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QT n. 17, 10 ottobre 1998 Servizi

ll tragico fallimento del vescovo Sartori

Le era parsa così esangue la presenza dei fedeli alla processione della Madonna del Carmine, lo scorso agosto, nel suo paesino di montagna, che una donna, tornando a casa, la sentii commentare: "Che desolazione!" Eppure non è lontanissimo il tempo, li osservavo con gli occhi del cittadino sorpreso, che i bambini e i ragazzi, ogni sera, si precipitavano in massa dentro la chiesa per partecipare alla messa, e così prima si potevano ritrovare per un 'ora festosi a gridare e giocare sulla piazzetta antistante.

Oggi, e sarebbero meno, perché i bambini sono diminuiti, drasticamente anche lì, non si ritrovano più, e così la chiesa, e la piccola piazza, rimangono deserte. Sappiamo che quel vuoto non è desolante, perché è segno che quei giovani sono diventati più liberi, a messa scelgono di andarci la domenica alcuni, e possono festeggiare senza adunarsi attorno alla statua che attraversa muta e barcollante il paese. Inarrestabile la secolarizzazione è avanzata, anche in Trentino, nelle città e nelle vallate, travolgendo gli ostacoli frapposti da parte dei vescovi.

Giovanni Maria Sartori ha rappresentato qualcosa di tragico, come ogni figura che non riconosce la storia, e quindi pensa di poterla frenare, e piegare alla sua verità, con il dito dell'autorità di cui si sente investito dall'alto.

Ha temuto, e in questo gli dobbiamo attenzione e rispetto, che quei giovani, quegli uomini, quelle donne, al dissolversi della comunità protettiva della Chiesa, finissero per vagare sbandati, privi di fari, da soli nel mare in tempesta. Ed è vero che all'esaurirsi, o allo sfrangiarsi, dell'identità cristiana, sono cresciute, con la libertà, le insicurezze e le domande. E allora lui ha gridato, fin dal primo giorno ai trentini, la sua risposta che "solo Cristo è luce e speranza nel mondo".

Anche all'interno di un paradigma arcaico si colgono sul mondo lampi di verità, e vi si possono profondere impegno e dedizione. Non è a chi sta al vertice di un'istituzione che chiediamo di fare il profeta: Oscar Remerò e Antonino Bello sono eccezioni. Jurgen Hahermas, in tempi di rapidi mutamenti e quindi di crisi d'identità, riconosce la necessità, e il valore , sia delle aperture che delle chiusure, com'è nel respiro di un organismo che vive.

Ma un progetto giuridicista, di esclusiva restaurazione, "affinché la fede diventi cultura", doveva fallire, seppure dopo qualche apparente, doloroso successo.

Si è circondato di consiglieri fidati, e ha emarginato quelli che, ancora presenti nella chiesa di Trento, formatisi negli anni del dopoconcilio, si lasciavano interpellare dai problemi dei tempi moderni. Che in profondità, per un cristiano, si riducono a questo: come essere oggi "lievito" nella pasta. Finalmente solo lievito, cioè testimoni, dopo i secoli della cristianità onnipotente e pervasiva. L'opportunità che la storia oggi propone ai cristiani fu vissuta dal vescovo come "scristianizzazione" e vi si oppose. Altri, laici e preti, anche parroci di importanti parrocchie della diocesi, si sono sentiti scoraggiati, incompresi, contrastati.

Catapultato in Trentino dal Veneto, vicino eppur così lontano, per normalizzare una situazione anomala, venne accolto con favore, dobbiamo riconoscerlo, da quegli ambienti ecclesiastici e politici che erano preoccupati da una gestione accessivamente conciliare del predecessore mons. Goliardi.

Un intervento su Questotrentino (n.!9 del 1997) di don Matteo Graziola riassume bene lo spirito e il consenso ottenuti da un progetto fatto di un cristianesimo "che solo realizza le esigenze costitutive dell'io", di una Chiesa in "piena sintonia con l'autorità", di entusiasmo per "i centomila trentini che hanno partecipato alla Santa Messa con il Papa invitato dal nostro Vescovo a Trento".

E' un miscuglio di integralismo, di obbedienza al vescovo-funzionario, e di quella che i sociologi chiamano "la religione festiva", cioè organizzata attorno a riti celebrativi ed emozionali. Sono queste, di don Matteo Graziola, parole rivelatrici di un humus, nella loro spontanea naturalezza, ben più di quelle, gridate, e penso non apprezzate, di un personaggio come il giudice Agnoli che plaude, di fronte all'ennesimo atto repressivo, per aver costretto al silenzio un pericoloso comunista, come padre Tiziano Donini.

Il "popolo di Dio", di ispirazione conciliare, nella prospettiva di don Matteo finisce soffocato dal clericalismo. Eppure qua e là, in rivoli sottili e nascosti, ha continuato a scavare. Con qualche raro sussulto più forte: la protesta, ad esempio, per l'allontanamento di don Cristelli da Vita Trentina. Poco, per soffiare su un'istituzione arroccata, e coinvolgerla nel cambiamento. Scriveva Ivo Gattoni, un cristiano stimato dentro e fuori la Chiesa, in occasione dell'arrivo a Trento di Giovanni Sartori, che, a differenza dalle comunità primitive, proprio l'esclusione nella scelta del vescovo di "un'attiva presenza e partecipazione dei fedeli" è all'origine del pericolo "di essere l'uomo delle cerimonie, dell'ufficialità, della burocrazia" L'invito, n. 87-88)

Sul lungo periodo non è il vescovo che fa la Chiesa, è la Chiesa che fa il vescovo: se egli dovrà scaturire non dalla mente di un teologo o dal deserto di un ufficio, ma dalle comunità di fede, allora i cristiani di oggi devono interrogarsi sul loro essere. Con il contributo, se possibile, dell'intera società, anche la più laica. Scriveva autocriticamente, nel carcere fascista, Vittorio Foa: "E' spaventosa l'ignoranza anche delle persone cosiddette colte riguardo alle cose ecclesiastiche e religiose."

Io penso che, nonostante tutto, le comunità cristiane trentine siano ancora antidoto, fra mille contraddizioni e sempre più fragile, ai mali connessi alla modernità, all'egoismo, all'anemia, alla frantumazione. Nel passino dove la processione alla Madonna si snoda ormai esangue e desolata, si svolge anche affollata l'assemblea per la riparazione della chiesa, e gli uomini trasportano, il sabato, dal monte, i tronchi necessari, senza attendere il contributo della Provincia.

Qualcosa permane dunque, di un passato da non disprezzare, e a cui attingere. E altre cose sono cambiate, in questi dieci anni: gli scambi e le manovre fra la Democrazia cristiana e la Curia in Piazza Fiera si sono interrotti, per la scomparsa del partito cattolico, e ciò è un altro segno, positivo, di secolarizzazione.

Anche il nuovo vescovo arriverà, come sempre, inatteso e catapultato. Ma potrebbe essere, forte della sua identità cristiana, più libero, e in un contesto più mosso che nel passato, capace di stimolare il dialogo con altre tradizioni e culture che, con fatica, sono anch'esse in ricerca di un altrove dove l'aria sia per tutti un pochino più respirabile