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Andreas Hofer fra storia e retorica

Due giubilei a confronto: dai minacciosi conflitti del 1909 a una celebrazione monocorde

Marco Bellabarba
Il vescovo e gli Schützen alla cerimonia di commemorazione del pellegrinaggio di Andreas Hofer a San Romedio

La Storia incontra il futuro: con questo titolo accattivante il sito web www.1809-2009.eu accoglie i navigatori curiosi di conoscere come le province del Trentino, Tirolo del Sud e del Nord ricordino il bicentenario della sollevazione antinapoleonica guidata da Andreas Hofer. Cliccando qua è là, la prima impressione è che un unico filo d’interpretazioni unisca le pagine del sito. Sia nei discorsi ufficiali che nelle brevi didascalie a corredo degli eventi si racconta una storia precisa della rivolta: quella di un territorio oggi separato dai confini nazionali ma che un paio di secoli fa seppe trovare un’identità regionale e politica nella lotta contro l’odiato invasore franco-bavarese. I materiali presentati non lasciano adito a dubbi: trentini, tirolesi tedeschi, genti ladine, rischiarono allora le proprie vite e combatterono, talora duramente, per un idea condivisa.

Forse non c’è mai stata una così vasta adesione del discorso politico ufficiale attorno a un episodio del passato. Il che, per un territorio abituato a dividersi anche su piccole gocce delle propria memoria, sembrerebbe un passo in avanti. Ma lo è solo in parte, poiché una storia così monocorde e armonica rischia di invece di allontarci dal nostro passato.

Ben inteso: pericoli di questo genere si addensano su tutti i “fatti” storici quando cadono prigionieri delle celebrazioni. E a questo riguardo non fa eccezione la rivolta del 1809, che è arrivata fino a noi avvolta da una spessa cappa di letture. A partire da quelle che circondarono un secolo fa, nel 1909, il primo grande giubileo hoferiano. Lo ha mostrato benissimo Laurence Cole che a quell’evento ha dedicato molte pagine di un libro importante (‘Für Gott, Kaiser und Vaterland’. Nationale Identität der deutschsprachigen Bevölkerung Tirols 1860-1914, Frankfurt M./New York 2000). Conviene partire da un veloce riassunto delle sue tesi; non tanto per un’analisi della rivolta in sé, quanto per seguire come essa penetrò nelle letture degli storici e dell’opinione pubblica di allora. Che furono molte, di segno diverso e, questo è il punto, nient’affatto coincidenti.

Nella sede dell’Euroregione a Bruxelles il presidente Luis Durnwalder, il governatore del Tirolo Günther Platter e l’asssessore Franco Panizza inaugurano una mostra dedicata agli eventi del 1809. Immagini tratte dal sito http://www.1809-2009.eu

A ridosso del 1809, spiega Cole, di Hofer si parlò poco e malvolentieri. La figura dell’oste della val Passiria era stata scoperta dai romantici inglesi e tedeschi, che ne avevano esaltato il valore nelle guerre contro Napoleone. Da parte sua, il ceto dirigente tirolese cercò di assecondare questo frammento di epopea bellica regionale in chiave di attrazione turistica (alcune sale del museo Ferdinandeum, inaugurato a Innsbruck nel 1823, vennero subito decorate con cimeli hoferiani) e di supporto alla politica perseguita nei confronti del governo viennese. Dalla capitale dell’impero, al contrario, nessun aiuto. Secondo il punto di vista del prudentissimo principe Metternich, Hofer restava nient’altro che un pericoloso ribelle. Nei dicasteri imperiali si dimenticò che la rivolta era nata con l’aiuto delle loro truppe (e che senza di esse non sarebbe probabilmente nemmeno scoppiata): il pericolo di esacerbare le velleità di altre rivendicazioni nazionali consigliò insomma un’estrema prudenza. Così, la politica conservatrice di Vienna impedì che lungo tutto il periodo della Restaurazione la rivolta trovasse accoglienza nel discorso storico ufficiale.

