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Donne e giovani in marcia

Vogliono risvegliare il Sudtirolo

Gli abitanti del Sudtirolo non sono stati certo i più disciplinati nel rispetto delle norme di protezione della pandemia di Covid19. Però appena una parte si è vaccinata, e ci si è sentiti più al sicuro, a mezza estate, al silenzio dei lockdown e al timore dei contatti, è seguita una reazione di clamore, fatta di motori e di urla notturne, ovunque e con ogni motivo, e non solo per le gare di calcio.

Non tutti però si sono dedicati all’ubriacatura di gruppo che va tanto di moda. Ma ci sono stati anche coloro che hanno usato questo tempo chiuso per riflettere. E negli ultimi giorni di settembre, mentre ancora montagne e città sono strapiene di turisti, su due piazze del capoluogo si sono visti i frutti di questo pensare e organizzarsi. Una fioritura di intelligenza (nel senso di comprensione di ciò che è vero ed essenziale) e di voglia di partecipare come protagoniste/i al cambiamento di cui si sente il bisogno e che si sente nell’aria, nonostante la cappa dell’informazione unica.

500 donne, sabato 25 settembre, hanno dato vita a una dimostrazione: un corteo, con alla testa i tamburi per “risvegliare il Sudtirolo”, è arrivato in piazza Walther. Lo scopo era di attirare l’attenzione sulla condizione delle donne, non solo vittime di violenza e assassini, ma discriminate e svantaggiate in tutti gli ambiti della loro vita. Un’indagine dell’ASTAT ha riportato un dato inquietante: mentre l’86% degli uomini in Sudtirolo si sentono sicuri, solo il 61% delle donne dice altrettanto.

Le giovani donne portavano sedie bianche, su cui erano scritti i nomi delle vittime di femminicidio, e altre scritte nelle tre lingue della provincia sulle ingiustizie, sulla mortificazione del talento e sulle loro speranze. Le hanno deposte in piazza Walther, e lasciate lì per tutto il giorno. Una ha letto i nomi delle assassinate, uno per uno. E poi hanno spiegato a chi non se ne sia ancora accorto, che anche nella nostra provincia, le donne vengono pagate di meno, - il differenziale retributivo è del 17.2 % a svantaggio delle donne; - occupano pochi posti nelle fasce dirigenziali; che anche se a scuola riescono bene, anzi meglio, la loro preparazione non viene adeguatamente riconosciuta; sono costrette al part-time, perché mancano i servizi alla famiglia. La provincia ricca, che si vanta del suo bilancio sempre in aumento, scarica sulle loro spalle la cura di figli e anziani, che significa fatica fisica e psichica, e povertà in età avanzata, perché il lavoro di cura viene considerato “naturale”, ma solo per le donne.

Nella piazza si sentiva una voglia nuova di prendere l’iniziativa, dopo la lunga pausa seguita alle grandi conquiste degli anni settanta, che hanno cambiato la situazione giuridica delle donne, ma cui non è seguito né il cambiamento della cultura né della politica economica e sociale. Ma le giovani di oggi, la maggior parte delle quali hanno studiato, si sono rese conto che non basta essere brave, che la conciliazione di lavoro e lavoro di cura è impossibile se non condivisa con la parte finora assente della famiglia e cioè gli uomini. C’è bisogno che i maschi vengano educati e si educhino all’eguaglianza di doveri verso i lavori di cura. E che la politica smetta di fare promesse ed auto esibizioni, e ascolti la voce delle persone. Come sta accadendo per la legge provinciale “Interventi di prevenzione e contrasto della violenza di genere e di sostegno alle donne e ai loro figli e figlie”, che introduce i concetti di prevenzione, la formazione antiviolenza per i colpevoli, l’avvio di sensibilizzazione precoce e sostenibile nelle scuole e nelle associazioni sportive; istituisce un fondo di solidarietà per sostenere donne e figli/e e il referente sulla violenza in ogni comune (116). Però, dopo un iniziale ascolto dei centri antiviolenza che gestiscono le case delle donne - che in provincia attualmente sono cinque, e che dal 1989 hanno svolto un lavoro enorme sia nella prevenzione che nel sostegno, - la giunta ha approvato in fretta il disegno di legge senza tener conto dei suggerimenti dei centri.

Dice, accorata, Christine Clignon, presidente di GEA: “In alcuni passaggi il ddl è molto distante dai bisogni reali delle donne costrette ad affrontare una situazione di violenza. Tra i punti più problematici troviamo sicuramente la questione degli sportelli pubblici, esaltati con molto entusiasmo e che l'assessora vorrebbe istituire in ogni comune della Provincia, dal più popoloso a quello più isolato e abitato da poche centinaia di persone. Tuttavia uno sportello pubblico, per ragioni più che ovvie, non può garantire l’anonimato che invece è uno degli aspetti più importanti per le donne che tentano di intraprendere un percorso di fuoriuscita da una situazione di violenza: lo stigma è fortissimo. La vergogna, il doversi interfacciare con la cosa pubblica sono aspetti altrettanto spaventosi. Tutto questo deve essere gestito con professionalità e sappiamo che le professionalità non si improvvisano ma sono il frutto di un lungo percorso che comprendono esperienza sul campo e formazione continua. Lo sportello così inteso non garantisce infine un altro aspetto fondamentale, se non il più importante, che è quello del filo diretto, una risposta immediata di accoglienza e ascolto professionale che solo appunto i centri antiviolenza sono in grado di offrire. Il rischio è che questa legge aggiunga ulteriori ostacoli alle donne che cercano di rompere il silenzio, ostacoli che invece andrebbero rimossi”.

