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QT n. 12, dicembre 2019 Servizi

Le montagne dimenticate

I cambiamenti climatici impongono nuove attenzioni: la montagna ora è soggetto centrale del dibattito sociale e politico

Carezza: lo stillicidio delle seconde case

È sempre più frequente sentire parlare di centralità della montagna. Anche in ambito politico. Ma di tanto parlare, di troppi convegni e gran spolvero di universitari, cosa rimane? Al momento, poca cosa. In Trentino si è costruita la rete delle montagne, che poteva essere uno strumento di elaborazione e confronto di esperienze straordinario: si è arenato. Presso la Scuola di Management del Turismo si promuovono convegni basati sulle buone pratiche, che però non trovano nessun riscontro mediatico. La montagna viene scoperta in periodo elettorale e poi ritorna soggetto dimenticato nelle metropoli capoluogo regionali, a Udine, Venezia, Milano, Torino, Bologna, come a Roma. Qualche decina di migliaia di abitanti sono ininfluenti nel definire gli scenari politici, quindi li si lascia sopravvivere e cadere nel lamento. Così l’Italia rimane un paese analfabeta rispetto alla montagna, ci si accorge di essa solo in presenza di grandi eventi sportivi (mondiali di sci, olimpiadi) o di terribili disgrazie. Ma è probabile che la velocità con la quale i cambiamenti climatici stanno modificando le risposte dei territori costringerà finalmente sempre più attori culturali e istituzionali a ripensare la gestione delle alte quote e quindi - si auspica - ad agire.

È strana tanta disattenzione maturata fino a oggi, visto che nella nostra penisola la montagna rappresenta oltre il 60% del territorio, anche se solo il 35,2% di esso viene classificato come tale: metà del territorio montano offre vita a meno di 15 abitanti per kmq., il crollo demografico ha assunto da tempo dimensioni allarmanti: nonostante l’apporto positivo dell’immigrazione, ogni anno si assiste a una perdita di abitanti in quota con un tasso del 4,39 per mille.

Da tempo alcune istituzioni provano a rispondere. Già lo scorso anno la ministra Erika Stefani aveva lanciato a livello nazionale l’avvio degli Stati generali della montagna, la Biennale di Venezia aveva proposto Arcipelago Italia (2018), il congresso dell’Istituto nazionale di Urbanistica di Riva del Garda (marzo 2019) era centrato sul futuro della montagna italiana, l’UNCEM (Unione dei comuni montani italiani) sta richiamando i vari governi a maggiori attenzioni.

I sindaci montani affermano che la strategia nazionale delle Aree interne (risalente al 2012) è limitata, prevedendo interventi in sole 72 zone pilota: ritengono sia necessario, da subito, passare dalla sperimentazione alla ordinarietà, rendere le Unioni dei comuni più stabili, con funzioni da rafforzare nelle aggregazioni associate per superare il riduttivo obiettivo del risparmio e invece offrire capacità operativa. Sono ancora i sindaci italiani a riprendere con forza tutti i temi sollevati dal confronto di base, suscitando comunque alcune perplessità, come la proposta di trasformare i segretari comunali in manager di territorio delle pubbliche amministrazioni, andando così a perdere nei comuni la figura del garante dei cittadini e della correttezza amministrativa, oggi funzioni prioritarie di un segretario.

La cultura della città

Pieve di Cadore. Sullo sfondo la casa di Tiziano Vecellio

Ad osservare l’insieme del dibattito sembra che solo all’interno del convegno tenutosi in autunno a Camaldoli si sia ricercata, anche sotto il profilo culturale, il rilancio di una nuova centralità politica e sociale della montagna italiana. Il diffuso crollo demografico porta all’abbandono di terreni, infrastrutture e colture; la rinaturalizzazione degli spazi abbandonati non è governata, le carenze dei servizi offerti sui territori si accentuano e la politica nazionale dei tagli lineari, focalizzati sul bacino di cittadini serviti, non può che accelerare il fenomeno.

Ancora oggi centrale è la città. Anche perché in troppi luoghi alpini questa stessa cultura si è radicata, forte del modello produttivistico cieco, forte nell’omologare, quindi cancellare ogni specificità. È un modello ormai ben strutturato nelle zone di montagna che si possono definire “obese”, come il Trentino-Alto Adige, la Valle d’Aosta, Cortina d’Ampezzo... Montagne sempre più simili nella loro semplificata offerta a quanto propongono le grandi aree urbane, fino in prossimità delle rocce. Mentre l’ospite respira questo insieme di lusso, al residente rimangono servizi da periferia, sempre più difficili da raggiungere (formazione scolastica, mobilità, salute, assistenza), e i lavori proposti sono sempre più dequalificati, accelerando di fatto l’emigrazione dei giovani.

