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“Ragazzi di vita”

Un Pasolini reinterpretato

"Ragazzi di vita"

Non è compito facile dire qualcosa di che non sia già stato detto su uno spettacolo fortunatissimo come “Ragazzi di vita”, adattamento teatrale del romanzo del 1955 di Pier Paolo Pasolini messo in scena da Massimo Popolizio per il Teatro di Roma, di tappa al Sociale di Trento dal 6 al 9 marzo. Al tempo stesso, però, è un’operazione che va tentata, se si pensa che il regista è allievo del grande Luca Ronconi, che con il poeta corsaro ha avuto un rapporto insieme proficuo e critico, d’ammirazione e di disaccordo. Non è un’esagerazione affermare che la triangolazione Pasolini – Ronconi – Popolizio potrebbe costituire materia per tesi di laurea e studi.

La parola romanzesca di PPP è tradotta in parola drammaturgica da Emanuele Trevi e quindi in parola agita da Massimo Popolizio per mezzo di 18 giovani interpreti più Lino Guanciale. Insomma, gli elementi per un prodotto culturale di successo ci sono tutti: un titolo ed un autore centrali nel panorama della cultura italiana; un regista già attore affermato (Premio Ubu nel 2001 e nel 2015), con esperienze anche al cinema, in tv e nel doppiaggio; un attore principale dalla presenza scenica magnetica e amatissimo a teatro (Ubu 2018) come al cinema e nelle fiction tv. Senza dimenticare che il lavoro è stato premiato nel 2017 per la miglior regia da ANCT e Ubu, nonché da Le Maschere del Teatro Italiano che l’ha proclamato anche miglior spettacolo stagionale. Tutti allori da pesare alla prova della scena, ma che testimoniano il sicuro valore artistico, o almeno la rilevanza, di una simile proposta.

Data giusta menzione di credenziali e riconoscimenti, è necessario ora entrare nel cuore di questi “Ragazzi di vita”. Pasolini traduce in scrittura la realtà postbellica delle borgate romane e dei ragazzi che le popolano, che fin dal suo arrivo nella Capitale visitava, frequentava, respirava. Un ambiente che, a suo modo di sentire, conservava ancora l’autenticità, anche spregiudicata e violenta, di un mondo rurale non ancora corrotto dal consumismo e dallo spirito piccolo-borghese. Seguendo l’autore, Trevi crea una drammaturgia fondata sul parlato romanesco, una lingua viva nel lessico e nella sonorità, ma al contempo inventata e artificiale perché filtrata dallo scrittore stesso. Popolizio (già accostatosi a Pasolini con la lettura di “Una vita violenta” per la trasmissione “Ad alta voce” di Rai Radio 3) riproduce sulla scena le vicende al margine e al limite del Riccetto e degli altri adolescenti di borgata, trasportando in uno spaccato della periferia romana anni ‘50, intrisa di povertà assoluta ed espedienti per tirare a campare, ma anche di spensieratezza e divertimento. Quello che si crea è un racconto picaresco – dai risvolti ora comici, ora tragici, ora grotteschi – che procede per quadri tenuti assieme dal narratore, uno “straniero”, una figura ambigua che osserva e descrive con partecipazione le varie scene nel febbrile tentativo di ricostruire pezzi di storie.

La regia di Popolizio si dimostra meritevole dei premi ricevuti. Per il funzionale allestimento scenico (una piattaforma in legno che diventa barcarola, trampolino per i tuffi, cabina di una spiaggia), ma soprattutto per la competenza con la quale forma e dirige gli attori. I giovani interpreti (14 uomini e 4 donne), tutti freschi e preparati, sanno rendere con efficacia e passione la vitalità irrefrenabile della gioventù disperata e violenta ritratta da Pasolini. Una coralità in infaticabile movimento, di ragazzi ora seminudi, ora vestiti per entrare nella moltitudine dei personaggi. Da notare, inoltre, come Popolizio riprenda dal maestro il trucco, diluito con saggezza, del racconto in terza persona: non solo il narratore, ma anche i personaggi accompagnano l’azione scenica con la sua descrizione o narrazione.

Se sul piano spettacolare il lavoro è decisamente d’impatto, il limite maggiore può essere riscontrato in un certo sacrificio della poetica pasoliniana, scadendo forse in un calligrafismo indolore (leggere a proposito l’acuta recensione di Michele Ortore su “klp”).

Ma è un difetto “tradire” un poeta come Pasolini? Occorre a questo punto recuperare la triangolazione di cui si parlava nel cappello. Ronconi aveva con PPP un rapporto ambivalente: ne stimava il talento, la passione civile, il riferimento alla quotidianità, lo considerava formativo per i giovani attori (“Pilade”, le due versioni di “Calderón”); non ne sopportava la saccenza e soprattutto la visione del sistema del teatro italiano, contro cui lo scrittore polemizzò violentemente. Popolizio viene dal terreno culturale di Ronconi e da lui riprende un punto di vista critico, di ammirazione ma anche di distanza, sull’autore.

Per farla breve – lo spazio è tiranno – questa versione scenica di “Ragazzi di vita” è un Pasolini reinterpretato da Popolizio: probabilmente la figura del narratore è da leggere in tal modo. Ben vengano simili riletture: per far risuonare uno scrittore così ambiguo e contraddittorio, sono più utili amorosi tradimenti che ossequiosi omaggi.o.

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