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QT n. 9, settembre 2019 Servizi

Verde camaleonte?

L’ecologismo in Europa, tra belle promesse e deprimenti giochi di poltrone

Matteo Angeli
Il parlamento europeo

L’exploit dei Verdi è sicuramente la sorpresa migliore delle ultime elezioni europee. Tuttavia, già dopo poche settimane dall’inizio della nuova legislatura, sembra ormai chiaro che non si tratta della “svolta epocale” di cui alcuni commentatori avevano parlato all’indomani del voto. Siamo semmai di fronte a una dinamica positiva, lontana dall’essere giunta a piena maturazione.

Il successo degli ecologisti va considerato tale perché costruito sull’onda del coinvolgimento delle nuove generazioni. I Verdi hanno capitalizzato sul fenomeno Greta Thunberg e, se stiamo a guardare i numeri, c’è da chiedersi perché non siano riusciti a fare meglio. Rispetto alla scorsa legislatura, l’aumento in termini di seggi in Parlamento europeo non è stato infatti impressionante: dal 7 al 9 per cento, da 52 a 74 seggi (su un totale di 751). Impressionante, questo sì, gli va riconosciuto, è stata invece la loro ascesa in Paesi come la Germania (dove si sono affermati come secondo partito, oltrepassando la soglia del 20 per cento) o in Francia, dove sono arrivati al terzo posto.

I partiti tradizionali, soprattutto nei Paesi dove gli ecologisti sono andati bene, già prima del voto hanno visto arrivare l’onda e non hanno esitato a cavalcarla, imprimendo, ognuno a modo suo, una sfumatura di verde ai propri programmi.

Paradigmatico in questo senso è il caso del governatore della Baviera, Markus Soeder, che sente il fiato sul collo degli ecologisti (a Monaco e dintorni vanno a gonfie vele, anche grazie alla loro giovane leader Katharina Schulze) e che, secondo una notizia di questi giorni, pare essere in odore di conversione sui temi ambientali.

Dopo il voto europeo, complice il calo degli schieramenti tradizionali (popolari, socialdemocratici e liberali) i Verdi europei, quarto partito dal punto di vista numerico dopo quelli citati, hanno visto aprirsi una finestra di opportunità che avrebbe potuto permettere loro di essere inclusi nella coalizione di maggioranza.

Non sarebbe potuta andare peggio: il tentativo degli ecologisti di occupare una delle poltrone che contano si è rivelato un flop. C’erano quattro cariche importanti da spartirsi: la presidenza dalla Commissione europea, quella del Parlamento europeo, quella del Consiglio europeo e l’Alto rappresentante per la politica estera. Com’è noto, la Commissione è andata ai popolari, Parlamento e Alto Rappresentante ai socialdemocratici e Consiglio europeo ai liberali.

I Verdi hanno dovuto accontentarsi di due vicepresidenti del Parlamento europeo (la finlandese Heidi Hautala e Marcel Kolaja, del partito pirata ceco), cariche per così dire marginali, soprattutto se si considera che il Parlamento di presidenti ne ha quattordici.

Come mai è andata così male? Perché sono i governi delle nazioni i principali fautori dell’accordo sulle poltrone e i Verdi, purtroppo per loro, non presiedono alcun esecutivo nei 28 stati membri.

Particolarmente interessante è il modo in cui è stata nominata la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, più volte ministra in Germania e personaggio chiave dell’era Merkel. Questa, sapendo di non poter contare solo su popolari, socialisti e liberali (la coalizione che di fatto a questo giro tiene le redini in Europa), ha fatto di tutto per corteggiare gli ecologisti e garantirsi il loro voto.

Von der Leyen, che ha un curriculum in cui i temi ambientali sono praticamente assenti, ha dato davvero il meglio di sé nel suo primo discorso davanti al Parlamento europeo, mettendo le tematiche ambientali in cima al suo programma.

