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QT n. 11, 30 maggio 1998 Servizi

Donne: diverse anche nel linguaggio

A scuola, una donna può essere direttrice didattica, ma in banca è direttore, al maschile. Come mai?

Dorigatti Elena

Basta con la donna avvocato, ingegnere, direttore, ministro: siamo donne e i nomi che ci riguardano devono essere al femminile. Aver raggiunto una posizione sociale ragguardevole non significa essere diventate degli uomini e quindi utilizzare i loro titoli immodificati, rinunciando all'essere donna. E non nascondiamoci nemmeno dietro al fatto che questo è ormai un uso consolidato e l'italiano è una lingua restia ad accettare i neologismi, perché se possiamo cliccare, faxare e dribblare, possiamo anche chiamare una donna avvocata, ingegnerà, ministra e direttora. Questo è stato l'invito di Lidia Menapace al termine di un incontro pubblico, organizzato dall'associazione "Clessidra" (Centro donne contro la violenza), incentrato sull'importanza del linguaggio riguardante le donne, linguaggio che secondo Menapace ha avuto un'evoluzione attraverso tre fasi.

La prima è quella della parzialità: la donna come parte secondaria, quando si parla di uomo intendendo la totalità riassuntiva di tutto il genere umano. È' una tendenza che permane anche ai giorni nostri, se pensiamo ad esempio che in tutte le manifestazioni del primo maggio campeggiava la scritta "50° anniversario dei diritti dell'uomo", nonostante le femministe abbiano da tempo rivendicato come più corretta la dicitura "diritti umani". L'uomo insomma, considerandosi come totalità, tende anche ad occupare la totalità dello spazio sociale, lasciando alla parzialità delle donne solo dei ruoli specifici; e come nella società, fatalmente, così anche nel linguaggio. Un passo avanti è stato quello di accettare che questa parzialità (la donna) abbia anche delle caratteristiche specifiche (fare figli è una peculiarità che difficilmente è stato possibile negare). Questo riconoscimento ha però creato una serie di pregiudizi che hanno accompagnato, e spesso accompagnano ancora, lo stereotipo femminile. La donna è per natura menzognera (dall'Antico Testamento a tutta la letteratura greca e romana); non è adatta a fare politica (secondo Aristotele, seguito da tanti fino ai giorni nostri, quando con la sinistra - da sempre sostenitrice dei diritti delle donne - al governo, la presenza delle donne in politica è in forte diminuzione); non ha addirittura diritto di parola (dalla frase di San Paolo "nelle assemblee le donne stiano zitte col velo in testa" alle prime assemblee per l'emancipazione femminile in cui alcune associazioni di donne mandarono degli uomini a rappresentarle perché non stava bene per una donna prendere la parola pubblicamente); si ritrova con un corpo pericoloso e impuro (ricordiamo che fino al Concilio Vaticano II la donna dopo il parto doveva recarsi in chiesa per un rito purificatorio).

La specificità non convince Menapace che la considera un aspetto pericoloso, perché riconoscere alle donne delle caratteristiche peculiari che devono essere o censurate o tutelate, è una maniera di considerare il femminile che impedisce alla donna di essere una persona libera.

La presa di coscienza di una propria identità si è rivelata possibile nel momento in cui le donne hanno cominciato a parlare di sé (solo da circa un secolo e mezzo), quando hanno cioè iniziato a dire "io sono io, io sono mia".

Questa affermazione, per quanto possa sembrare un'ovvia presa di coscienza, è stata considerata di un'audacia e di una temerarietà inaccettabile, perché andava contro un'idea delle donne come funzione: la donna era sempre esistita "per qualcuno", mai per se stessa, mentre ora reagisce sostenendo che l'identità che le è stata assegnata per secoli, non è in realtà la sua. Il linguaggio delle donne comincia ad affermarsi: è una prima parola detta in proprio.

Al tentativo di acquisire identità da parte delle donne segue immediata la reazione, e questa identità viene negata con quello che Menapace chiama "genocidio simbolico": la società maschile non permette alla donna di essere nominata, sostenendo che nel momento in cui si parla di uomo, si intende anche donna. Ancora oggi la questione è molto dibattuta: l'idea che la donna possa nominarsi con un nome femminile per le funzioni che svolge non è ancora tranquilla: se una donna è direttrice didattica il nome è femminile, ma nel momento in cui la donna diviene direttrice di banca, viene chiamata direttore. Ma se l'uso del doppio nome maschile e femminile (cittadini e cittadine) non passa probabilmente perché scomodo da applicare (i tedeschi per altro lo utilizzano da tempo senza grandi disagi), come mai l'uso del nome al femminile per qualificare il lavoro delle donne non viene accettato?

Probabilmente perché sono le stesse donne a non voler parlare di se stesse al femminile. Anzi, nella maggior parte dei casi considerano addirittura lusinghiero essere nominate al maschile quando raggiungono posizioni di rilievo. Evidentemente si reputano ben al di sopra delle donne occupate in impieghi più comuni per i quali - guarda caso - viene utilizzata senza problemi la doppia dicitura per il maschile e per il femminile: esiste infatti l'operaia, la bidella...

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