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La delusione informatica

All'entusiasmo iniziale per la rete e i social, sono subentrate le preoccupazioni in tema di concentrazioni, privacy, sicurezza e altro. Da Una Città, mensile di Forlì.

Massimo Mantellini (a cura di Barbara Bertoncin)
socia network

Quello iniziale è stato un periodo di entusiasmo, che tuttavia è durato poco: l’idea di una rete dal potere taumaturgico anche su aspetti fondanti come la democrazia, la politica, la trasparenza, si è presto ridimensionata. Ma mentre negli Stati Uniti le aspirazioni a una democrazia elettronica sono finite attorno al Duemila, nel nostro paese sono cominciate 7-8 anni dopo, con Casaleggio che ripercorreva la stessa traiettoria, ignorando le riflessioni e le critiche che altrove erano già oggetto di dibattito.

Il fatto ad esempio che Facebook sia diventata una comunità così ampia, diffusa in tutto il pianeta, certamente non è un valore. Tanto più che Internet è nata orizzontale, con tanti piccoli cluster separati, allo stesso livello. Una volta che la rete diventa un unico enorme oggetto, aumentano in maniera esponenziale i rischi. La rete ci offre tanti esempi positivi, da Wikipedia a Internet Archive: insomma c’è un sacco di roba bella. Ma mentre chi ha una sufficiente cultura digitale troverà straordinarie opportunità, chi non ce l’ha, cioè la maggioranza delle persone, incapperà in alcuni rischi da non sottovalutare. Non resta che cercare di governare questa fase facendo sì che le persone acquisiscano sempre maggiore competenza e consapevolezza.

“Immuni” secondo me è un ottimo esempio delle aspettative deluse. La app era partita malissimo. Ma a parte questo, mi ha colpito il fatto che in un momento di grave crisi, con centinaia di morti al giorno, sia partita una discussione erudita e piena di sofisticate contestazioni sulla app di tracciamento. Se io risulto positivo al tampone, devo dare i nomi di tutte le persone che ho incrociato perché è un’emergenza sanitaria, punto. È parso invece che nell’ambiente digitale l’emergenza non esistesse. Io sarei stato brutale nell’utilizzo dello strumento digitale. Non capisco perché, se uno viola la quarantena “analogica” rischia sei mesi di carcere e invece, nel caso della app, si può decidere se stare in quarantena o non dire niente a nessuno.

Anche la discussione sui dati... Già oggi i nostri dati sensibili sono nel fascicolo sanitario. Il tema casomai è che questi dati vanno tutelati, ma non che i dati sono miei e ne faccio quel che voglio.

Comunque probabilmente Immuni non avrebbe ugualmente funzionato, perché in questo paese il 50% delle persone non ha accesso agli ambienti digitali.

I dati e gli algoritmi

Poi c’è la questione dei famosi algoritmi. L’impressione è che questi funzionino bene negli ambienti economici, cioè nella costruzione del profilo dei consumatori, molto meno in campo politico. Per un certo periodo Facebook è stato considerato il motore silenzioso delle primavere arabe: grazie ai social network i giovani si organizzavano per ribaltare i regimi dittatoriali. Dopodiché, all’improvviso, Facebook è diventato lo strumento di controllo delle dittature.

La parte relativa invece ai profili dei consumatori è importante e anche preoccupante. Mentre siamo su Facebook, Twitter, ecc., regaliamo una serie di informazioni commerciali ad aziende che tra l’altro non sono italiane. In conclusione, mi pare che alle persone, tutto sommato, i propri dati non interessino troppo.

C’è comunque da dire che questi dati molte volte sono finti. In un saggio intitolato “The fan dance”, Nathan Jurgenson e P.J. Rey sostengono che negli ambienti digitali ciò che celiamo e ciò che rendiamo pubblico non sono elementi a somma zero (quelli in cui se aumenta uno diminuisce l’altro), ma che le tecnologie digitali e i social media in particolare incrementano sia la nostra esposizione che la nostra privacy. Io posso cioè esporre moltissime cose di me e tenerne nascoste moltissime altre. Questo evidentemente sballa il grafo sociale di Facebook perché io posso risultare molto diverso da come sono effettivamente.

Si sente spesso dire che, con i social, la privacy non esiste più: beh, non è vero. Mia figlia e i ragazzini come lei non espongono se stessi; espongono la parte di sé che ritengono sia più utile. Quindi ciò che le aziende vendono ad altre aziende è in fondo un’immagine falsa dei potenziali clienti; e il discorso vale a maggior ragione per gli orientamenti politici.

Da un social all’altro

A fine anni ‘90 gli adolescenti stavano su MySpace; era il loro spazio vitale, c’erano solo loro. Quando hanno iniziato a frequentarlo anche gli adulti, i ragazzi hanno smesso di andarci. Lo stesso è successo su Facebook; anzi, forse su Facebook i ragazzi non ci sono mai stati. Ma il motivo è banale: se lo immagini come un luogo sociale, una piazza, le generazioni non si mescolano più di tanto, anzi cercano di evitarsi.

Oggi TikTok per un adolescente è diventato una specie di Facebook. Poi c’è Instagram, soprattutto la sua parte privata, le dirette, i messaggi che non si vedono, le storie limitate alla propria cerchia... Probabilmente gli adolescenti in futuro troveranno altri luoghi. Questo da un certo punto di vista è positivo. Perché il rischio di queste grandi piattaforme è proprio quello della concentrazione, del monopolio.

