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Da campo profughi a villaggio

La storia di Maratane, un campo profughi sorto in Mozambico nel 2001 che oggi ospita 9.000 persone. Da “Una Città”, mensile di Forlì..

Luca Ventura (a cura di Barbara Bertoncin e Bettina Foa)

Il campo è sorto nel 2001 e si trova a circa 30 chilometri dalla città di Nampula.

In Mozambico, risultano 25.000 rifugiati in totale, di cui circa 9.000 registrati a Maratane e 3.000-3.500 nella zona di Nampula; gli altri sono variamente distribuiti all’interno del paese. L’organizzazione per cui lavoro, il World Food Programme (Wfp), è presente dal 2011. Esiste un accordo con l’Alto commissariato per i rifugiati (Unhcr) in base al quale quando i campi dei rifugiati superano quota 5.000 subentra il supporto logistico del Wfp per la parte della sicurezza alimentare. In Mozambico, esiste anche un’agenzia governativa, l’Inar (Instituto Nacional de Apoio aos Refugiados), che è il nostro interlocutore locale.

I rifugiati che entrano nel paese vengono registrati al posto di polizia, poi segnalati all’Inar, infine accompagnati a Maratane, dove vengono raccolte le informazioni di identificazione e parte la richiesta di asilo. Viene loro concessa la residenza a Maratane, uno spazio per potersi installare, un kit iniziale di pentole, coperte e beni essenziali e un documento provvisorio.

Il Mozambico ha una politica molto pragmatica: rifugiati e richiedenti asilo possono muoversi dentro e fuori dal campo liberamente. Possono inoltre iscriversi a corsi di educazione e hanno il diritto di essere assistiti in qualunque centro di salute del paese, così come di lavorare sia come autonomi che come dipendenti. Esiste poi una serie di politiche di integrazione per cui i figli di rifugiati nati in Mozambico possono essere naturalizzati. Insomma, c’è un ambiente direi accogliente.

Il campo, a differenza di quanto succede altrove, è aperto: non ci sono barriere. Quando entri a Maratane sembra di entrare in un qualsiasi villaggio rurale mozambicano. L’unica differenza, paradossalmente, è che lì ci sono dei servizi che non esistono altrove, tanto è vero che le persone delle comunità locali si curano al centro di salute del campo e mandano i figli alle scuole nel campo. Attorno al centro, oltre ai novemila rifugiati, ruotano quindi 10-15.000 persone appartenenti alle comunità limitrofe.

È stata una scelta politica quella di offrire anche alle comunità locali i benefici del campo. Quindi, ripeto, Maratane sembra un normale villaggio: c’è la strada principale con alcune attività economiche, delle baracche dove si vendono prodotti vari, un piccolo mercato. C’è una missione di padri scalabriniani, c’è l’acqua, l’elettricità, un’antenna della telefonia mobile.

Ovviamente non mancano i problemi. I rifugiati sono vittime di pregiudizi: per loro è più difficile avere un impiego formale, specie in un paese dove c’è un tasso di disoccupazione altissimo. E poi c’è il problema dell’equivalenza dei titoli di studio, per cui chi ha studiato in Congo, per esempio, non sempre riesce a far riconoscere la propria professionalità in Mozambico.

Le persone arrivano principalmente dalla regione dei laghi, quindi Repubblica democratica del Congo (circa il 60%), poi Burundi, Ruanda, Somalia; in quote minoritarie anche da Etiopia e Uganda. Il Mozambico è comunque considerato un paese di passaggio, anche se molti alla fine si fermano, proprio per i fattori positivi legati all’accoglienza; c’è ormai una rete dei rifugiati della regione che si coordinano, il passaparola funziona.

Il governo mozambicano ha aderito alle cosiddette “soluzioni durevoli” dell’Unhcr, che prevedono tre politiche: rimpatrio volontario, integrazione locale oppure ricollocamento, reinsediamento in paesi terzi. Ovviamente l’Alto commissariato fa delle indagini per capire se quella determinata zona di provenienza è sicura, se ci sono effettivamente possibilità di insediamento o se invece permangono persecuzioni, pericoli, ecc. Nel caso il rifugiato chieda volontariamente il rimpatrio, viene facilitato non solo nel trasferimento suo e della famiglia, ma anche nel crearsi un’attività, grazie ad un piccolo budget. Questa ovviamente non è l’opzione principale, perché molti sono in fuga dai loro paesi proprio perché mancano le condizioni per vivere.

La seconda soluzione è l’integrazione locale. Il Mozambico offre una serie di opportunità, però è un paese povero e con un elevato tasso di disoccupazione, pertanto l’apertura all’integrazione si scontra poi con un rifiuto della maggior parte dei rifugiati a diventare mozambicani, perché comunque è visto come un paese poco appetibile.

Alla fine vogliono tutti essere ricollocati altrove: in paesi europei, in Canada, che in questo momento ha quote abbastanza alte, e negli Stati Uniti. Ma solo una percentuale bassissima di persone - meno dell’1% - ha accesso a questa soluzione durevole,.

Chi non riesce ad andare altrove si impegna in piccoli business in agricoltura o commercio; c’è anche chi insegna nelle scuole o fa l’infermiere. Dopo di che tutti negano di avere un’occupazione, perché essere integrati economicamente potrebbe far venire meno i requisiti necessari ad accedere a politiche di assistenza. In effetti l’assistenza alimentare è prevista per chi vive in uno stato di vulnerabilità e di necessità; nel momento in cui la persona diventa autosufficiente, la razione alimentare passa dal 100% al 50%.