L’appello a ripensare a questi punti non ha avuto per ora riscontro. Neppure sul punto delicato di chi gestirà i corsi per gli uomini violenti, che appare per ora l’ennesimo slogan. "La violenza domestica – ha detto Clignon - è una questione di potere e di controllo. Affinché un uomo maltrattante possa cambiare è necessario che prenda coscienza della responsabilità delle sue azioni. Possono essere d'aiuto dei gruppi di ascolto maschili, ma è fondamentale che si lavori sull'assunzione di responsabilità".

In provincia di Bolzano è quasi una regola che la cittadinanza attiva venga ignorata. Altri sono coloro che vengono ascoltati, non certo coloro che si impegnano per migliorare la società.

La data della manifestazione “Donne in marcia” di Bolzano, a lungo preparata da diverse associazioni, è coincisa con quella che in tutta Italia è sorta spontaneamente e che ha avuto come motto “Tull Quadze”, che in lingua pashtu, una delle due lingue dell’Afghanistan, significa, “tutte le donne”. Molte si sono radunate in diverse città italiane, insieme a donne afghane rifugiate, per affermare che i diritti all’istruzione, alla libertà di movimento, al lavoro, alla sicurezza, e la libertà di esistere e di scegliere riguardano tutte le donne del mondo. E anche in quelle piazze si è parlato di Rivoluzione della cura, cioè un cambiamento radicale dei paradigmi del potere al maschile. Un bel segnale di risveglio.

E il giorno prima, in piazza del Tribunale, si sono ritrovati, dopo la lunga assenza fisica, le/i giovani di Fridays for Future. Erano tanti e tante, ma meno di altre volte, perché molte scuole hanno avuto l’ordine di non giustificare le assenze. Una preside, a Rai Südtirol, ha tuonato per la scarsità di preavviso da parte degli organizzatori: ma in verità, il 24 era giorno di manifestazione per il clima in tutta Europa, già noto da tempo.

Ovunque, da Roma a Milano, a Berlino, scuole intere si sono preparate con scolari e docenti e hanno trasformato l’evento in occasione di formazione scientifica, politica e umana. Anche in piazza del Tribunale c’erano due classi intere, accompagnate dai docenti. Ragazze e ragazzi delle media di Salorno, consapevoli dell’importanza della giornata: “Il nostro futuro è in pericolo, è il momento di rispondere al richiamo di aiuto della Terra, perché la Terra è in pericolo” hanno detto. Erano presenti anche diverse altre associazioni e comitati, fra cui Salviamo le api, No-Airport, Vegan for future, Direkte Demokratie.

Gli interventi dei giovani attivisti di FFF sono stati come sempre essenziali, informativi e chiari. Hanno ribadito la necessità di accelerare il cambiamento, l’urgenza di intervenire per salvare la vita umana sulla Terra.

Una delle oratrici ha detto: “La giunta provinciale ha ripresentato un piano per il clima, che però non è conforme, è solo una bozza: speriamo che quando arriverà in versione definitiva sia elaborato in maniera più seria. Per adesso non basta”. La loro serietà e consapevolezza contrasta fortemente con l’arretratezza e l’ipocrisia della politica locale: distratta, assente, succube delle lobby economiche, pronta a dare ragione a parole per “lisciare” i giovani e poi correre ad approvare nuove cementificazioni, tagli di parchi e boschi, l’aeroporto e abolire norme di tutela della natura.

Molto critico verso la giunta provinciale è stato Andreas Riedl, direttore del Dachverband für Natur und Umweltschutz, Federazione per la natura e la tutela dell’ambiente. Richiesto di un parere sui nuovi impegni per il clima assunti dalla giunta, ha risposto: “Il piano non è stato ancora pubblicato. E ci delude ciò che l’assessore Vettorato ha mostrato in conferenza stampa: non s’è ancora capita l’importanza e la priorità che dobbiamo dare all’emergenza climatica. A dieci anni dalla nascita del Piano per il Clima, scopriamo dal suo aggiornamento come tutti gli obiettivi che ci siamo posti non siano stati raggiunti: emettiamo troppa CO2, consumiamo troppa energia, la percentuale di rinnovabili è al di sotto della soglia autodefinita nel 2011. Gli obiettivi fissati non sono sufficienti per raggiungere la neutralità climatica e di emissioni non tanto nel 2050 – che è l’orizzonte globale – quanto nel 2030. Il Sudtirolo potrebbe con le sue risorse dare il buon esempio”. Ma non è così.

Donne e giovani si sono messi in marcia. I politici regionali forse saranno costretti a cominciare a lavorare per il bene della cittadinanza e non solo per i propri interessi.