Una cosa che dico sempre è che le grandi piattaforme non dovrebbero poter acquisire le società in crescita. Oramai appena viene fuori un nuovo social per i ragazzini, Facebook lo compra. Questo andrebbe impedito. Tra l’altro esistono delle norme dell’Antitrust molto semplici. Ora si parla di unire le chat di Messenger, WhatsApp e Instagram. Sarebbe pericoloso, perché i fenomeni distorsivi che abbiamo imparato a conoscere incontrerebbero molte meno resistenze.

Controllare la rete?

Attualmente il sistema censorio più importante, quello relativo alla pedopornografia, è una banale blacklist che periodicamente viene mandata ai provider, per cui basta cambiare il dns (Domain name system) per continuare a vederli tranquillamente.

Sul tema del controllo, però, a preoccupare è un’altra questione, più rilevante: una crescente tendenza al monitoraggio politico. La vicenda di Edward Snowden, l’informatico che svelò diversi programmi di sorveglianza di massa dei governi statunitense e britannico, è emblematica. Ora si discute di Huawei. La verità è che oggi i cinesi tecnologicamente possono fare ciò che negli Stati Uniti si fa da sempre. In questo l’Europa non conta niente. Noi abbiamo delle bellissime normative, ma poi se il problema è la tutela dei dati e le piattaforme sono tutte americane... Le piattaforme che hanno un numero rilevante di clienti in un paese dovrebbero essere “localizzate” in quel paese. Cioè avere una sede ed essere responsabili localmente. Il tema non è solo quello fiscale, ma anche civico, sociale. In Italia ci sono 30 milioni di profili Facebook, un italiano su due. È possibile che qualunque cosa succeda in quel contesto, per risolverla dal punto di vista legale si debba fare una rogatoria in California?

Questo è un discorso che in Italia non fa nessuno. È più facile minacciare la chiusura, ma la vera sfida è la regolamentazione delle piattaforme. In Francia, Macron ci ha provato, ed è andata male, ma la strada è quella. Se uno mi diffama su Facebook, io devo poter accedere subito a un tribunale italiano; altrimenti passa il concetto che nelle piattaforme si può fare qualunque cosa, tanto non succede niente.

Ammalati sul web

C’è un aspetto sentimentale fortissimo nei social. Recentemente una ragazza con un figlio piccolo ha raccontato su Twitter di non riuscire ad arrivare alla fine del mese. Un’enorme platea di persone si è subito mobilitata. Casi analoghi sono all’ordine del giorno.

Sulla malattia il discorso è forse più complicato, nel senso che lì emergono i diversi approcci delle persone. Tre-quattro anni fa ho fatto un brutto incidente in bicicletta: avevo una brutta frattura alla spalla e poi una lunga riabilitazione. Di questa cosa io, che da vent’anni pubblico qualunque sciocchezza, non ho fatto parola nei social. Oggi vedo che moltissimi hanno un atteggiamento opposto: se finiscono al pronto soccorso perché temono un’appendicite, la prima cosa che fanno è postare una foto o un messaggio. Il che conferma quanto dicevamo prima sulla privacy: non è vero che tu sei trasparente. Tu dici alla società quel che ti pare. Insomma, è evidente che ci sono approcci diversi, tutti probabilmente legittimi. Molti ricevano conforto esponendosi durante la malattia e questo fa stare meglio sia loro che, forse, chi vive condizioni simili.

Il libro: da rivalutare

Una delle grandi aspirazioni di Internet era quella documentale: dopo essere vissuti per secoli con le biblioteche che bruciavano, improvvisamente tutta questa roba era al sicuro (c’è voluto un po’ per capire che non è vero: studi recenti dicono che anche nel caso delle risorse accademiche, quelle che dovrebbero essere le più tutelate, nel giro di dieci anni il 40% dei link non funziona più, le pagine web scompaiono).

Anni fa la Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti avviò un progetto per archiviare tutti i tweet, una cosa apparentemente assurda. Dietro però c’era una logica: dentro quella enorme quantità di materiale inutile, offensivo, stupido, passano anche cose rilevanti per la storia e quindi, se tu le archivi, avrai poi la possibilità di ripescarle. Il classico esempio è quello dei tweet dell’informatico pakistano che all’una di notte del 1° maggio 2011 sentì un elicottero passare sopra casa sua ed erano i Navy Seals americani che andavano a far fuori Bin Laden. Quello è un reperto storico ed è su Twitter.

Ecco, cosa succederà quando l’ambito storiografico sarà fatto di voci? La speranza della rete era che tutti i dati rimanessero a disposizione e quindi un domani vi si potesse accedere. Cosa succede nel momento in cui le parole non sono più scritte, non sono più archiviate su una pagina web perché quella pagina web muore?

Eco diceva che il libro sarebbe sopravvissuto perché è una fenomenale macchina di archiviazione. Io lo prendevo in giro per questo, ma ora inizio a pensare che non avesse poi torto. In fondo il libro è durato duemila anni. In radiologia abbiamo delle Tac che fino al 2008 erano archiviate su dei dischi magnetici della Philips che fra un po’ nessuno potrà più leggere. Questo vale un po’ per tutto; insomma, siamo in un guaio grosso.

* * *

Massimo Mantellini scrive di nuove tecnologie dagli anni ‘90 su Punto Informatico, Internet Magazine, Il Sole24ore, L’Espresso, Il Post, Fanpage. Dal 2002 aggiorna Manteblog, uno dei più letti blog personali italiani. Tra le sue pubblicazioni, “Bassa risoluzione”, Einaudi 2018 e “Dieci splendidi oggetti morti”, Einaudi, 2020.

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