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QT n. 2, febbraio 2020 Monitor: Danza

“The Lamb”

Il “sacrificio” della danza

“The Lamb”

Quando un attore non vedente si erge all’improvviso tra il pubblico e, armato di bastone, incede lento tra le poltrone fino a raggiungere il proscenio, un dubbio inespresso serpeggia tra gli spettatori: “Siamo forse tutti ciechi?” nel non capire se lo spettacolo abbia avuto inizio...

Dubbio subito fugato dall’incontro sul palco tra l’uomo e una donna che, per tutto il tempo dell’azione scenica, gli farà da guida in un viaggio sospeso tra sogno e realtà, tra inferno e paradiso. Le suggestioni culturali a cui attingono i due coreografi fondatori della compagnia Kor’sia, Mattia Russo e Antonio de Rosa, sono davvero numerose e alte, dal cinema di Pasolini e Fellini alla Divina Commedia di Dante; ma come ispirazione per questo pluripremiato lavoro la coppia cita espressamente una frase tratta dal Rapporto sui ciechi, cuore oscuro del romanzo Sopra eroi e tombe dello scrittore argentino Ernesto Sábato:

… e mi risvegliai di soprassalto, come davanti a un pericolo improvviso e perverso, come se nell’oscurità avessi toccato con le mie proprie mani la fredda pelle di un rettile”. Un senso d’inquietudine, quando non di vero e proprio pericolo, attanaglia gli spettatori fin dalle prime mosse del balletto, anche se non si svela mai chiaramente chi, tra i personaggi in scena, incarni la parte della vittima e chi quella del carnefice. Il tema del sacrificio rituale aleggia onnipresente sulla composizione finché non appare nel finale un simulacro dell’agnello a cui allude il titolo e il protagonista viene immolato su una sorta di altare ‘tombale’.

Nulla di troppo tragico e cupo però; al contrario, la scena è frequentemente ravvivata dai contrasti di colore delle vesti dei protagonisti - il rosso in primis - e da dissacranti tocchi di surrealtà ed ironia. Le movenze stesse dei danzatori sono incredibilmente leggere e fluenti, e scorrono con una naturalezza che sublima la padronanza tecnica sulle note di Johann Sebastian Bach. La sua musica, come dissero i contemporanei, rappresenta un atto di resistenza contro la scissione tra sacro e profano e, tramite il continuo alternarsi di un piano metaforico intriso di religiosità e i frequenti richiami alla vanità e alla lussuria insita nel comportamento umano, la coreografia sembra voler sanare l’eterna dicotomia tra bene e male riportando tutto sul piano del sogno. Qui tutto diventa possibile ed ogni persona è accettata per quello che è, al di là della sua apparente - e appariscente - diversità; in uno dei quadri più riusciti del pezzo, come in una vera sfilata di moda, sul palco si susseguono personaggi reali e fantastici di ogni sorta: dalle suore alle dame ornate di eccentrici cappelli e variopinti ombrellini, dagli uomini nudi a quelli dotati di tentacoli, in un incessante mutare di abiti e fogge che mette continuamente in crisi l’identità degli interpreti, ma allo stesso tempo sottende una rinascita sotto nuove vesti.

In questo assemblaggio variopinto di forme e suggestioni non è semplice trovare una via d’uscita e il protagonista sembra a tratti indietreggiare incerto nei meandri del suo universo interiore. In altri momenti avanza con sicurezza e senza esitazione, tentando di dare un senso al groviglio di corpi e di emozioni che lo circondano. E quando alla fine la nebbia che avvolge la scena si dirada e si chiude il sipario, tocca allo spettatore destarsi improvvisamente dal suo surreale torpore per interrogarsi sul senso profondo della propria esistenza.

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