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QT n. 10, ottobre 2015 Servizi

Cronaca di una morte annunciata

Ariston di Rovereto (già Radi, già Rheem, già Merloni): dai 600 dipendenti dei tempi d’oro ai 33 di oggi. In attesa della chiusura...

Michele Berti

Sembrava ormai cosa fatta il passaggio dello stabilimento Ariston Thermo Group (Ex Merloni) alla New.Co messa in piedi dai fratelli Luppi (fornitori del gruppo Ariston) con la partecipazione al 19% della stessa Ariston. Per la Provincia e il suo ufficio stampa, una trattativa conclusa in modo brillante, per i lavoratori un futuro di mobilità, tagli salariali e di Jobs Act, per il gruppo Ariston un modo per uscire di scena in silenzio, con il minimo di danni sociali e senza rimetterci un quattrino; per i fratelli Luppi una scommessa, rivelatasi azzardata vista la loro striminzita dimensione aziendale.

Poi il flop del progetto, forse da imputare alla scarsa affidabilità finanziaria dei Luppi, ha portato al ritiro delle domande di mobilità e lasciato 45 operai nell’incertezza. Certo, si dirà, hanno ancora un salario, ma per salvare il reddito si finisce, in questo come in altri casi, con la completa destrutturazione di un’idea di lavoro facendo diventare inevitabili consuetudini la precarietà, la pressione salariale al ribasso e soprattutto l’offesa alla dignità dei lavoratori, costretti ad accettare ogni istanza aziendale come inappellabile, ossia definitiva ed irreversibile.

È doveroso allora scriverla la storia di questa realtà industriale, emblematica per le sfide mancate, le responsabilità delle istituzioni e le dinamiche tra PAT, sindacati, lavoratori e multinazionali, dinamiche in cui queste ultime riescono, nei fatti, ad usufruire di fondi senza nessun vincolo veramente stringente.

L’insediamento di Rovereto nasce durante la seconda guerra mondiale per merito del sig. Radi, un industriale rivano che costruisce pezzi meccanici per siluri e sommergibili e che nel dopoguerra trasferisce la produzione a Rovereto convertendola da bellica a civile mettendosi a produrre scaldabagno ad accumulo (l’acqua viene mantenuta calda nella caldaia).

Nel 1975 lo stabilimento Radi viene assorbito dalla multinazionale americana Rheem, leader mondiale del settore termosanitario e tra il 1975 e il 1977 lo stabilimento roveretano arriva ad impiegare 497 dipendenti in produzione, 100 impiegati, 8 dirigenti e quasi 100 unità stimate di indotto in Vallagarina. Poi, nei primi anni ‘90, la comparsa delle caldaie istantanee (che riscaldano l’acqua al momento dell’utilizzo) rende quelle ad accumulo obsolete nel mercato occidentale, anche se proseguono le esportazioni di caldaie nei mercati meno avanzati. A seguito della decisione di Rheem di non investire più in Italia negli insediamenti di Melzo (Milano) e Rovereto, le quote vengono messe in vendita e rilevate nel 1985 da Merloni TermoSanitari Group, che con questa operazione assorbe un’azienda concorrente e amplia la sua gamma commerciale.

Il Consiglio di fabbrica già nel lontano 1995 intraprende una trattativa con la proprietà MTS richiedendo nuovi investimenti, un nuovo stabilimento ed una più innovativa politica industriale che preveda la diversificazione su prodotti tecnologicamente più avanzati quali il solare termico. La trattativa non va in porto a causa della scelta da parte del gruppo di investire nei paesi emergenti come Cina e Russia, relegando lo stabilimento di Rovereto alla produzione di scaldabagno ormai superati.

Nella storia di questa azienda, il sindacato e il Consiglio di fabbrica sono sempre stati attivi e presenti in ogni scelta gestionale, tanto che molte volte sono stati presi come riferimento per altri contesti di lotta sindacale. (vedi il primo contratto di solidarietà, applicato all’interno dello stabilimento Rheem già nel 1980, o i compromessi tra sindacato e dirigenza per gestire i picchi di produzione). Ma questo, di fronte alla scelta di una multinazionale di delocalizzare, non basterà.

Così nel 2001 Merloni annuncia un grosso piano di ristrutturazione aziendale, scongiurato solo da un improvviso aumento della domanda da parte dei mercati asiatici.

Nel 2005 la produzione di scaldabagno elettrici (300.000 all’anno) viene spostata in Cina e in Russia, una delocalizzazione più conveniente in termini di costi di produzione e di commercializzazione. A Rovereto rimane solo la produzione degli scaldabagno da accumulo a gas (70.000 all’anno) e gli organici passano da 250 unità a 110. Il sindacato valuta in un milione di euro la cifra che la Merloni è tenuta ad impegnare per la transizione, come dalle parole di Sandro Giordani, già delegato FIOM: “Questa è una questione fondamentale, non può passare il principio che i padroni possono scaricare gli esuberi sull´ente pubblico. Non si può accettare che si privatizzino gli utili e si socializzino le perdite. Il gruppo Merloni è un gruppo in attivo. È una multinazionale italiana con 22 stabilimenti nel mondo”.

A fine 2007 sembra avviata una svolta positiva: l’azienda mette in produzione un nuovo boiler ad energia solare e l’organico si riattesta sulle 140 unità. La cosa dura per 5 anni: nel 2012 la Merloni Group, nel frattempo ribattezzata Ariston Thermo Group, trasferisce altrove definitivamente tutta la produzione di scaldabagno elettrici e pure quella del nuovo scaldabagno ad energia solare, lasciando nello stabilimento roveretano solo 90 lavoratori impiegati ad orario ridotto in base al contratto di solidarietà. Il contributo straordinario per progetti di riorganizzazione aziendale finalizzati alla stabilizzazione dei livelli occupazionali (il famoso fondo Olivi), di cui l’Ariston Thermo Group ha beneficiato nel 2009, non è riuscito a consolidare l’occupazione oltre i due anni previsti. Insomma, il colosso multinazionale che nel 2012 impiega 18 siti produttivi ubicati in 10 nazioni e conta 6.400 dipendenti in oltre 150 paesi del mondo con un fatturato nel 2011 di circa 1,25 miliardi di euro, va avanti per la sua strada.

La fine arriva gradualmente: tra il 2013 e il 2014 si passa da 90 a 45 dipendenti. E nel 2015 Ariston comunica che a Rovereto non ci vuole più stare: avvia le trattative per la creazione di una new.co partecipata al 19% dalla multinazionale, che dovrebbe andare a gestire la lavorazione e il trattamento di soli semilavorati o, come ottimisticamente proclama Olivi, “una new.co che darà vita ad un nuovo sito produttivo... all’insegna dell’innovazione tecnologica e del rilancio della competitività delle produzioni realizzate in Trentino”.

Ma nonostante la disponibilità a tagli salariali per 6.000 euro a lavoratore, la soppressione del servizio mensa e il previsto investimento di 150.000 euro di Trentino Sviluppo a sostegno del nuovo investimento, la new.co, come dicevamo in apertura, non parte. Ariston ritira la domanda di mobilità per i 33 lavoratori rimasti (6 intanto hanno raggiunto il prepensionamento), che continuano quindi a lavorare in via Manzoni, non si sa come e per quanto tempo.