Neppure i liberali tirolesi e trentini avevano alcun motivo per commemorare le gesta hoferiane: asserragliati nei governi municipali di Innsbruck, Trento o Bressanone, le élites borghesi consideravano i fatti del 1809 un simbolo di quanto ostacolava la strada verso la modernizzazione regionale. Poi, con gli anni ‘60 e ‘70 del secolo, tutto cambiò. Prima di tutto a Vienna. Ai liberali tedeschi, gruppo politico egemone dopo il 1848, sfuggì il controllo del Parlamento viennese; così, anche in Tirolo il timore della perdita d’influsso politico li avvicinò ai conservatori e ai cristiano sociali nel sottolineare i valori della Heimat regionale. A questo punto, tutto era pronto per far risorgere Andreas Hofer dall’oblio in cui era caduto, facendolo passare da ribelle a simbolo della Heimat tirolese..

In ques’atmosfera, con un lavorio preparatorio durato anni, venne organizzato il giubileo del 1909. Sulla carta, esso richiedeva la piena partecipazione di ogni componente etnica regionale: “Vedo con viva gioia che ambedue le nazioni cooperano in pieno accordo al bene della loro patria”, commentò soddisfatto Francesco Giuseppe alla sfilata degli Schützen a Innsbruck. In realtà le cose andarono diversamente. Dei 33.000 partecipanti ufficiali (uno su otto degli abitanti del Tirolo tedesco sopra i 16 anni) i trentini non superarono la quota dei 2500-2800, i quali, oltre a sobbarcarsi i costi del viaggio, subirono le proteste delle circa 3000 persone riunitesi alla stazione di Trento per protestare contro la loro partenza. Di questa partecipazione in sordina - lo spiega sempre Cole verso la fine del libro - erano responsabili in gran parte le stesse autorità tirolesi. Per rivitalizzare la tradizione militare degli Schützen, quasi scomparsa ovunque fino agli anni Settanta, il governo di Innsbruck aveva investito in discorsi politici e in generose sovvenzioni finanziarie. Ma la rinascita dei corpi di tiratori volontari non era mai scesa al di sotto di una certa linea geografica: in parte a causa della povertà dei contadini trentini, in parte per uno strisciante senso di sfiducia delle gerarchie militari, gli Schützen di lingua italiana erano cresciuti di poco. Con l’amaro risultato, tra l’altro, che i giovani del Tirolo italiano entravano nei lontani reggimenti delle armate regolari austriache in numero maggiore dei loro coetanei settentrionali.

Nonostante una patina superficiale di concordia etnica, il giubileo del 1909 si indirizzò soprattutto al pubblico tedesco. Nato per ricomporre lacerazioni interne al ceto dirigente tirolese, lo si utilizzò a questo fine. Mentre il centro dell’impero scricchiolava, le periferie si chiudevano a riccio come tante piccole patrie. Perciò i fatti del 1809 vennero presentati come rivoluzione del solo Tirolo tedesco. Su questo nessuno allora ebbe da ridire: storici italiani e tedeschi, per motivi opposti, accreditarono l’idea di una spaccatura etnica che, come sappiamo, nei fatti non ci fu. Le ricerche e i convegni tenutisi nel corso di quest’anno (di cui all’indirizzo http://www.1809-2009.eu non si dice granché) hanno scalfito la vecchia retorica germanica della rivolta, contribuendo a far conoscere in modo più puntuale anche la partecipazione trentina.

Con tutto ciò, tuttavia, nell’enfasi attuale delle celebrazioni la personalità di Hofer corre ancora il rischio di tornare ad assumere un ruolo che non gli appartiene. Un’immagine nostalgica e oleografica, da eroe di valori autonomistici, non è meno falsificante di quella più bellicosa proposta cent’anni fa. Ed è proprio in questo caso che la storia del primo giubileo si rivela di nuovo istruttiva. Il fatto è che allora non si consumò solo un conflitto politico, ma anche una resa dei conti fra storici. Le decine di libri, saggi, articoli di giornali usciti nel 1909 segnarono la spaccatura definitiva fra la ricerca storica accademica, razionale ma refrattaria a dialogare con la società civile, e una pattuglia di storici più popolari ma capaci di cogliere il bisogno di sapere storico che proveniva da una società in rapido mutamento. Furono questi ultimi, come era facile attendersi, a vincere la battaglia. Scrissero di guerre giuste, di patria, di identità, non immaginando che in pochi anni la memoria del passato si sarebbe trasformata in tragica attualità. Forse, appena usciremo dal frastuono delle commemorazioni, converrà riflettere anche sulle responsabilità degli storici: di quelli che parlano senza pensare alle conseguenze e di quelli che non trovano il linguaggio giusto per farsi capire.