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La maledizione delle risorse

Diario di un viaggio in Congo, ricchissimo dei “minerali dei conflitti” e al contempo poverissimo. Da “Una Città”, mensile di Forlì

Qualche anno fa un operatore umanitario mi disse che se non ero mai stato in Congo era come se non fossi mai stato in Africa. A me sembrava di aver già vissuto tante esperienze in quel continente, ma evidentemente mi ero perso qualcosa. Ecco che finalmente si presenta l’occasione di colmare questa lacuna.

Ma aprendo il capitolo Congo appare subito evidente quanto sia piccola in confronto la dimensione della nostra missione. Si tratta infatti di raccontare le sfide e le difficoltà di conciliare la conservazione della natura di un parco nazionale con le necessità di sopravvivenza della popolazione. La zona protetta è il Parco Nazionale dell’Upemba, nella regione del Katanga, sud est della Repubblica Democratica del Congo. Dal 2018 la ong italiana Coopi, in collaborazione con l’Istituto Congolese per la Conservazione della Natura e con fondi dell’Unione europea, ha avviato un progetto di conservazione partecipata; in sostanza bisogna far sì che la gente che vive intorno al parco non sia costretta a uccidere gli animali per poter sopravvivere.

Pur essendo la regione ricchissima di minerali (rame, stagno, zinco, oro, diamanti, coltan, cobalto), la popolazione del Katanga vive in povertà. Un paradosso di molte regioni nel sud del mondo. Quello che il geografo Richard M. Auty chiamava “la maledizione delle risorse”. Nel caso del Parco dell’Upemba la vittima collaterale del conflitto per le risorse è la Natura.

Per il Congo la maledizione delle risorse va avanti da quando queste erano costituite dagli schiavi e la tratta era in mano a portoghesi, commercianti afro-arabi e a M’siri, un autoctono che grazie al commercio fondò un vero e proprio regno nel Katanga. Poi l’avorio e soprattutto la gomma di re Leopoldo II del Belgio. Durante quest’ultimo periodo (1886-1908) si stima che per mano belga siano morti tra i 4 e i 5 milioni di congolesi.

Oggi sono i minerali la risorsa maledetta: minerali che da sempre hanno innescato conflitti sanguinosi e attività predatorie internazionali, e che oggi costituiscono la base di un circolo vizioso in cui i minerali vengono usati per finanziare gruppi armati. E a farne le spese sono i civili congolesi.

In viaggio

Lubumbashi è la città più importante del Katanga, ha circa 2,7 milioni di abitanti ed è il cuore economico del Paese. Il 21 febbraio del 2021 i miliziani del gruppo Mai Mai hanno attaccato una caserma della città e l'eco delle violenze si avverte ancora: alle 9 di sera le vitalissime strade si svuotano ed entra in vigore una sorta di coprifuoco. La spazzatura viene raccolta e data alle fiamme direttamente in strada, l’aria si satura della puzza di plastica bruciata e le vie deserte sono illuminate dai falò.

Sulla strada che da Lubumbashi ci porta verso Mitwaba e il Parco dell’Upemba, scorre un traffico particolare. È la strada dell’estrazione mineraria. Ci sono camion che trasportano verso sud rame in lastre o cobalto grezzo, destinati a essere imbarcati verso l’Asia nei porti di Tanzania e Sudafrica. Ad andare a nord, verso le città minerarie di Likasi e Kolwezi, gli articolati trasportano invece cisterne di acido, sacchi di calce e di zolfo, ingredienti per la prima lavorazione dei minerali.

A pochi chilometri da Lubumbashi ci fermiamo al memoriale dedicato a Patrice Lumumba, il primo ministro congolese fucilato per ordine dei belgi il 17 gennaio 1961, a soli sei mesi dalla dichiarazione di indipendenza. Aveva 35 anni. I suoi discorsi incendiari avevano fatto sperare ai connazionali che le risorse del Congo sarebbero rimaste nel paese e avrebbero portato sviluppo e benessere.

