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QT n. 4, aprile 2016 Servizi

Trivelle: possiamo farne a meno?

In arrivo il referendum. Su cosa voteremo? Gli argomenti del sì e del no.

Valentina Lovato

Come ormai anche i più distratti sapranno, il prossimo 17 aprile si voterà sulle trivelle; o meglio, si voterà per decidere se abrogare o no una parte della legge che riguarda le piattaforme di estrazione già esistenti e operative. Non si parla quindi di interruzione di attività in atto, ma della durata delle concessioni per l’estrazione di gas e petrolio.

Attualmente le concessioni di tali stabilimenti prevedono una durata di sfruttamento delle risorse riconducibile alla somma di successive concessioni rispettivamente di 30, 10, 5, e ancora 5 anni; al termine dei 50 anni totali, la concessione può essere prolungata in modo indeterminato fino all’esaurimento del giacimento. Alla fine di ogni ciclo le piattaforme vengono sottoposte a una valutazione dell’impatto ambientale (VIA), determinante per confermare l’autorizzazione a continuare. Il referendum riguarda i 21 stabilimenti già attivi entro le acque nazionali, distribuiti lungo tutto l’Adriatico (dal più settentrionale, in Veneto, di fronte al delta del Po, fino a quelli situati nel canale di Sicilia); il quesito non riguarda quindi le attività petrolifere in terraferma né quelle in mare oltre le 12 miglia (22,2 km), cioè in acque internazionali; e compiere nuove trivellazioni è già proibito dal comma 17 del decreto legislativo n. 152.

Per la prima volta il referendum non è stato indetto in seguito ad una mobilitazione popolare e ad una raccolta di firme, ma è stato voluto da nove regioni italiane: Basilicata, Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna e Veneto, tutte regioni bagnate dal mare, che sostengono l’impossibile convivenza tra sviluppo turistico, tutela ambientale e sfruttamento marino dei giacimenti di idrocarburi. Alcuni dicono che sia una presa di posizione delle autorità regionali per rivendicare il proprio potere territoriale; un appello, dunque, privo di una forte base di sostegno popolare, ma proposto dalle istituzioni. C’è forse da chiedersi con quali strumenti di conoscenza e consapevolezza ci si approcceranno i cittadini, soprattutto perché, a prima vista, potrebbe sembrare un quesito semplice che si rivolge alla sensibilità delle persone, più che alla loro razionalità.

È significativo notare che sia il governo, sia il Partito Democratico hanno invitato la cittadinanza a non andare a votare, apportando motivazioni per lo più venali riguardanti il costo del referendum. Anziché formare e informare i cittadini affinché il voto sia davvero espressione di una scelta maggioritaria ma condivisa, la politica si adopera per non far raggiungere il quorum.

Per comprendere il vero significato del referendum è necessario quindi soffermarsi sulla portata che potrebbe avere la vittoria del “sì”: gli stessi sostenitori dell’abrogazione ammettono la natura fondamentalmente politica di questo voto, che non andrebbe a bloccare nell’immediato l’attività di estrazione (in accordo con le concessioni determinate dalla legge, gli ultimi impianti a terminare la loro attività chiuderanno fra 15-20 anni), ma darebbe al governo un forte segnale riguardo la gestione della politica energetica; una presa di distanza rispetto a uno sviluppo non più sostenibile, che però non si traduce nella proposta concreta di un nuovo modello, perché per sua natura il referendum è uno strumento abrogativo e non propositivo.

I rischi

Le tesi dei sostenitori del “sì” si sviluppano attraverso alcuni macro argomenti.

In primo luogo, gli attuali e i potenziali rischi ambientali: i primi causati quotidianamente dagli effetti della ricerca e perforazione (air gun, subsidenza, fracking), e dai gravi livelli di contaminazione del suolo e dell’acqua, a volte ben oltre i limiti previsti dalla legge. I secondi rappresentati dalla costante ombra minacciosa di un incidente o di una fuoriuscita di materia prima: in mari chiusi come quelli italiani le ripercussioni per la flora e la fauna marine sarebbero catastrofiche. Greenpeace segnala anche la scarsa trasparenza del Ministero nel fornire la documentazione necessaria per effettuare un’analisi completa e denuncia la dipendenza economica dell’ente che ha condotto i monitoraggi, l’ISPRA, dal suo committente, l’ENI.

In secondo luogo, la deturpazione del paesaggio e il conseguente danno a uno dei settori economici più forti in Italia, il turismo.

In terzo luogo, la piccola percentuale con cui le risorse estratte in acque italiane contribuiscono al fabbisogno nazionale (il 3% per quanto riguarda il gas, e l’1% per il petrolio), cifre troppo basse per rendere accettabile il bilancio rischio-beneficio.

Assumiamoci le nostre responsabilità

I sostenitori del “no” conducono un approccio forse più razionale, rapportando i rischi d’impatto ambientale al margine di guadagno consentito dalle estrazioni, e riconducendo la probabilità di incidente all’effettiva possibilità che questi accadano: nei mari italiani non ne sono mai avvenuti, grazie anche agli standard di sicurezza che il ministro per l’ambiente Galletti definisce fra i più elevati d’Europa. C’è chi propone di investire proprio nella direzione della sicurezza, cercando di sfruttare completamente i giacimenti ed evitarne i costi di dismissione, ma allo stesso tempo di sostenere la nascita e lo sviluppo di provvedimenti che restringano ancor più la possibilità di eventuali danni ambientali.

Il tenore di vita cui siamo abituati non ci permette di riconvertire le nostre abitudini nel giro di qualche mese, e volenti o nolenti continueremo ad usare gas e petrolio almeno per qualche anno. Ci sono allora altre due questioni da tenere in considerazione: la prima riguarda il traffico e le emissioni delle navi che trasportano idrocarburi, più inquinanti delle piattaforme e il cui numero aumenterebbe nel caso di vittoria del “si”. La seconda è espressa nel noto, efficace acronimo inglese NIMBY, Not In My Back Yard (Non nel mio cortile): siamo cioè sensibili ad un problema soprattutto a causa della sua vicinanza, ma siamo disposti ad accettarlo quando è geograficamente lontano. Sarebbe forse un segnale di responsabilità quello dell’effettivo consumatore della risorsa che inizia ad assumersi i rischi del proprio stile di vita.

Il futuro va sicuramente nella direzione delle energie rinnovabili, ma come per ogni cambiamento radicale anche quello energetico necessita di tempi e fasi che ad oggi sono ancora in elaborazione e sviluppo. Viviamo in un mondo che diventa ogni giorno più piccolo e raggiungibile, in cui l’allontanamento dei problemi non è più una soluzione: sia perché le ripercussioni vengono comunque percepite a livello globale, sia perché il territorio di cui è necessario prendersi cura non è più solo il nostro cortile, ma il mondo intero.

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