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La medicina narrativa

Il rapporto medico-paziente ha subìto una profonda trasformazione: con internet quella del medico rischia di diventare la “second opinion”. Da “Una Città”, mensile di Forlì.

Sandro Spinsanti (a cura di Barbara Bertoncin)

Da tempo è in atto una sorta di rivoluzione nell’ambito della cura, in particolare nel rapporto medico-paziente. Ci può spiegare?

“Rivoluzione è un termine forse fuorviante, soprattutto se la intendiamo in un senso politico, per esempio riducendo la questione al chi comanda. Se infatti dicessimo che prima comandava il medico e adesso comanda il malato, saremmo fuori strada. Il rischio però c’è. Pensiamo al passaggio dal sistema tolemaico al sistema copernicano. Nella medicina tradizionale, la terra immobile al centro era il medico, mentre il malato e la famiglia giravano attorno a lui. Il medico prendeva le decisioni, dopodiché l’informazione al malato e il suo ascolto erano un optional, lo si faceva per gentilezza. La svolta è avvenuta quando abbiamo preso sul serio la volontà della persona di intervenire nelle scelte e di mettere le proprie preferenze e i propri valori, non al posto della scienza medica, ma insieme ad essa. È questo il cambio di paradigma fondamentale. In questo modello si ruota intorno a qualcosa di più grande, una concezione della salute in cui entrano sia quello che vede il medico, sia quello che vede la persona in base al proprio modello di vita. Il paradigma nuovo è quello di una decisione presa insieme in cui confluiscono da una parte i valori della scienza e dall’altra le priorità del paziente. La scienza da sola non basta, ma questo non può voler dire che il malato è un consumatore che decide in base a valori di mercato. La medicina deve rimanere basata sul sapere scientifico, e quindi sulle prove di efficacia, ma deve anche includere una rinnovata capacità di ascolto e negoziazione. È questo il grande cambiamento in atto”.

Consenso informato: una pratica burocratica

“Ci stiamo riuscendo? La mia risposta è piuttosto titubante. Se da una parte, per esempio, abbiamo introdotto l’obbligo dell’informazione e la raccolta del consenso a qualsiasi trattamento diagnostico e terapeutico, dall’altra la pratica è lontana da un modello consensuale. Il consenso informato è una prassi svilita; l’abbiamo ridotto a una pratica burocratica, quasi a una firma estorta. Nel modello di consenso informato sono infatti confluite sia le preoccupazioni di raccogliere le volontà e le preferenze del paziente, sia la gestione dei suoi dati, la privacy.

Il modello da cui veniamo, e che possiamo sintetizzare con la parola “paternalistico”, presupponeva che quando siamo malati ritorniamo bambini e qualcuno decide al posto nostro, a cominciare dalla decisione se dobbiamo essere informati o no. Questo è il modello da cui siamo partiti. Da qui a dire che siamo arrivati a una considerazione vera dell’autodeterminazione, però, ce ne passa.

L’aggressione al modello autoritario della medicina per certi versi ricorda la rivolta di giovani adolescenti verso i genitori. Ecco, è come se da bambini obbedienti fossimo entrati nell’età turbolenta e ribelle dell’adolescenza. Dal paziente obbediente che comincia a guarire quando obbedisce al medico siamo arrivati all’adolescente che è per principio contrario a ogni autorità, aggredisce, contesta, e vuole decidere per conto proprio.

Anche un certo uso della rete va in questa direzione. Tradizionalmente le informazioni passavano esclusivamente dal medico. La salute 2.0 ci ha invece portato a una situazione in cui la persona con un malessere per prima cosa cerca le informazioni in rete; informazioni spesso inattendibili, se non fuorvianti o manipolatorie. Siamo arrivati al punto che è quella del medico è spesso la “second opinion”, perché la prima se l’è fatta in rete. Questo cambio di prospettive può apparire scherzoso, ma è drammatico. Il grande problema culturale che sta dietro a questo modello, è che rimane vivo il conflitto tra due decisori. Prima decideva il medico per il paziente, adesso i pazienti pretendono di decidere e poi di chiedere al medico di fare quello che loro hanno deciso.

