiamo i vetri antiproiettile!”. Immagini dal centro antiviolenza di Trento, che varcai parecchi anni fa per un’altra inchiesta. Oggi, proprio grazie a questi centri, si è spostato lo sguardo sul maschio da curare.

Franco, un cinquantenne separato con un buon lavoro, ha deciso di mettersi in discussione, iniziando un percorso di rieducazione con il progetto “Lato oscuro” del centro White Dove di Genova. “Non ho mai tollerato ingiustizie o angherie, - spiega Franco - eppure sono un maschio violento. Ho una biografia difficile dove la violenza non è mancata. Ho introiettato modelli sbagliati, iniziando da mio padre che alzava le mani, poi il mio insegnante piuttosto manesco, infine ho subìto qualche abuso da ragazzi più maturi di me”.

Pure Livio, un giovane impiegato, padre di un bimbo piccolo, frequenta il centro da parecchi mesi. Anche la sua storia si riannoda a trascorsi educativi difficili. “Ho sempre avuto un carattere irascibile, - chiarisce Livio - ma non la vedevo come una cosa negativa, perché in famiglia le mani si alzavano senza problemi. Durante i conflitti con mia moglie io urlavo e lei, invece di star zitta, reagiva. Così per farla tacere ho iniziato a sfogarmi fisicamente spaccando ogni oggetto che mi capitava fra le mani”.

Livio e Franco, dopo aver toccato il fondo, hanno capito che la violenza rovina anche la loro persona. Ma sono ancora pochi gli uomini che approdano a questi centri d’aiuto.

“Il mio sogno è vedere molte case ove i maschi possano curarsi. Oggi è la donna che abbandona il tetto perché il marito la picchia. Se cominciasse lui a sentire il vuoto degli affetti affronterebbe prima il problema”. Così esordisce Daniele Vasari, psicoterapeuta e coordinatore del Centro Trattamento Maltrattanti di Forlì. Ho bussato alla sua porta per capire cosa ribolle in questi servizi di cura che stanno germogliando in varie regioni italiane del centro nord.

Quanto è labile il confine tra l’uomo violento e non violento?

“Centri di questo tipo in America sono stati fondati fin dagli anni 70, grazie ai movimenti femministi. Nei paesi nord europei c’è una legge che obbliga l’uomo a questi trattamenti. Qui il problema per molto tempo non l’abbiamo sentito per i nostri retaggi culturali. Manca chiarezza sulla definizione di gesto violento. Altrove lo schiaffo alla moglie o al bimbo è visto come aggressione. Da noi c’è più accettazione. Il padre nella cultura latina aveva il diritto di picchiare moglie e figli a scopo educativo e questo concetto permane tuttora. In Italia non abbiamo lavorato sulla cultura di genere e il femminicidio è attribuito al disoccupato o all’uomo che uccide perché amava troppo. Così il maschio prende le distanze da questa realtà. Alcune ricerche dicono che l’Italia ha numeri contenuti nella violenza rispetto ad altri paesi; io penso invece che si sia denunciato meno. Si pensi che il delitto d’onore fu abrogato solo nell’81. La violenza comunque non ha solo radici culturali, ma tante sfaccettature. Subentrano l’intolleranza alla frustrazione, l’incapacità di raggiungere un successo personale, il controllo dell’altro per raggiungere sicurezze interne. Nei giovani colgo spesso il senso del possesso: ‘Mia o di nessun altro’”.

Come si cura un uomo violento e quali sentimenti affiorano?

“Non dobbiamo considerare l’uomo violento come patologico, altrimenti questi centri non avrebbero motivo di esistere. La violenza è un atteggiamento sbagliato da modificare. C’è chi approda qui per curiosità, altri spinti dalla moglie o dall’avvocato. Alcuni arrivano al culmine della disperazione con un senso di colpa e lasciano dopo poche sedute, quando vedono che la compagna riprende la quotidianità. Quelli che arrivano volontariamente sono motivati e sanno definire la violenza. Chi invece arriva dal carcere solitamente non vuole impegnarsi, vedendo nella prigione l’espiazione della colpa. Spesso il senso di vergogna porta gli uomini a chiudersi, alcuni chiamano quando si rendono conto che il matrimonio è naufragato. Io lavoro sulla gestione delle loro emozioni. Quello che stai facendo non è colpa della moglie, sei tu che non riesci a gestire la rabbia, la frustrazione, i fallimenti. La responsabilità del gesto è fondamentale. Una frase che spesso gli uomini dicono è: ‘Non so quello che mi succede, mi si è spenta la luce’. Magari quel gesto l’hanno sempre fatto, ma iniziano a pensare che non sia più giusto, perché sentono che prende il sopravvento. Io chiedo ai pazienti cosa provano dopo la violenza, di rivedere il loro volto e quello della compagna. E in lei vedono la paura”.

I dati del Centro anti violenza di Trento in 10 anni di attività

I numeri

  • 1.418 casi denunciati
  • 6.800 colloqui

Autori della violenza

  • 1.276 (90%) i partner
  • 482 ex partner

Tipo di violenza

  • 1.149 aggressioni fisiche o sessuali

Luogo delle violenze

  • Per lo più nel capoluogo

Età delle donne che subiscono violenza

  • Nella stragrande maggioranza tra i 30 e i 50 anni

Professione

  • 32% impiegate
  • 15% operaie
  • 19% diplomate o laureate

Caratteristiche dei violentatori

  • Nel 97% dei casi non sono alcolisti, né drogati, né soffrono di disagio psichico

Scolarità dei violentatori

  • 60% diplomati o laureati

Posizione lavorativa dei violentatori

  • 70% ha un reddito da lavoro stabile o pensione
  • 5% ha un lavoro precario o nero
  • 15% sono disoccupati
  • 38% sono operai

Ricerca di aiuto da parte delle donne

  • 69% non va al pronto soccorso
  • 72% non denuncia il partner