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Economia e politica

I Dioscuri dell'Ulivo, Romano Prodi e Massimo i D'Alema, sono nel pieno fervore delle loro imprese. Il primo sta rimettendo in ordine i conti pubblici. Uno sforzo titanico, con l'illuminato rigore di Ciampi e l'olimpica bonomia del premier, che impegna i sacrifici e le energie dell'intero paese. Doveva toccare anche alla sinistra sopportarlo. Che vi si impegnasse quel centro che guarda a sinistra, poteva essere quasi normale. Per esso il mercato, le sue compatibilita, il pareggio del bilancio, una certa parsimonia nella spesa sociale, sono tutte categorie virtuose della sua tradizione culturale. Anche se, per la verità, negli ultimi decenni in cui pure ha governato, non ha fatto mostra di ispirarvisi poi tanto. Ed infatti - sono questi i paradossi della storia - per recuperare quei tipici valori della migliore ascendenza borghese, il centro che guarda a sinistra ha dovuto incontrarsi con la sinistra.

Per la quale invece far fronte a questa necessità è un compito ingrato.

Se il risanamento sarà completato ed il traguardo dell'Euro sarà raggiunto come pare, la sinistra guadagnerà certo un merito storico che l'intera nazione dovrà riconoscerle. Ma quanto del suo patrimonio ideale e degli interessi popolari da essa naturalmente rappresentati saranno stati sacrificati? La piena occupazione ed una più equa redistribuzione del reddito, l'assistenza ai più deboli e l'eguaglianza non sacrificata alla libertà, la socializzazione dei consumi e dei servizi, sono tutti obiettivi propri della sinistra che ora sono proiettati in un orizzonte sfocato. Resta a consolarci la certezza che se il risanamento avesse governato la destra avrebbe fatto strame di ogni equità ed acuito le tensioni sociali. E siccome il giudizio deve cadere su alternative reali e non illusorie, nonostante tutto, il corso attuale delle cose merita sostegno.

L'altro Dioscuro, Massimo D'Alema, ha avuto il coraggio di avventurarsi in un 'impresa ancora più spericolata: riformare lo stato, il governo ed anche, purtroppo, la giustizia. L'impresa di D'Alema è più temeraria di quella di Prodi perché, mentre nella storia d'Italia è ancora avvenuto che a fasi di economia di scialo siano seguite fasi di frugale (non per i ricchi) restauro, non è invece mai accaduto che siano state attuate radicali riforme istituzionali senza il detonatore di traumi laceranti, come il colpo di stato monarca - fascista del 1922 o la seconda guerra mondiale.

Ed oggi è impossibile paragonare Tangentopoli o 11 referendum sulla legge elettorale del 1993 a quegli eventi. La cesurafra la cosiddetta prima e la cosiddetta seconda Repubblica è molto sfumata, ed anche in superficie si vedono nella seconda molti connotati della prima.

Ma ciò malgrado, D'Alema è riuscito a portare in Parlamento la scialuppa della Bicamerale con un carico di proposte.

Non sono esaltanti. Sono il frutto di un pensiero debole, di un compromesso di basso profilo, di qualche accidentale colpo di mano della Lega. Non sono il prodotto di un travaglio profondo, anche cruento, quale era stata la Costituzione del 1948. Oggi è tutto molto più mediocre. E tuttavia non è questo il lato peggiore. Ciò che preoccupa di più è che nei lavori della Bicamerale hanno pesato negativamente plateali concessioni alla demagogia, miopi giochetti tattici, loschi interessi privati.

E' pura demagogia qualificare come federale lo stato che viene delineato. In realtà vi si disegna uno stato neo-regionale, vale a dire con una più abbondante attribuzione di competenze agli enti-Regione, rovesciando il criterio di ripartizione sancito dalla Costituzione vigente. Ciò io credo che sia corretto, mentre trovo politicamente scorretto ostentarlo come stato federale.

La forma di governo proposta è viziata da pericolose contraddizioni. Il premierato avrebbe avuto la sua logica, come l'avrebbe avuta il presidenzialismo: opposte, ma ciascuna coerente.

L'avere mescolato l'una forma all'altra - e di ciò dobbiamo ringraziare l'irresponsabile cinismo leghista - ha prodotto un mostriciattolo esistenziale.

La giustizia, passata attraverso una cascata di bozze dovute redigere dal suo relatore sotto la pressione di accesissime polemiche, pare che si avvii ad una conclusione passabile grazie, incredibile a dirsi, ad un saggio ripensamento di Fini.

Fra Camera e Senato il percorso è ancora molto accidentato. Maggioranze variabili, incursioni dispettose, conflitto di interessi sono gli incerti di un impresa che D'Alema deve portare a termine. La dovrà consacrare il popolo sovrano con il suo voto. Ma non dovrà essere un voto unico. I tre corpi di riforma sono fra di loro indipendenti. Il rispetto del giudizio popolare esige che siano soggetti a tre distinti voti referendari.

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