Le responsabilità del consolidarsi di un quadro tanto deprimente ricadono anche sul residente, che spesso sembra un illuso ipnotizzato, incapace di reazione, adagiato sul miraggio di possibili implementazioni di entrate, seppur minime, nel breve tempo. I grandi profitti invece non possono che riguardare un ristretto spettro di imprenditoria locale o ridiscendere verso valle, nelle città, nei luoghi che hanno imposto la speculazione immobiliare, verso attori economici che oggi, sottocosto, stanno comprando terreni e alberghi destinati altrimenti al fallimento, o speculano in aree depresse come il bellunese, la Carnia, le vallate occitane.

Da questo punto di vista il confronto di Camaldoli ha tentato di superare l’opposizione città-montagna, in quanto perdente, a scapito della montagna per ora. Mai come oggi c’è la possibilità di riconvertire le attenzioni della politica, fare in modo che le aree marginali diventino centro, visto il moltiplicarsi delle relazioni di interdipendenza che si diffondono, grazie alle nuove tecnologie che coinvolgono nuovi lavori e la comunicazione. Ma se questo processo diventa solo contaminazione, se chi proviene dalla città non si confronta con i limiti imposti dalle montagne, quale sarà il soggetto destinato a soccombere? Certamente il più debole, chi la montagna vuole rimanere a coltivarla, a curarla, chi è consapevole dell’innumerevole insieme di valori storici, ma anche naturalistici e ambientali, che la montagna presenta. La rottura delle coesioni sociali, la caduta di credibilità delle autonomie locali più vicine alla gente comune (regole, vicinie di usi civici, ASUC), hanno provocato l’impoverimento della coesione sociale. Un certo tipo di turismo monotematico ha allontanato dal territorio migliaia di soggetti e quindi si sono persi lavori e tradizioni che andrebbero quanto prima recuperate.

Questa azione di riscatto valoriale ha bisogno di tempi lunghi, di ricostruire conoscenze perdute; ma la forza, il mito della presunta modernità sembrano dirompenti, devastanti, non hanno tempo per fermarsi a riflettere. Ogni spazio libero va conquistato, quanto ricorda il passato, anche nella qualità architettonica, va rimosso, fino in alta quota, nei rifugi, nelle malghe.

Come tornare a vivere le montagne?

Dobbiaco

Per comprendere cosa oggi ritornerebbe utile alle montagne italiane non servirebbero tanti convegni. Ma forse è ancora a Camaldoli che si è trovata una sintesi. Innanzi tutto, come ha fatto da tempo Mountain Wilderness per l’Appennino, trasformare la montagna in un grande Laboratorio sociale e politico che ricerchi e promuova le tante buone pratiche di vita diffuse un po’ ovunque, ma anche ritornare incisivi nei confronti delle istituzioni. Da tempo sembra le montagne italiane si attendano risposte forti dalla politica su questi temi:

- il riconoscimento pieno dei servizi ecosistemici che la montagna offre alle aree urbane in tema di qualità, risorse, sicurezza idrogeologica, ricreazione, naturalità, stoccaggio del carbonio;

- un nuovo sistema fiscale che riconosca l’impegno di chi la montagna continua ad abitarla;

- un non più derogabile riordino fondiario che superi l’attuale frammentazione che impedisce ogni iniziativa imprenditoriale, una riforma attesa da decenni;

- la costruzione delle tante filiere, agricoltura-turismo, il legno, la mobilità, i servizi, l’innovazione tecnologica, quindi una gestione integrata delle diverse risorse. L’obiettivo è quello di far ricadere più valore aggiunto possibile sui territori che offrono le materie prime, quali foreste, alimentazione, acque;

- il recupero di un rapporto interattivo continuo con le città e i centri universitari.

Vanno rimossi anche tanti ostacoli: la politica della riduzione della spesa pubblica parametrata sulla densità abitativa, la dipendenza dai centri metropolitani, la centralizzazione delle funzioni, il ritardo tecnologico, le minacce ambientali, l’imposizione di uno sviluppo basato su parchi tematici con capofila quasi sempre l’industria dello sci.