Un fiume di promesse

Ursula von der Leyen

Un fiume di promesse: “Voglio che l’Europa diventi il primo continente a impatto climatico zero del mondo entro il 2050”, “Vanno ridotte le emissioni di CO2 del 50 per cento se non del 55 per cento, entro il 2030”, “Presenterò un ‘Green Deal’ per l’Europa nei primi 100 giorni del mio mandato”, “Proporrò la prima vera e propria legge europea sul clima”, “Sbloccheremo mille miliardi di euro di investimenti verdi nel prossimo decennio”, “Introdurrò un’imposta sul carbonio alle frontiere per evitare la rilocalizzazione delle emissioni di carbonio”…

Cionostante, i Verdi europei hanno bocciato la nomina di Von der Leyen. La loro leader, la giovane tedesca Ska Keller, si giustifica così: “Von der Leyen non ha fatto una proposta concreta che fosse una. Nulla sul cambiamento climatico, nulla sul salvataggio delle vite in mare, niente di niente sullo stato di diritto. Inoltre, non ha preso alcun impegno chiaro su come aumentare la democrazia in Europa per un tema a noi molto caro come quello del sistema degli Spitzenkandidaten”.

Von der Leyen non demorde e tenta fino all’ultimo di mettere in pratica il suggerimento del presidente uscente del Consiglio europeo, Donald Tusk, di integrare i Verdi nella stanza dei bottoni, ovvero di dare a un loro esponente il posto di Commissario.

Il fatto che i candidati a commissario siano nominati dagli esecutivi di ciascuno stato membro non aiuta, perché, come già detto, non c’è governo nell’Ue presieduto dagli ecologisti. A estrarre il coniglio dal cilindro ci ha pensato allora la Lituania, che ha nominato il suo ministro dell’economia a interim, Virginijus Sinkevi?ius, candidato al posto di Commissario europeo. Sinkevi?ius, guarda caso, è membro dell’Unione dei Contadini e dei Verdi che in Parlamento europeo conta due esponenti che hanno scelto di entrare nel gruppo dei Verdi.

Un Verde trumpiano

Abbastanza per soddisfare Ska Keller e compagni? Assolutamente no. Una volta che il nome di Sinkevi?ius è stato reso pubblico, Keller ci ha tenuto a precisare che benché gli esponenti dell’Unione dei Contadini e dei Verdi siano entrati nel suo gruppo, non sono membri del Partito dei Verdi europeo, e quindi, di conseguenza, neppure Sinkevi?ius può essere considerato un vero “verde”, soprattutto, e qui entriamo nel merito, se si tiene conto che il suo partito su una serie di dossier ha assunto posizioni decisamente poco ecologiste e che lo stesso Sinkevi?ius tiene il cappello di Trump, con la scritta “Make America great again”, sulla sua scrivania.

Di fatto condannati ad altri cinque anni all’opposizione, i Verdi promettono di attendere Von der Leyen al varco, pronti a massacrarla sui contenuti una volta che presenterà le sue proposte.

A noi questa vicenda sinceramente non piace, i temi ambientali risultano troppo subalterni rispetto al gioco delle poltrone.

Comunque, a prescindere dai Verdi, per la nuova presidente la strada, con gli obiettivi ambientali, è tutta in salita. Persino nel suo schieramento, i popolari, ci sono delle perplessità sulla capacità delle istituzioni europee di perseguire gli obiettivi ambiziosissimi che von der Leyen si è data. Ad esempio, l’eurodeputato tedesco Peter Liese, portavoce dei popolari in materia di questioni ambientali, pur sostenendo il programma di Von der Leyen, fa notare che la promessa di ridurre le emissioni di CO2 entro il 2030 può funzionare solo richiedendo grandi sacrifici alle forze produttive e alla popolazione in generale. Un discorso analogo vale per l’introduzione di un’imposta sul carbonio alle frontiere europee, da far pagare ai Paesi che importano nell’Ue e non rispettano i nostri stessi standard in materia di emissioni: si tratta di un’arma a doppio taglio, che rischia di fare vittime in casa, con l’esplosione di ritorsioni e un aggravamento delle tensioni in un clima di commercio internazionale che è già tutt’altro che disteso.

Ciò non toglie che ora Ursula von der Leyen ha davanti a sé l’occasione di fare la storia, di abbracciare quella conversione ecologica che può dare nuova linfa e senso a un progetto europeo ripiegato su se stesso. Il rischio, oggi più che mai, è quello di temporeggiare, di fare il camaleonte, perseguendo l’ecologismo più per moda che per convinzione. Se così sarà, possiamo stare certi che almeno i verdi, dai banchi dell’opposizione, faranno sentire la loro voce. Per quel che può contare.

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