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QT n. 3, marzo 2020 Trentagiorni

Il gallo cedrone e il nostro - smarrito - rapporto con la fauna selvatica

Alcune considerazioni prendendo spunto dall'uccisione di un gallo cedrone sulle piste da sci

Ivana Sandri
Un gallo cedrone

La sentenza con cui la giudice Carla Scheidle del Tribunale di Bolzano ha assolto Christian Gecele di Pieve Tesino dall’accusa di maltrattamento, per aver inferto ad un gallo cedrone “una serie di ferite senza una particolare necessità, agendo con crudeltà” (questa la tesi della Procura), riconoscendo all’imputato il principio di legittima difesa e quindi ribaltando completamente la tesi del Pubblico Ministero, ha sollevato molte perplessità. Il fatto era avvenuto il 6 aprile dello scorso anno sulle piste di Monte Pana nella zona di Santa Giustina in Val Gardena, dove Gecele stava sciando assieme al figlio quindicenne. A fronte del comportamento aggressivo di un gallo cedrone nei confronti del figlio, Gecele aveva affrontato il gallo con le racchette da sci, colpendolo ripetutamente e molto probabilmente ferendolo a morte (questa l’ipotesi delle guardie forestali che hanno segnalato la vicenda alla Procura).

Non intendiamo entrare nel merito della sentenza, non avendo letto gli atti, tuttavia non riusciamo a percepire come possa essere proporzionata una azione di difesa che porta a ferire e presumibilmente uccidere un animale che non supera i 4-5 chili di peso, nello specifico un gallo cedrone, specie riconosciuta in grave difficoltà. Alla questione hanno risposto esperti qualificati, ribadendo che quella messa in atto altro non era che una ben nota azione di difesa (certamente proporzionata alla possibile offesa, cioè ai danni, che l’uomo può arrecargli, seppure involontariamente), per scacciare gli intrusi dal proprio territorio: pertanto era sufficiente lasciare libero il campo, allontanandosi, e l’animale avrebbe desistito dall’attacco. Ma quanto successo apre la strada anche ad un altro scenario preoccupante: il distacco percettivo dell’uomo dal mondo naturale.

Nei tempi passati l’essere umano era direttamente vincolato agli ecosistemi naturali, pertanto il suo stesso benessere derivava dalla conoscenza e dalla capacità di adattarvisi. Negli ultimi decenni si è assistito a forti modificazioni sociali, che hanno comportato l’abbandono di attività tradizionali e l’allontanamento dell’uomo dal mondo naturale. Attraverso una sorta di auto-inganno, amplificato dalla manipolazione persuasoria dei media e dei social, percepiamo la montagna e la fauna come attraverso un filtro che distorce i contorni delle cose, impedendoci di conoscerle. Ciò ha provocato da una parte una visione disneyana dell’ambiente naturale, che deve sempre essere “buono” per tutto e tutti, scevro da pericoli, da consumarsi fra un aperitivo e l’altro al lounge bar della stazione d’arrivo della seggiovia. Un ambiente naturale in cui la fauna è rappresentata da caprette che fanno ciao, da mucche felici (con buona pace di chi cerca di insegnare che le “mucche” si chiamano vacche o bovine), volpotte desiderose di sgranocchiare un biscottino dalle nostre mani ed orsacchiotti pronti per un selfie, mentre mamma orsa sta nascosta per non spaventarci. Dall’altra parte, però, non avendo più un rapporto reale con gli animali veri, non comprendiamo quali di essi possano, ed in quali frangenti, rappresentare davvero un pericolo (chi mai ricorda che le pacifiche “mucche” che brucano paciose negli ubertosi pascoli alpini ogni anno causano incidenti, talvolta mortali?), non comprendiamo il loro comportamento, non li conosciamo più. Ecco, quindi, che siamo pronti a pensare che gli orsi non aspettino altro che di poterci aggredire e a scambiare cani lupo cecoslovacchi per lupi, ma nel contempo li rincorriamo con le macchine o li attiriamo con versetti e offerte di cibo, finché sono pucciosi cuccioletti, senza capire che da adulti magari cercheranno ancora la nostra vicinanza, perché gli avremo insegnato ad associare le persone all’offerta di cibo. Come siamo pronti a ritenere che il timido biacco (un serpentello innocuo) sia un drago da distruggere a colpi di pietra, oppure che la femmina di gallo cedrone che si trascina con passi stentati sia in difficoltà, correndo quindi a catturarla, per salvarla (senza capire che sta cercando di difendere le sue uova, fingendosi ferita per attirare lontano i predatori), oppure, infine, a credere di dover (poter) colpire un galliforme che sta tentando di allontanarci dal suo territorio, quando basterebbe “dargli soddisfazione”, salvandoci da qualche beccata e salvando ad esso la vita.

Ivana Sandri, etologa