Il memoriale è stato da poco inaugurato con cerimonia ufficiale. L’occasione è stata la restituzione dell’unica reliquia rimasta di Lumumba: un dente. Dopo la fucilazione, infatti, un poliziotto belga sciolse nell’acido il suo corpo. Custodito in Belgio, nel 2016, su pressione della famiglia Lumumba, la procura federale del Belgio ha ordinato che venisse restituito ai parenti. Eliminato lo scomodo Lumumba, cominciò l’era di Mobutu, che per 32 anni è stato il garante degli interessi occidentali in Congo.

La città del rame è Likasi: camion e polvere riempiono la cittadina, i negozi sono per lo più ferramenta che vendono quel che serve agli operai delle aziende estrattive. Nel 1892 erano stati scoperti in questa zona i giacimenti di rame più ricchi del mondo, le miniere che divennero la base dell’espansione militare ed economica dell’Occidente. In seguito fu l’uranio: per molti anni la miniera di Shinkolobwe-Tantara, a ovest di Likasi, fu la più importante al mondo, il suo uranio era contenuto nelle bombe di Hiroshima e Nagasaki.

Superata Likasi, prendiamo il bivio che ci porterà ai confini del Parco dell’Upemba. Proseguendo saremmo arrivati a Kolwezi, la città del cobalto, materia prima delle nostre batterie quotidiane.

Ora la strada non è più asfaltata, i tetti di lamiera delle capanne lasciano il posto a quelli di paglia. Si viaggia per ore nella polvere e gli articolati sono spariti: qui comincia la terra dello sfruttamento artigianale, dove avventurieri, uomini e donne in cerca di che sopravvivere, scavano per cercare oro e cassiterite, il minerale da cui si ricava lo stagno.

Dopo qualche decina di chilometri, un cartello con la scritta “Bunkeya” ci dà il benvenuto nell’antica capitale del regno di M’siri, il commerciante di avorio e schiavi della seconda metà dell’800, i cui seguaci esigevano tasse e seminavano il terrore tra la popolazione. M’siri può essere considerato uno dei primi signori della guerra della regione: le risorse maledette in questo caso erano avorio e schiavi.

Tutti i re del Katanga si opposero alla conquista belga. Soprattutto M’siri, che venne ucciso nel 1891 dai soldati belgi come, in rapida successione, furono uccisi anche i principali capi dei regni Luba e Lunda. Suo figlio, Mukanda Bantu, fu costretto ad arrendersi e ad allearsi con gli europei. In cambio della cessione per lo sfruttamento delle terre del regno, ricevette: un cappello rosso, una tunica, un rotolo di tela, una dozzina di casse di liquore, quattro damigiane di rum, due casse di vino, 128 bottiglie di gin, venti fazzoletti rossi, quaranta berretti da notte, anch’essi rossi.

A parte l’evidente propensione di M’siri per il rosso, fa riflettere la quantità di alcol presente nel contratto. In effetti una delle strategie dei belgi per domare la popolazione fu l’alcolizzazione, decisa dall’ufficio preposto agli studi psicologici delle colonie.

Oggi Bunkeya è un grande villaggio indaffarato, simile a tanti. Ma pare che qui non ci si possa fermare: la sua autorità tradizionale, riconosciuta dal governo centrale (lo chef coutumier) si sente il discendente di M’siri e della cittadina ha fatto il suo feudo. Gli stranieri bianchi, in particolare, non sono benvenuti.

Al tramonto arriviamo a Mitwaba, un grande villaggio ai confini del Parco dell’Upemba. Passiamo accanto al cantiere di una pista aeroportuale decisamente sproporzionata, di almeno tre chilometri, adatta al decollo e all’atterraggio di un Boeing. Cosa si prevede? Non certo l’arrivo di turisti, piuttosto l’industrializzazione delle attività minerarie. Sulla scavatrice del cantiere riposa un operaio cinese. Negli ultimi anni la Cina ha consolidato la sua presenza nel Paese attraverso la firma di contratti che le assicurano un accesso duraturo alle risorse minerarie.