Decidere in due

Il vero grande cambiamento di paradigma non può che essere quello di decidere in due. Questo però comporta che i pazienti escano dalla fase adolescenziale e diventino adulti responsabili; e che il medico accetti di condividere le decisioni.

Il modello della condivisione chiede un ridimensionamento di un’autorità assoluta e autoreferenziale, ma anche il rispetto reciproco. Nel greco antico esisteva un modo verbale che abbiamo perso: c’era il singolare, il plurale, ma anche il duale. Il modo duale riguarda gli organi doppi, dagli occhi alle orecchie e, dal punto di vista relazionale e comunicativo, anche tutte quelle realtà che nascono dalla vicinanza e dalla comunione di due persone. Il mio sogno è che la medicina recuperi il modo duale: i medici devono fare un passo indietro, non possono più esercitare la medicina come in passato e neppure coprire la propria autorità dietro il modello della scienza”.

La “medicina narrativa”

Lei da tempo promuove la cosiddetta “medicina narrativa”. Può spiegare?

“La medicina narrativa è un concetto che ne racchiude almeno tre. Uno è l’uso delle narrazioni letterarie o filmiche per raccontare il nostro percorso nella salute, nella malattia, nella morte, nel lutto. Quello che riusciamo a capire attraverso le grandi narrazioni è infatti molto diverso da quello che si vede sotto il microscopio. Queste narrazioni ci aiutano a capire che cosa ci aspetta, la mortalità, le decisioni, il percorso che ci viene chiesto, la partecipazione o no. Questa sta diventando una pratica corrente, pensiamo a quanti romanzi e film parlano della malattia; i film sul cancro sono ormai un sottogenere filmico, ma poi ci sono le serie televisive, il dr. House, ER, ecc. Narrando si capiscono delle cose che fanno parte del nostro vissuto e danno senso al nostro percorso; cose che non riusciamo a capire con lo strumento della scienza.

Nella seconda accezione potremmo dire che narrando si guarisce, nel senso che la guarigione non è solo tornare sani, la guarigione è un percorso. In alcune malattie possiamo essere curati nel senso riparativo, con altre ci dobbiamo convivere per tutta la vita, altre ancora ci accompagnano alla morte. In questi percorsi la guarigione acquista dei significati diversi e sempre più è anche la ricerca di percorsi di condivisione. Qui troviamo un’espressione della medicina narrativa interessantissima che è il narrarsi, non per fare letteratura o cinema, ma semplicemente per condividere la propria esperienza; questo sia attraverso libri, sia, oggi, attraverso i blog dove avvengono gli scambi con chi sta vivendo una situazione analoga. Ormai ci sono grandi comunità che si creano attraverso la condivisione di una patologia. Questa ‘guarigione’ quanto meno guarisce da un certo senso di impotenza causato dalla malattia.

La terza accezione di medicina narrativa è proprio quella che interviene nel rapporto tra il curante e il curato: per fare una medicina su misura il medico ha bisogno di ascoltare il malato. Oggi si parla di ‘tailored medicine’, di medicina sartoriale o anche di ‘medicina di precisione’. Ecco, il vestito su misura che auspica la medicina narrativa è quello realizzato a partire dall’ascolto del vissuto biografico, del progetto di vita. Alcuni medici interpretano il dovere di dire la verità in un modo che rischia di essere brutale: ‘Lei ha questo, queste sono le alternative, decida e mi faccia sapere’. Ma così non si abbandona il paziente?