Attualmente stiamo lavorando a un programma che ha come obiettivo l’autosufficienza delle persone rifugiate a Maratane. Ad esempio grazie all’attività agricola, dove però i rifugiati sono un po’ penalizzati perché l’accesso alla terra è governato dai diritti consuetudinari; se poi la terra deve essere presa in affitto, ci sono dei costi elevati. Di qui l’idea di provare con l’allevamento dei polli. Viene fornito un piccolo kit iniziale e una formazione, anche sulle tecniche di vendita; bisogna vedere se poi riescono a tenere in piedi il ciclo economico, quindi a comprare altri pulcini e farli crescere. Fortunatamente sono cicli corti: in due-tre mesi riescono a realizzare le prime vendite e quindi ottengono un ritorno abbastanza immediato. Ora stiamo cercando di diversificare lavorando anche sulla produzione di uova.

L’integrazione funziona

Quanto ai rapporti tra rifugiati e mozambicani, non ci sono mai stati, almeno che io sappia, episodi significativi di violenza, xenofobia o discriminazione; a volte sorgono conflitti sulla terra, però in generale l’integrazione funziona; ai confini del campo ci sono delle case sorte per la vicinanza alla fontana d’acqua, al centro di salute, alla scuola... Passeggiando nella zona rurale intorno a Maratane ci si rende conto che ci sono produttori locali e produttori rifugiati. Poi è ovvio che esistano delle incomprensioni, però non sfociano in problemi di sicurezza. Paradossalmente ci sono più problemi tra le diverse comunità all’interno del campo, perché c’è una maggioranza congolese che ovviamente è più forte e quindi possono nascere conflitti, ma non ci sono problemi di odio etnico.

Nel campo è attivo un comitato di leader delle varie comunità. C’è un portavoce, il presidente del comitato, e poi vengono nominati i rappresentanti dei vari gruppi nazionali, assieme a rappresentanti delle donne e dei giovani e ad un responsabile della distribuzione di cibo. Questo comitato, costituito da una dozzina di persone, è il nostro primo interlocutore.

Ora stiamo lavorando al progetto di una radio comunitaria gestita da rifugiati, possibilmente giovani, in modo da dar voce anche ad altre istanze. Esistono delle bacheche per comunicare, dei box cosiddetti “feedback and complaint”, dove vengono raccolti i reclami, anche anonimi, poi c’è l’ufficio dell’Unhcr, in cui possono essere ugualmente indirizzate lamentele, domande, suggerimenti. C’è ovviamente la polizia per questioni di sicurezza e l’assistenza sociale.

Organizziamo anche attività meno formali, come discussioni con gruppi di donne o di giovani per avere dei riscontri su temi specifici. Sono sorte delle iniziative anche per rispondere al problema della violenza domestica. Recentemente nel campo sono state installate una serie di casette prefabbricate per donne vittime di violenza domestica. C’è infine il problema della violenza e dei traumi da cui queste persone sono fuggite: donne, uomini e bambini. Di anziani ce ne sono pochi, parliamo di persone che vengono da paesi dove l’aspettativa di vita è bassa. È quindi una popolazione prevalentemente giovane e soprattutto maschile; anche se poi nel campo incontri più donne, perché gli uomini di mattina se ne vanno a Nampula a lavorare, a “se desenrascar”, come si dice in portoghese, cioè ad arrangiarsi.

Come accennavo prima, uno dei problemi che abbiamo è capire quante di queste 9.000 persone registrate abbiano davvero bisogno e quante invece abbiano già potenzialmente dei mezzi di sostentamento; molti infatti continuano a gravitare sul campo perché la politica nazionale offre un certo tipo di assistenza ai rifugiati di Maratane; inoltre, se sei fuori ovviamente non hai diritto alla distribuzione alimentare. Questo crea una situazione di stallo, su cui stiamo cercando di intervenire. Esistono comunque dei sistemi di controllo. Per esempio, se per tre mesi non sei presente alla distribuzione di cibo vieni ritirato dalle liste. Dopodiché, per rientrare, devi spiegare perché non c’eri, dov’eri, se c’è stato un impedimento legato al lavoro o alla salute. Esistono varie tecniche di verifica, fino alla conta “testa per testa”; il problema è che in genere si sparge subito la voce vanificando qualsiasi controllo.

Sono situazioni delicate, perché da una parte devi essere flessibile e garantire che se qualcuno è assente per un motivo valido non sia immediatamente escluso; dall’altra parte, non puoi dare cibo a chiunque si presenti, specie in una situazione di scarsità di risorse.

Quella del campo di Maratane è una situazione particolare, diciamo di rifugio protratto, quindi l’idea è che queste persone debbano integrarsi, almeno economicamente, nel contesto locale. La prospettiva è di trasformare Maratane in un villaggio e quindi, progressivamente, di ridurre l’assistenza umanitaria attraverso una serie di azioni di sviluppo. Si tratta di mettere il maggior numero di persone possibile in condizioni di autosufficienza economica coordinandoci con le politiche nazionali, che già prevedono forme di assistenza per i soggetti vulnerabili. Il problema è che parliamo di un processo che prevede dei costi e oggi sia il Programma alimentare mondiale che l’Unhcr hanno problemi crescenti a mantenere il livello di assistenza perché, trattandosi di un’emergenza diciamo secondaria, non attira più l’interesse dei donatori.

La prospettiva è che l’assistenza venga progressivamente diminuita fino ad essere assorbita dell’assistenza sociale del governo, per cui, come dicevo, Maratane non viene chiuso come campo, ma diventa un villaggio qualsiasi del Mozambico e i poveri vengono integrati nella rete nazionale di protezione sociale.

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Luca Ventura, del World Food Programme, lavora nel campo profughi di Maratane, nel nord del Mozambico.