Per adesso l’attività mineraria intorno a Mitwaba è ancora in prevalenza artigianale e avviene nelle cave a cielo aperto che circondano la cittadina. Qui si estrae la cassiterite, uno dei minerali con cui si autofinanziano le milizie del Katanga, nella fattispecie i Mai Mai. È passato un anno da quando il 29 gennaio del 2022 il loro capo, Gédéon Kyungu Mutanga, è entrato a Mitwaba proclamandosi leader indipendentista dell'Alto Katanga, con l’intento di estendere la secessione a tutta la regione.

Mitwaba è una cittadina che vive di piccoli e piccolissimi commerci, dove fino agli anni Duemila al mercato si poteva trovare carne di antilope, zebra ed elefante. La gente sopravviveva andando a cacciare nel Parco.

Il Parco

Oggi a garantire la sopravvivenza del Parco sono i ranger dell’Istituto Congolese per la Conservazione della Natura, insieme al personale della Ong americana Forgotten Parks Foundation.

Il Parco fu fondato dai belgi nel 1939 ed è uno dei più antichi ed estesi. Pare che qui vivano oltre 1.800 specie di piante e animali, tra cui leoni, leopardi, elefanti, bufali e l’impala del Katanga.

Nella base del Parco vivono circa 60 ecoguardie, ranger armati che, insieme agli altri 194 distribuiti in diverse altre zone, cercano di fermare il saccheggio: un conflitto che negli anni ha riempito il piccolo cimitero del campo base. L’ultima vittima, il comandante, è stato ucciso dai miliziani Mai Mai pochi mesi fa.

Fino al 2015 il Parco non riceveva finanziamenti e i ranger campavano uccidendone gli animali. Ma la devastazione era cominciata già durante le guerre degli anni '90: il regime di Mobutu aveva prosciugato le casse dello stato e il dittatore aveva invitato i militari a procacciarsi il cibo da soli. Finché nell’ottobre 2015 diventa direttore del Parco Rodrigue Mugaruka Katembo, che ha risollevato la situazione.

Christina Lain, attuale direttrice, è sotto pressione su vari fronti: dirige un esercito di ranger ai quali deve restituire morale e fiducia, oltre che garantire uno stipendio. Ma gli animali stanno lentamente aumentando, l’attività dei bracconieri è più sotto controllo e quella dei Mai Mai confinata e monitorata. Il problema rimane la pressione degli interessi minerari.

In generale, in Congo e in tutta l’Africa subsahariana, la conservazione è bianca, o come tale viene percepita. Siamo spesso noi occidentali a imporre politiche di conservazione e a volte queste politiche non sono state abbastanza rispettose delle popolazioni. È dunque facile convogliare la sacrosanta critica al neocolonialismo contro lo spirito ambientalista occidentale.

La colonizzazione prima e decine di anni di guerre e di violenze hanno distrutto le tradizioni e il tessuto socio-economico delle comunità. La gente coltiva lo stretto necessario e non alleva. Meno si ha, meno viene estorto, meno tempo è necessario per scappare, meno cose si lasciano indietro. Per il Coopi, l’unica ong qui presente, intervenire significa recuperare conoscenze e tradizioni e migliorarle attraverso il sapere moderno. Significa reintrodurre varietà locali adatte alle condizioni del suolo e alle pratiche colturali degli abitanti; fornire semi di mais, fagioli, riso, soia, arachidi, che possano dare rese migliori e che siano adatti a essere ripiantati per più cicli di produzione.

Anche lavorare sull’allevamento significa svincolarsi dalla logica di minima sussistenza. Si creano allevamenti comunitari di cui tutto il villaggio segue l’evolversi. Al momento, nel villaggio di Kawama si ricomincia dalle capre. Un tempo avevano anche delle mucche, ma i militari e i Mai Mai le hanno uccise per mangiarle.

Veniamo a sapere che il territorio del Parco dell’Upemba è stato individuato come uno dei 27 blocchi aperti alla prospezione petrolifera. In televisione, il presidente Thisekedi lancia l’apertura della gara d’appalto. Per evitare le trivelle, l’unica possibilità del Parco dell’Upemba è candidarsi a diventare patrimonio mondiale dell’Unesco.

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