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Quando il padrone viene da fuori

Culi di pietra/Caritro

Dalla padella alle brace? Ovvero, dai culi di pietra trentini a quelli veneti? Questo era sembrato il pericolo incombente per la Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto nelle scorse settimane, quando il nuovo padrone della Caritro, Unicredito, era percorso da violente scosse interne, descritte da Repubblica in un amaro articolo significativamente intitolato "Il sogno infranto della public company".

L’oggetto del contendere era il solito, ormai noto ai nostri lettori, questa volta riproposto in chiave nazionale: chi deve comandare in una banca, gli azionisti o il ceto politico-burocratico locale?

Le vicende dell’economia italiana hanno già dato negli anni scorsi l’inequivocabile risposta: una conduzione "politica" del sistema bancario è scarsamente efficiente sul fronte interno, fornisce servizi a prezzi maggiori, promuove le imprese non in base al merito (solidità, validità dei progetti) ma alle pressioni politiche. Delle mille gherminelle delle nostre banche per recuperare con taglieggiamenti sui clienti (imbrogliucci sulle valute, sui tassi, tanto per cominciare) quanto perso sul fronte dell’efficienza, è piena la storia recente (e la cronaca: è di questi giorni la denuncia europea dell’ingiustificato aumento delle commissioni - solamente da parte delle banche italiane - per i cambi lira/divise europee, con la risibile scusa che adesso c’è l’euro...) Una situazione insostenibile: e già da diversi anni, fin dai governi Amato e Ciampi, si è iniziata l’inversione di rotta: la banca non è più un’"attività pubblica" bensì, più prosaicamente, un’impresa; la sua finalità non è più la politica economica, bensì fare soldi; non comanda più il burocrate ammanicato con i partiti, a comandare sono gli azionisti. Nella convinzione - ovviamente tutta liberista - che solo così la banca sarà efficiente, con conseguenti vantaggi e per i clienti, e per le imprese, che verranno finanziate perché promettenti, non perché raccomandate.

Questa, per sommi capi, la teoria. La pratica deve fare i conti con un problema grosso come una casa che si chiama privatizzazioni. Per avviare la graduale dismissione delle Casse di Risparmio, il governo si è inventato una nuova istituzione, le Fondazioni, divenute proprietarie della quota pubblica delle Casse, e con l’obbligo, entro un congruo numero di anni, di vendere la loro quota proprietaria. Con un duplice intento: intanto separiamo subito la proprietà pubblica dalla gestione della banca, e poi immettiamo sul mercato le azioni, gradatamente creando la nuova proprietà. Alla fine del percorso le banche saranno privatizzate, e le Fondazioni, con i soldi incassati dalle vendite, potranno dedicarsi ad attività nel campo della cultura, istruzione, assistenza...

Anche questo percorso, peraltro macchinoso, doveva però fare i conti con la realtà. E aveva un punto critico: chi nomina gli amministratori delle Fondazioni? Chi sono venuti ad essere i nuovi - sia pur transitori - padroni della banca? Le nomine sono state politiche e, nella quasi totalità, sono stati nominati i soliti burocrati ammanicati, che si sono subito messi a trafficare per impedire, o almeno ritardare il più possibile, la privatizzazione.

La Caritro invece, per una serie di coincidenze, è stata una delle eccezioni. Tramortita dalle inchieste di Mani Pulite allora sulla cresta dell’onda, la classe politica dorotea, al momento delle nomine si è impappinata (a noi risulta che, in una notte di fine dicembre, le "raccomandazioni" dell’attuale sen. Andreolli siano arrivate con poche ore di ritardo). Risultato: il Ministero del Tesoro riusciva a nominare, in perfetta autonomia, presidente della Fondazione Caritro un alieno, il docente di Economia Giovanni Pegoretti, assolutamente al di fuori delle solite conventicole. Il resto della storia è noto: Pegoretti credeva nel progetto di privatizzazione, si scontrava con i nostrani culi di pietra che la Cassa volevano tenersela stretta, grazie all’appoggio di settori della società (e di Dellai, va detto a suo merito) riusciva a vincere la battaglia, e dismetteva la Caritro inserendola nella nuova aggregazione di banche Unicredito Italiano.

Unicredit si configura come un progetto di banca federale: molto legata al mercato, aggregato di varie banche locali che mantengono la propria autonomia e quindi l’aderenza al territorio propria delle banche piccole; ma che al contempo fanno parte di un unico grande gruppo, fruendo dei servizi centralizzati, dei rapporti con l’estero, dei capitali, e delle integrazioni organizzative proprie dei grandi istituti.

E la proprietà? Questo è il problema. Perché una cosa è la teoria, la public company (proprietari tanti piccoli azionisti; e soprattutto i fondi comuni, i fondi pensione, che come i piccoli azionisti hanno come unico fine la redditività della banca, e che in più sono organizzati, e quindi comandano veramente, non si fanno infinocchiare da manager e direttori); un’altra la pratica: i fondi in Italia sono ancora deboli, e in questa vacanza comandano i "noccioli duri" degli azionisti: in Unicredit assicurazioni, gruppi industriali e - questo è il punto - le Fondazioni.

E qui ritorniamo a bomba: la galassia Unicredit è formata anche da tante Casse di Risparmio, nelle cui Fondazioni però al posto di comando ci sono i culi di pietra di nomina politica; e questi - a differenza di Pegoretti - si guardano bene dal dismettere. E hanno sì aderito ad Unicredit, ma con l’idea di mandare a quel paese la public company, e di continuare a comandare loro.

Di qui la solita lotta per le poltrone: quando l’amministratore delegato di Unicredit Alessandro Profumo si è rifiutato di allargare il peso delle Fondazioni, queste hanno lanciato un allarmante segnale di guerra totale. Hanno venduto lo 0,75% della proprietà alla Deutsche Bank, il colosso che incombe sul sistema bancario italiano; vale a dire: caro Profumo, se non vieni a patti, spacchiamo tutto.

E così Caritro ha rischiato grosso. Di aver cercato un padrone per poter essere più efficiente, ma di essersi solo venduta, a un padrone per di più da fuori, e soprattutto inefficiente. Di aver sostituito i culi di pietra trentini con quelli delle regioni limitrofe.

Ma la dinamica delle cose è ormai più forte dei vecchi ceti. Quando i culi di pietra sono usciti allo scoperto, il titolo Unicredit è crollato in borsa; e per converso Profumo ha avuto l’appoggio di tutti gli ambienti finanziari, banche concorrenti comprese. E’ risultato chiaro a tutti che, di fronte all’attuale realtà internazionale (è di questi giorni la notizia della fusione fra due delle massime banche francesi) non è semplicemente più possibile baloccarsi con gli eterni giochini delle sedie. E così la partita la si è chiusa con qualche posticino in più alle Fondazioni, tanto per salvargli la faccia. E contemporaneamente il governo ha accelerato i provvedimenti che obbligano le Fondazioni a dismettere.

Quando Profumo, dopo la sostanziale vittoria, è venuto a Trento ad illustrare ruolo e prospettive di Caritro nella nuova grande banca federale (espansione verso nord, magari anche attraverso l’acquisto di una banca tirolese), i vertici della Cassa e della Fondazione esibivano un sorriso a trentadue denti: forse era proprio vero: in tempi di grandi tempeste non avevano sbagliato rotta.