È il modello dell’autonomismo duro, che si riassume in una formuletta: vuoi la pillola bianca o quella rossa? Decidi tu, dimmi quale vuoi, e magari firmami pure il consenso, così mi liberi dalle responsabilità. Questa è una caricatura dell’autonomia. Solo la buona relazione dà sicurezza a medico e paziente. Una cattiva relazione, per quanti siano i moduli firmati, rischierà di portare al conflitto. Non è necessariamente l’errore che porta al conflitto. Nessuno chiede alla medicina di essere una scienza esatta. Non è l’errore, è la gestione dell’errore, una gestione autoritaria o perfino truffaldina, a far cadere la fiducia nel professionista. Nascondere l’errore è la cosa peggiore che si possa fare. L’onestà, la trasparenza, sono sempre premianti”.

Quale verità?

“Quando si parla di verità io vedo un possibile equivoco linguistico e poi una deriva difettosa dal punto di vista pratico. Partiamo dalla deriva linguistica. Ci sono due concetti di verità. Dal punto di vista scenografico li possiamo forse rappresentare nella scena evangelica di Gesù davanti a Pilato. Gesù ebreo, Pilato romano, hanno due concetti di verità. E quando Gesù dice: ‘Io sono la verità’, e Pilato chiede: ‘Che cos’è la verità?’, intendono due cose diverse. Per Pilato, per la cultura greca, la verità è il contrario dell’errore o della menzogna; la verità fa riferimento al vero e al falso. In senso ebraico, la verità è un’altra cosa, è l’attendibilità, il sostegno. Un uomo vero, in senso greco o romano, è uno che non dice bugie. Un uomo vero, in senso ebraico, è uno su cui ti puoi appoggiare. È lo stesso significato della parola amen: mi appoggio.

Il concetto di verità in medicina non è molto lontano da questa dialettica perché noi la possiamo concepire sia in senso greco-romano; io ti dico la verità, cioè ti dico: ‘È un cancro e non una ciste’. Spesso dire la verità ha un senso sia diagnostico che prognostico: hai tre mesi di vita. Dire la verità in questo senso è quasi emettere una sentenza. In senso ebraico, se io terapeuta sono vero, ti do quelle informazioni e però ti accompagno, cioè ti assicuro che non ti abbandono. Già qui vediamo degli scenari diversi nella pratica, perché noi potremmo immaginare un modo quasi caricaturale di dire la verità in cui si comunica la diagnosi, la prognosi, addirittura le percentuali di sopravvivenza, cioè un modo brutale. Perché il primo passo della comunicazione non è cosa io so, ma cosa tu mi stai chiedendo. Non ci sono due pazienti uguali. Ci sono pazienti che vogliono sapere tutto, ma c’è anche chi chiede: ‘Dottore, non mi racconti la fine, non la voglio sapere’. Conta anche il quando, perché ci deve essere una certa preparazione. Un’inappropriatezza nel quando può ugualmente costruire uno scenario di violenza. Il primo passo dell’informazione è sempre l’ascolto. Non è detto che nel momento in cui faccio cadere un macigno su una persona che ieri era sana e oggi diventa malata di una malattia grave, in quello stesso frangente gli devo anche dire quanto gli resta (probabilmente) da vivere. Tanto più se questa verità viene detta soprattutto per mettersi al sicuro. Cioè: io te l’ho detto, sono a posto. In questa concezione, una volta che te l’ho detto, è finito: ti ho detto la verità, punto. Nella concezione che io chiamo ebraica, una volta che inizia questo processo, che è dialogico, io ti prometto che ci sarò, che non ti abbandono, che ti puoi appoggiare a me. È un’altra cosa”. ?

***

Sandro Spinsanti ha insegnato Etica medica alla Cattolica di Roma e Bioetica nell’Università di Firenze. Ha diretto il Centro internazionale studi famiglia (Milano) e il Dipartimento di scienze umane dell’Ospedale Fatebenefratelli (Roma). È stato membro del Comitato Nazionale per la Bioetica. Ha fondato e diretto la rivista “L’Arco di Giano”.

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