Quindi non più una lettura di territori svantaggiati che vanno assistiti, ma territori “diversi”, ricchi di potenzialità inespresse, che possono e dovranno offrire risorse e opportunità stabili a tutta la comunità. Una nuova visione che ci porti dalla attuale montagna resistente alla montagna resiliente, forte di un autogoverno che non si trasformi, come oggi avviene nelle aree ricche, in autoreferenzialità, in chiusura, in tensione all’isolamento, in aperture solo opportunistiche e speculative (turismo).

Proprio il tema dell’autogoverno rimane un passaggio controverso. È impegnativo investire in nuovi istituti di democrazia comunitaria, ricostruire democrazie partecipate dal basso, ritornare ai valori delle comunità del passato. Nelle città, e purtroppo da tempo in tanti luoghi montani, non si comprendono più le presenze storiche e ancora attuali delle Regole, delle vicinie di uso civico. Sono invece queste le istituzioni che possono reinvestire per ricostruire una coscienza diffusa dei diversi luoghi, la ripresa di una coesione sociale che si è allentata. Se non si riprendono questi passaggi decisionali di democrazia diffusa, inevitabilmente la montagna diventerà un insieme di estesi agglomerati urbani, come sta già avvenendo nei maggiori centri turistici, luoghi dove si è persa la capacità di cura e di comprensione della complessità dei luoghi periferici.

Se si condivide l’idea che il patrimonio “montagna” riveste un interesse generale, che è una priorità nazionale, non è più possibile perdere tempo, anche perché alcune dinamiche appena accennate, di una ripresa della montagna, sono già in atto e andrebbero governate.

Domande che attendono risposte

Ad esempio, riprendendo una ormai consueta provocazione di Luca Mercalli, che partendo da un dato scientifico oggettivo (“Entro il 2100 è possibile che l’aumento delle temperature medie nel mondo superi i 3° C”) afferma che le nostre città saranno invivibili e le pianure improduttive, pensiamo al comparto agricolo. La media montagna assumerebbe il compito gravoso di sfamare la popolazione europea, mentre l’alta montagna diverrebbe il sogno abitativo di ogni cittadino (nelle Alpi l’aumento medio delle temperature in un simile caso potrebbe arrivare ai 6- 7 °C). Ma in uno spazio tanto limitato, soggetto a rischi idrogeologici sempre più imprevedibili e impattanti negli effetti negativi, quali categorie sociali potranno permettersi “la fuga dalle città”? Il cambiamento climatico porterà, anche alle nostre latitudini, importanti sconvolgimenti sociali.

Che destino avrà la montagna oggi obesa, satura di sci, che è stata incapace di riprogrammare, riadattare ai tempi una sua economia? Quale il ruolo delle aree protette, visto che nel nostro paese non hanno mai potuto diventare laboratorio di sviluppo, ma sono state intese come recinto, luogo di chiusura, impossibilitate a produrre lavoro? Riusciranno in presenza di tante pressioni esterne opposte a difendere e potenziare il ruolo di conservatori di biodiversità, naturalità, espressione massima della gestione qualitativa delle risorse? Le foreste, sempre più estese e fragili, saranno ancora viste unicamente sotto il profilo produttivo o verrà loro riconosciuto un valore strategico e ecosistemico unico nel nostro paese? Oggi si parte da un quadro che ci presenta un addio ai monti, ma sembra che nel breve futuro si arrivi a una netta inversione di rotta. Sapremo gestire in modo consapevole questo processo particolarmente delicato?

A queste domande non potrà rispondere il Manifesto di Camaldoli, è compito di una politica matura tracciare in tempi brevi un percorso innovativo del vivere le montagne italiane. È compito della politica riprendere i valori delle autonomie territoriali e aiutarle ad uscire da gusci di isolamento sempre più difensivi (vedi la Magnifica Comunità di Fiemme, che ha portato il limite di riconoscimento dei diritti di vicinia a 40 anni di residenza), a incentivare la nascita di cooperative di comunità, a riportare valore alle Comunità di valle umiliate dalle recenti politiche governative.

L’insieme delle attenzioni che stanno piovendo sulla montagna, anche laddove disarticolate come quelle nazionali, dell’UNCEM e di altre realtà culturali, sono indicative su come quanto oggi viene letto come marginale (o meglio, di frontiera) sia destinato a riacquistare importanza. Siamo in presenza di una attenzione che ha dello straordinario, ci viene offerta un’occasione utile anche a comprendere gli effetti sulla montagna dei cambiamenti climatici in atto. È un’occasione da affrontare anche sotto il profilo etico se vogliamo offrire alle prossime, immediate generazioni dei percorsi innovativi per riportare a nuova vita e significato la complessità delle montagne italiane.